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Scimpanzé, gruppo in cui sei socialità che trovi

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La prosocialità, cioè i comportamenti che favoriscono altri individui, non era stata dimostrata con chiarezza negli scimpanzé. Uno studio recentemente pubblicato su Science Advances mostra come, tenendo conto dell’aspetto ecologico, questa specie abbia in effetti comportamenti prosociali, ma che variano a seconda del gruppo: un aspetto richiede di considerare anche gli aspetti culturali della prosocialità ed evidenzia l’importanza di indagare le ragioni alla base del comportamento stesso.

Crediti immagine: Rishi Ragunatha/Unsplash

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Sono molte le caratteristiche comportamentali e le abilità che a lungo abbiamo ritenuto essere proprie esclusivamente della nostra specie. La capacità di usare gli strumenti, per esempio, osservata in una varietà di specie, dagli elefanti ai corvidi; la condivisione di una cultura all’interno di un gruppo, come visto in alcune specie di megattere, negli elefanti e in alcuni primati; o ancora la capacità di attribuire stati mentali ad altri individui.

Tra tutte queste caratteristiche vi è anche la prosocialità, che si può definire come “un comportamento volontario messo in atto da un individuo a beneficio di un altro”. Anche in questo caso, è stato solo in tempi relativamente recenti che la ricerca ha mostrato come comportamenti di questo tipo non siano propri solo degli esseri umani, come si pensava, ma si possano ritrovare anche in altri animali. Questi comprendono sia alcune specie da noi filogeneticamente distanti, quali i lupi e alcuni uccelli (per esempio le gazze), sia i primati. Può sembrare strano che proprio su uno dei nostri parenti più prossimi, lo scimpanzé, la questione non sia affatto chiara: i molti esperimenti condotti, infatti, avevano dato risultati contrastanti.

Un articolo recentemente pubblicato su Science Advances, però, suggerisce che in effetti i comportamenti prosociali possano essere riscontrati anche negli scimpanzé. Il lavoro presentato nello studio si svolge in un contesto che, a differenza degli esperimenti precedenti, permette di tenere in considerazione l’aspetto ecologico e, soprattutto, indaga anche le differenze tra i gruppi sociali – un primo passo per individuare anche i meccanismi alla base dei comportamenti prosociali.

Vuoi un po’ di succo?

Come scrivono gli autori dello studio, di solito i paradigmi sperimentali per valutare la prosocialità negli scimpanzé danno più importanza al rigore sperimentale che alla validità ecologica. «I test si svolgono tipicamente in laboratorio o comunque in condizioni molto controllate, e prevedono per esempio lo scambio di oggetti come i gettoni (che permettono di “comprare” qualcosa, come un premio in cibo) tra pochi individui, spesso una coppia, il tutto per periodi di tempo ben definiti», spiega Elisabetta Palagi, etologa dell’Università di Pisa. «Quindi difficilmente prevedono un comportamento propriamente spontaneo dell’animale, che viene messo in condizioni di eseguire quell’atto».

Invece, nello studio descritto su Science Advances, i ricercatori hanno lavorato al Chimfunshi Wildlife Orphanage, un santuario per il recupero degli scimpanzé in Zambia, dove gli animali vivono in semi-libertà, anche se sono nutriti e curati dagli operatori del centro. Hanno inoltre osservato tre diversi gruppi ai quali è stata data la possibilità di compiere la scelta di mettere in atto un comportamento prosociale lasciando loro un periodo d’azione lungo (due ore) e senza che il compagno fosse stato individuato degli sperimentatori. In altre parole, lo scimpanzé era libero di decidere o meno se partecipare al test. Ma che test?

L’esperimento era questo: gli scimpanzé potevano scegliere se premere o meno un bottone che avrebbe azionato una fontanella di succo di frutta dalla quale un compagno o più compagni, ma non loro stessi, avrebbero potuto bere. La condizione di controllo, per stabilire che l’atto di schiacciare il bottone non venisse eseguito casualmente o comunque per ragioni diverse dal permettere al compagno di bere, era rappresentata da una fontanella uguale, ma il cui succo rimaneva inaccessibile e della quale dunque nessun individuo avrebbe beneficiato.

