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Prove, non opinioni, per affrontare la complessità ambientale della sindemia

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Sui risultati scientifici si registrano quotidianamente interpretazioni sbagliate o strumentali. Le difficoltà interpretative e comunicative diventano più acute quando si passa dalla semplice descrizione dei fenomeni alla ricerca delle cause che li hanno generati: il doppio caso delle cause delle malattie infettive, come Covid-19, e di quelle non trasmissibili, come quelle attribuite all’inquinamento, pare calzare a pennello e mi ci soffermerò fatta una breve premessa.

Non parlo degli errori degli studi, dai quali – per dirla con Karl Popper - si dovrebbe imparare, e neanche della conoscenza assolutamente certa che si rivelò un idolo già da sir Francis Bacon. Parlo piuttosto d’interpretazione scambiata o proposta come verità o verità assoluta (aggettivo, quest’ultimo, sempre più usato e abusato).

Come appropriatamente ricordato da Pietro Greco nel suo pamphlet sull’errore (Errore, Doppiavoce, 2019)

Ecco, Einstein appartiene alla generazione, forse la prima in assoluto, che non si vergogna di ammettere i propri errori… perché considera l’errore non una patologia ma la fisiologia della scienza. Possiamo dunque dire che la scienza del novecento in senso lato – con i ricercatori sul campo, con i filosofi, con gli storici – scopre l’utilità dell’errore

Ma il problema dell’interpretazione basata sull’opinione travalica l’errore ed è perfino più insidioso. Ogni persona di scienza sa che i risultati scientifici dovrebbero essere ancorati alle prove empiriche, proprio per non essere alla mercé delle opinioni, ma non si può assumere che questo sia un patrimonio comune.

Non che le opinioni, e i loro cambiamenti, siano da sottovalutare o trascurare, quando si sa che nella vita sociale, politica, delle interrelazioni e della comunicazione assumono rilevanza, a volte perfino centralità, fino a farle diventare l’oggetto del desiderio (l’esempio più evidente è quello dei sondaggi per comprendere e cambiare le opinioni).  Ma non dovrebbero sfuggire i caratteri di soggettività e volubilità delle opinioni, che si formano riguardo a particolari fatti in assenza di criteri certi per giudicare la natura delle cose. Volendo essere conseguenti, insieme all’espressione di un’opinione dovrebbe anche accompagnarsi la possibilità di sbagliarsi.

Questo in realtà succede, tanto è vero che spesso si sente dire o si leggono frasi “difensive” come: fino a prova contraria, è solo la mia opinione o, addirittura, secondo la mia modesta opinione. D’altra parte sono tante le volte che per dare forza alla propria opinione si sente aggettivare con: corrente, maggioritaria, comune, generale, fino all’ultima gradazione di unanime o universale, “insinuando” così, senza alcuna prova quantitativa, che l’opinione combacia con la verità.

Cosa ben diversa è il punto di vista su una situazione in itinere, su come contenersi e sui provvedimenti da prendere, elementi della vita quotidiana e fondamento del confronto sociale e politico, che includono la legittima aspirazione a fare cambiare opinione agli altri facendo prevalere la propria. Già nel XVII secolo Bacone osservava che l’uomo quando si forma un’opinione, poi fa di tutto per sostenere la propria idea, nonostante le tante evidenze contrarie. Una riflessione importante tanto più perché distingueva tra opinione e evidenza. La comprensione e l’uso corretto delle evidenze scientifiche effettivamente disponibili dipendono dal modo di comunicarle e dalla cultura scientifica diffusa, ma anche dalla dose di opinione personale, cioè di interpretazione soggettiva di fatti ancora incerti. In questo le responsabilità della comunità scientifica è grande.

Bene inteso, il “male” non si annida nell’interpretazione soggettiva ma nel non rendere chiari e comprensibili i criteri e i limiti interpretativi; per non parlare dell’incapacità di interpretare per mancanza di competenza: davvero difficile sentir dire questo non lo so, su questo non sono competente, non è la mia disciplina!

Anche nella tragedia pandemica concetti come opinione corrente, verità, realtà oggettiva sono spesso usati con nonchalance. Di rado lo scienziato-comunicatore si assume la responsabilità di trasmettere i limiti conoscitivi, di calarsi nella situazione caratterizzata dalla provvisorietà e dall’incertezza, di “umanizzarsi”, nonostante chi lo fa sia invece piuttosto apprezzato.

