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Catia Bastioli: per la transizione ecologica serve «fare di più con meno»

Per la transizione ecologica occorre strategia e una nuova visione imprenditoriale, che sia orientata più sul lungo periodo e agisca in sinergia con gli altri settori della società. Ne parliamo in un’intervista a Catia Bastioli, Amministratrice Delegata di Novamont S.p.A.

Immagine: Catia Bastioli, Novamont Spa

Tempo di lettura: 5 mins

Con il nuovo Ministero per la Transizione ecologica, che oltre alle competenze del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio e del mare gestirà anche la materia energetica (prima assegnata allo Sviluppo Economico), nasce anche un Comitato interministeriale per la transizione ecologica. Insieme all’analogo Comitato e Ministero «digitali», svolgeranno un ruolo di primo piano per portare avanti le missioni contenute nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza: «1. Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura; 2. Rivoluzione verde e transizione ecologica; 3. Infrastrutture per una mobilità sostenibile; 4. Istruzione e ricerca; 5. Inclusione e coesione; 6. Salute». Unitamente al già istituito Comitato interministeriale per la programmazione economica e lo sviluppo sostenibile (CIPESS) – che dal 1° gennaio 2021 ha sostituito il vecchio Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE) – risulta sempre più chiaro anche a livello istituzionale che la sostenibilità è insieme ambientale, sociale ed economica. Così come serve un approccio integrato a livello di tematiche generali, allo stesso modo è necessario che le stesse istituzioni pubbliche e private, imprese, industria e terzo settore cooperino sempre di più.

Su questo e altro abbiamo intervistato Catia Bastioli, Amministratrice Delegata di Novamont S.p.A., presidente di Kyoto Club ed ex presidente di Terna.

Intervista a Catia Bastioli

Come coniugare la necessità di profitto con gli standard di sostenibilità ambientale e sociale?

Oggi gli effetti dell’azione antropica, dell’eccessivo sfruttamento degli ecosistemi e del conseguente cambiamento climatico sono sempre più evidenti agli occhi di tutti, e le perdite economiche dettate dalle catastrofi dirompenti sono tangibili. Come riportato da un recente studio dell’IPBES del 2020, anche le pandemie emergeranno più spesso e arrecheranno più danni all’economia mondiale, a meno che non vi sia un cambiamento trasformativo nell’approccio globale di quelle stesse attività umane che hanno impatti sugli ecosistemi. Secondo IPBES, la prevenzione sarebbe cento volte più economica del costo di risposta alle pandemie. Il costo della degradazione dei suoli in Europa è stimato in 50 miliardi di euro all’anno. Non si tratta più di coniugare profitto e ambiente, ma di comprendere che la transizione verso modelli di sviluppo più sostenibili non è un’opzione, ma una necessità per il futuro dell’economia e delle persone. Le aziende italiane, la finanza e i consumatori lo stanno capendo sempre di più.

Quindi quali politiche occorrono?

In questo cambio culturale occorrono politiche lungimiranti. Serve un nuovo Illuminismo nella loro definizione, che dovrà essere caratterizzato da un equilibrio migliore tra uomo e natura, tra mercati e legge, tra consumo privato e beni pubblici, tra pensiero a breve e lungo termine, tra giustizia sociale e incentivi per l’eccellenza. Tuttavia, per mettere in pratica questo cambio di paradigma sarà necessario coltivare una fortissima etica della responsabilità a livello individuale e collettivo, per affrontare in modo costruttivo, con coraggio e spirito di servizio le sfide epocali di una transizione ormai non più rinviabile, a partire dai nostri territori.

Gli accordi internazionali, come quello di Parigi 2015, impegnano gli stati a rispettare certi obiettivi; come debbono relazionarsi, quindi, stato e industria?

Gli Stati devono essere in grado di declinare gli obiettivi internazionali alle esigenze dei territori, e attraverso un approccio sistemico, trasformare i problemi locali in nuove opportunità. Prendendo come riferimento il contesto europeo, con l’ambizioso progetto del Green Deal l’Europa non mette in campo soltanto una visione ma anche strategie e target chiari e concreti, nonché le risorse necessarie alla loro realizzazione. Per avere risultati sul lungo periodo, è quindi fondamentale che gli Stati esprimano progetti e piani adeguati agli obiettivi messi in capo ed in linea con le più recenti strategie e policy come la Strategia di bioeconomia, il Circular Economy Package, la Strategia sulla Biodiversità, la futura PAC, la Farm to Fork Strategy, o le cinque Missions della Commissione Europea, tra cui la mission per la salute del suolo e l’alimentazione.

Serve quindi una nuova visione imprenditoriale?

In questo ambito, la collaborazione tra settori pubblico, privato e terzo settore sarà strategica per portare sul mercato soluzioni coerenti che massimizzino le ricadute sulle comunità e la rigenerazione delle risorse naturali. Sempre più occorreranno poi manager e imprenditori, nonché investitori, accademici e istituzioni, che comprendano fino in fondo il valore del capitale naturale e della stabilità sociale e lo includano nei loro piani di sviluppo. Ciò implica anche un ripensamento del ruolo delle imprese nella società, che deve andare ben oltre il profitto dell’oggi garantendo trasparenza e ricchezza diffusa per i territori, adottando standard sistemici come nel caso delle B-Corp, il network globale di aziende che soddisfano i più alti standard al mondo di performance sociale, ambientale, economica e si impegnando anche da un punto di vista legale a considerare tutti gli stakeholder.

Cos’è la bioeconomia?

La bioeconomia è quella parte dell’economia che ha a che fare con le risorse biologiche della terra e del mare. La Bioeconomia, se declinata nella logica circolare, come rigenerazione territoriale, con al centro la salute del suolo, e come creazione di interconnessioni tra settori diversi, può essere uno strumento essenziale delle strategie e politiche europee per arginare i fenomeni del cambiamento climatico nel breve e per rendere possibile quello che io chiamo il «fare di più con meno». Per attuare la bioeconomia circolare è richiesto uno sforzo di riprogettazione sistemico in grado di correlare la salute del suolo e dell'acqua, la produzione e la sicurezza alimentare nonché la pressione delle attività antropiche a diverso livello creando un ambito in cui agricoltura, ambiente, industria, grande distribuzione, il settore del trattamento dei rifiuti e mondo accademico e della formazione si integrano. La logica circolare non si deve poi fermare al riciclo di ciò che c’è ma deve andare oltre, verso il ridisegno dei sistemi di produzione consumo e smaltimento per disaccoppiare l’uso di risorse e lo sviluppo. I prodotti della bioeconomia, derivanti da biomasse, scarti e sottoprodotti, non devono essere pensati per sostituire quelli esistenti, ma come soluzioni a specifici problemi: ad esempio possono permettere di superare i gravi problemi di accumulo di inquinanti in acqua e, principalmente, nel suolo.

In generale, qual è il ruolo della ricerca in ambito industriale?

La ricerca scientifica è il motore dell’innovazione tecnologica e in questo settore, che coinvolge aree ed anime diverse, è indispensabile sostenere una ricerca multidisciplinare che permetta di imparare sul campo. L’approccio della scienza partecipata deve giocare un ruolo chiave nella formazione di qualità con approccio olistico, e soprattutto nel coinvolgere i giovani, la società civile, i media e ognuno di noi in progetti sistemici di territorio. Inoltre, le conoscenze scientifiche ed economico-umanistiche devono evolvere di pari passo per trovare un nuovo equilibrio tra sviluppo, uso delle risorse e riconnessione tra economia e società.

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