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Fino a quando la campagna vaccinale escluderà i minorenni?

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Una bella quota degli abitanti del pianeta, seppur con differenze da un Paese all'altro, ha meno di 18 anni. Questo significa che, se non sarà vaccinata, la popolazione pediatrica potrebbe diventare un serbatoio del virus che minerà gli sforzi per arrivare all'immunità di comunità. Tuttavia, le difficoltà a vaccinare bambini e ragazzi sono molte, e vanno dagli studi più lunghi e complessi alla necessità di autorizzazione da parte dei genitori.

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Seppur con notevoli differenze tra le nazioni (in Italia intorno al 17%, in USA intorno al 25%, più alta nel mondo in via di sviluppo), una bella quota degli abitanti del pianeta ha meno di 18 anni. Riferito all'emergenza pandemica da SARS-CoV-2, questo dato significa che la popolazione pediatrica (bambini e adolescenti), se non sarà vaccinata, diventerà probabilmente un serbatoio del virus che minerà gli sforzi per arrivare all'immunità di comunità.

L'estensione alla popolazione pediatrica degli studi di fase 2 e 3 per i vari vaccini era caldeggiata da molti ricercatori, tra cui quelli della Emory University di Atlanta e da società scientifiche del peso dell'American Academy of Pediatrics, anche in ottemperanza agli indirizzi per l'industria dettati della Food and Drug Administration e dei Centers for Disease Control and Prevention statunitensi. Finora, però, solo Pfizer ha arruolato 100 pazienti di 12-15 anni e 200 di 16-17 anni nello studio pre-autorizzativo di fase 3 e sono stati iscritti nella piattaforma ClinicalTrials.gov, con le sigle distintive NCT04368728, NCT04551547 e NCT04649151, tre sperimentazioni di vaccini a RNA o a virus inattivato su un numero basso di bambini e con una data prevista di valutazione dei risultati nell'estate/autunno del 2021.

La persistente scarsità d'indagini nella popolazione pediatrica è, certo, dovuta al timore di effetti avversi rari e potenzialmente gravi (come in ogni ricerca farmacologica) ma, nel caso specifico di Covid-19, dipende anche dall'insufficiente inquadramento etico, in quell'età, dell'iter accelerato di produzione del vaccino, a fronte della mancata percezione di una sua urgenza, dal momento che bambini e ragazzi sono sembrati, fin da subito, poco coinvolti nell'evoluzione letale della malattia. Il procedere delle conoscenze sulla pandemia ha, però, messo in luce il carattere subdolo e a volte non benigno della Covid-19 infantile: accanto ai casi non gravi, prevalenti, vi sono le imprevedibili complicazioni infiammatorie multi sistemiche Kawasaki-simili e le non così infrequenti polmoniti che colpiscono soprattutto i più piccoli. Sarebbe opportuno continuare a studiare gli effetti di SARS-CoV-2 su bambini e adolescenti e condurre indagini sierologiche nelle comunità ad alta incidenza di SARS-CoV-2 per definire le fasce d'età più colpite, che dovrebbero, eventualmente, avere la precedenza nell'immunizzazione.

Per quanto riguarda la possibilità di trasmettere il virus ai coetanei e agli adulti, sembra assodato che nei bambini e, soprattutto, negli adolescenti, sia simile a quella nelle altre classi d'età, forse aumentata dal minor controllo delle proprie secrezioni e dell'igiene delle mani e dall'incapacità di mantenere la distanza interpersonale. Inoltre, l'RNA virale può persistere per oltre due settimane nei tamponi pediatrici naso-faringeo e rettale, come ha dimostrato una ricerca dell'Ospedale Bambin Gesù di Roma.

Vaccinare bambini e ragazzi sarebbe, quindi, teoricamente, vantaggioso per l'intera società, ma le difficoltà sono molte e ben evidenziate in tutti i lavori esaminati (ancorché firmati da autori che, in gran parte, ricevono fondi di ricerca dalle case farmaceutiche produttrici di vaccini). Gli studi per i vaccini pediatrici sono più lunghi e complessi di quelli per gli adulti, a causa della diversa risposta immunitaria allo stimolo antigenico sia tra adulto e bambino sia nelle varie età infantili. Ne consegue la necessità, da una parte, di determinare le dosi e il numero di richiami appropriati per elicitare quella risposta e, dall'altra, di valutare attentamente il rischio di peggioramenti della malattia denominati VAED (vaccine-associated immune-mediated enhanced disease) o VAERD (vaccine-associated enhanced respiratory disease), per quanto definiti poco probabili. Il primo acronimo si riferisce all'interazione tra gli anticorpi indotti dal vaccino contro la Dengue e ceppi diversi del virus selvaggio. Il secondo indica una reazione respiratoria grave, manifestatasi nel 1967 con il vaccino con virus respiratorio sinciziale attenuato, il cui inoculo non produceva anticorpi protettivi verso un successivo contagio con il virus selvaggio.