Per approfondire il ragionamento possono essere utili i quattro metodi proposti da Charles Sanders Peirce (1839-1914), fondatore del pragmatismo e tra i padri della semiotica moderna, per produrre e diffondere conoscenze:

  1. asserire che una cosa è vera perché si continua a dire che è vera (metodo della tenacia)
  2. che è vera perché stabilita da soggetto dotato di autorità (metodo della autorità)
  3. che è vera se è ragionevole (metodo a priori o dell’intuizione)
  4. che è determinata da realtà esterna non influenzata dal pensiero umano (metodo della scienza)

Sulla vicenda della comunicazione sulla pandemia di Covid-19 non è difficile decifrare l’uso e l’abuso dei quattro metodi per sostenere/ostentare verità, e ognuno si potrà dilettare a riempire le caselle con gli “esperti” che con costanza e con alterne fortune interviene da vari mesi sui media. Ciò che è più difficile da identificare è invece la commistione dei quattro criteri, peraltro variabili nel tempo, anche perché solitamente si propende per ritenersi ragionevoli e scientifici, tenaci in accezione positiva e autorevoli, mai autoritari.

Le difficoltà interpretative riguardano sia le malattie ambientali, che dipendendo da molte cause (multi-causali) lasciano spazio alla discussione, sia le malattie infettive (come Covid-19) che si trasmettono attraverso agenti patogeni che entrano in contatto con l’individuo. In termini più tecnici, le malattie cronico-degenerative hanno una certa probabilità di accadere dipendente da tanti fattori (meccanismo probabilistico), mentre quelle infettive accadono in ragione delle condizioni di trasmissibilità dell’agente patogeno e della complessa interazione tra il sistema immunitario e l'organismo estraneo (meccanismo deterministico).

Come per l’ecologia, anche per l’epidemiologia si parla di transizione, perché ci si sta spostando sempre più verso malattie multi-fattoriali, in cui entrano in gioco sia cause ambientali sia individuali (stili di vita ma anche caratteristiche genetiche) e un pericoloso intreccio tra malattie trasmissibili e non-trasmissibili. Il modello offerto dalla pandemia da Covid-19 è esplicativo: pure essendo da agente infettivo - il coronavirus SARS-CoV-2 - ha come cause ambientali distali i cambiamenti climatici e i conseguenti cambiamenti comportamentali tra specie animali. Inoltre, Covid19 interagisce con numerose malattie croniche e con molti fattori di rischio, tra cui obesità, fumo, iperglicemia, inquinamento atmosferico, che caratterizzano il nostro tempo: un'interazione tra pandemie di natura diversa definita sindemia. Molti studi, anche precedenti all’arrivo della pandemia, hanno mostrato che popolazioni esposte a inquinamento, oltre a essere più suscettibili a malattie ambientali, essendo più fragili, lo sono anche a patogeni batterici e virali.

I 6,7 milioni di decessi prematuri per ictus, infarto, diabete, cancro ai polmoni, malattie polmonari croniche e malattie neonatali, attribuibili globalmente a esposizione a inquinamento atmosferico (State of Global Air 2020), sono la punta dell’iceberg di una fragilità molto più vasta, esposta a sindemie.

La portata e le implicazioni dei fenomeni che sono sotto i nostri occhi dovrebbero ridurre lo spazio delle opinioni a vantaggio della ragione, intesa in senso kantiano come strumento dialettico di accesso alla verità, come esercizio critico di riconoscimento del proprio limite. La tecnica e la tecnologia possono dare moltissimo ma in equilibrio con le capacità della scienza di comprenderne gli effetti e finalizzata al governo della società della conoscenza.

Più la situazione è complessa e critica più occorre valorizzare la conoscenza storicamente acquisita e al contempo aderire a semplici regole, la prima delle quali ritengo che sia la necessità di argomentare razionalmente sulla base di dati di pubblico dominio, anziché dare ricette basate su dati controversi, usati in modo parziale e proponendo come proposizioni scientifiche quelle che sono opinioni. Quando invece i dati disponibili non sono sufficienti per un’argomentazione cogente, dovrebbe essere spiegata l’incertezza e incoraggiato il dissenso e la competizione fra diverse ipotesi senza pretendere di stabilire prematuramente nuovi paradigmi.

Per una ripartenza con un piede diverso da quello che ha lasciato le impronte così profonde che oggi stiamo sperimentando, sarebbe utile dotarsi di strumenti e luoghi in cui soggetti diversi si confrontano per trovare un consenso: luoghi di partecipazione multidisciplinare funzionali a superare la separazione tra scienze umane e sociali e scienze “dure”, alla cui base porre la condivisione di principi etici e di valori democratici prima ancora di definire gli obiettivi.

 


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