Qualcuno più, qualcuno meno

I risultati dell’esperimento mostrano che, in effetti, gli scimpanzé azionano la fontanella più di frequente se c’è un compagno che vi ha accesso e può quindi bere. Ma con qualche differenza tra i diversi gruppi osservati. «Questo test, calato all’interno di un gruppo sociale, mostra che gruppi diversi si comportano in modo differente e che la tendenza prosociale co-varia con i livelli di tolleranza del gruppo, definiti come la probabilità degli individui di stare vicini senza aggredirsi. In altre parole, l’identità di un certo gruppo appare come una determinante del comportamento prosociale», spiega Palagi. «Un risultato che forse, a livello intuitivo, può non sembrare sorprendente ma che comunque non è mai stato dimostrato prima. Questo è anche coerente con quanto osservato in altre specie: per esempio, il comportamento prosociale è riscontrato nei bonobo, che sono meno nepotisti rispetto agli scimpanzé, e anche meno neofobici. Si dimostrano, cioè, più tolleranti anche con individui estranei al gruppo sociale e tendono per esempio a dividere il cibo anche con soggetti non familiari, mostrando comportamenti prosociali perfino con soggetti che appartengono a comunità diverse».

La differenza nelle tendenze prosociali tra gruppi diversi richiama anche all’aspetto culturale del comportamento. Come scrivono gli autori dello studio, in effetti, una possibile prova della trasmissione culturale dei comportamenti prosociali viene anche da un lavoro del 2015, nel quale gli scimpanzé potevano scegliere se far avere del cibo a un compagno e in cui era stato osservato che gli individui che si sono trovati con un compagno più “generoso”, hanno aumentato essi stessi i comportamenti prosociali.

Da cultura a biologia

Proprie queste marcate differenze di prosocialità nei diversi gruppi spingono gli autori a evidenziare l’importanza di capire i motivi che determinano un comportamento prosociale. Motivi non indagati nello studio, «Ma almeno si porta l’attenzione su quest’aspetto: infatti, capire le ragioni alla base di un certo comportamento animale è importante quanto stabilire la presenza del comportamento stesso», come commenta Palagi. «Tanto più che la prosocialità è molto difficile da valutare, e perfino da definire – e infatti la definizione esatta è ancora in parte dibattuta in ambito accademico».

E se questo studio mostra come possa cambiare tra i gruppi, dobbiamo considerare come possa in realtà variare anche, semplicemente, a seconda del contesto: per esempio, un individuo può essere più propenso a mettere in atto un comportamento prosociale con un compagno con il quale ha un buon rapporto, o ancora i comportamenti possono cambiare a seconda che vi siano o meno altri a osservarli. «Non possiamo neppure escludere del tutto che, per esempio, per lo scimpanzé l’azionare la fontanella non sia una forma di gioco, per vedere come reagisce il compagno», continua la ricercatrice.

«In generale, la diffusione nel regno animale di comportamenti che un tempo erano considerati esclusivi dell’essere umano ci dice che sono molto più legati alla biologia di quanto potremmo credere. Per noi è normale pensare che un qualsiasi comportamento complesso sia legato a elevate abilità cognitive, costrutti mentali e norme sociali», conclude Palagi. «Ma se ci soffermiamo a pensare cosa effettivamente serva per mettere in atto quel particolare comportamento, spesso ci rendiamo conto che bastano pochi semplici elementi, come la capacità di riconoscere i compagni individualmente e ricordare le loro azioni. E se il comportamento ha un vantaggio in termini di fitness (anche se riconoscere il beneficio può non essere semplice, magari perché si verifica solo a lungo termine), che può derivare ad esempio dalla coesione sociale, ecco che all’improvviso questi comportamenti appaiono quasi ovvi e non più il risultato di un complesso processo cognitivo e culturale».

 


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