Ancora non è chiaro in che misura i vaccini fin qui allestiti incidano sull'infettività: acquisire questa conoscenza è rilevante, perché mentre l'obiettivo dichiarato della vaccinazione di adulti e anziani è la mitigazione della malattia Covid-19, quello di una vaccinazione pediatrica efficace dovrebbe essere la riduzione della trasmissione del virus. Infine, un prolungamento dei tempi (quando non un ostacolo decisivo) nella sperimentazione farmacologica su un minore di 18 anni è la necessità che essa sia autorizzata dai genitori (o tutori legali) e, se ha più di 8 anni, dal bambino/ragazzo stesso: pochi genitori sono disposti a far iniettare una sostanza sconosciuta nei propri figli sani e non è scontato neppure il consenso alla vaccinazione pediatrica dopo un'eventuale approvazione delle agenzie regolatorie.

In realtà, le intenzioni a vaccinare i figli minori contro Covid-19 sono state, finora, poco esplorate: secondo un sondaggio on line britannico, il 48,2% dei tutori legali darebbe l'assenso. Le motivazioni principali del convincimento, pur nella consapevolezza della mancanza di dati specifici, sono la volontà di proteggere i più giovani dalla malattia e il desiderio di riportarli a condurre una vita "normale", fatta di scuola, di sport e di incontri con gli amici. Un altro studio, condotto in Cina (paese di cui s'ignora il grado di condizionamento dell'opinione pubblica), ha, invece, rilevato un'accettabilità della vaccinazione pediatrica del 72,6%, per lo più legata al consenso di un altro membro della famiglia e/o a giudizi positivi sul vaccino letti sui social.

Due storici della medicina, Perri Klass e Adam J. Ratner, pensano che la vicenda del vaccino contro il morbillo abbia qualcosa da insegnare su come le famiglie si orientano al rifiuto della vaccinazione se la malattia da evitare è indebitamente percepita come non pericolosa o se cominciano a girare nei media mistificazioni sulla sicurezza vaccinale. La campagna per eradicare il morbillo non replicò il successo di quella per la polio (malattia che, invece, terrorizzava i genitori americani) e il sospetto circolante nell'opinione pubblica di un nesso tra vaccini e autismo, alimentato dagli attivisti no vax, ma legittimato da un articolo di Lancet nel 1998 (e mai sopito nonostante gli studi di smentita), ha ritardato l'eliminazione del morbillo endemico e ha consentito il succedersi di pericolosi focolai della malattia.

Solo una comunicazione onesta della reale efficacia e dei limiti dei vaccini, anche rispetto alla durata della protezione, tutela le famiglie culturalmente più deboli e i loro figli adolescenti dalle informazioni scorrette e dal diventare preda della propaganda dei "contrari a prescindere". Tra le comunicazioni scorrette, sostengono i pediatri dell'Università dell'Indiana, vi è il refrain "dovremo continuare con mascherine, distanziamento e lavaggio delle mani finché non saremo vaccinati", perché relega tra i presidi di serie B misure di protezione che, usate appropriatamente, sono persino più valide, contro la diffusione del virus, di un vaccino di efficacia modesta.

Avere la disponibilità di un vaccino, di per sé, non cambia il corso di un'epidemia: accettare di farsi vaccinare (atteggiamento che deve rispecchiarsi nell'accettazione delle misure di distanziamento) può fare la differenza. E questo è vero, a maggior ragione, nell'età ribelle per eccellenza, l'adolescenza, come ha dimostrato la vicenda della vaccinazione per l'HPV pensata per coprire l'80% degli adolescenti USA e che, invece, a 14 anni dall'introduzione, ha raggiunto solo la metà di loro.

 

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