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L’incantevole morte della realtà: Labatut e le vertigini del pensiero scientifico

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Benjamín Labatut

Tempo di lettura: 7 mins

Benjamin Labatut dona carne e sangue alle vertigini del pensiero scientifico, ausculta i battiti che muovono teorie fisiche e matematiche apparentemente senza cuore, inventa storie che aprono porte nella realtà. Della realtà ordinaria, che tutti conosciamo grazie ai nostri sensi, e di quella straordinaria, nascosta ma presentissima, che da circa un secolo alimenta le tecnologie di cui oggi nessuno potrebbe più fare a meno e che tuttavia “nessun’anima, viva o morta, ha veramente capito”. Quando abbiamo smesso di capire il mondo, edito da Adelphi, è un caso editoriale e sarebbe strano il contrario.

Carnefici della verità

Labatut non si limita a tracciare la genealogia di formule matematiche abissali in grado di ridisegnare lo spazio e la geometria per arrivare al “cuore del cuore” delle cose, come quelle di Alexander Grothendieck e Shinichi Mochizuki, non si limita a ricostruire gli slanci sovrumani da cui nascono i calcoli di Karl Schwarzschild, che con infinito stupore di Einstein risolse le equazioni della relatività generale intravedendo la possibilità di una “lacerazione” del tempo e dello spazio; le ipotesi di Louis de Broglie, raffinato e bizzarro principe dal talento sconfinato che intuì la natura duale, materiale e immateriale, ondulatoria e corpuscolare, non solo della luce ma di tutta la realtà (“Non è solo la luce a subire questo sdoppiamento, ma ognuno degli atomi con cui Dio ha costruito l’universo”); le equazioni di Erwin Schrödinger, crepuscolare tombeur de femmes capace di catturare in una formula, la funzione d’onda, tutte le possibili evoluzioni di un qualsiasi sistema fisico, quasi fosse possibile fotografare migliaia di realtà parallele; le oscure matrici di Werner Heisenberg, inventore di un nuovo modo non solo di descrivere ma di pensare la fisica subatomica; Labatut non si limita a fare tutto questo, lo scrittore cileno intreccia le conquiste del pensiero scientifico in un romanzo psicologico in cui ogni personaggio è al tempo stesso vittima e carnefice di quel che comunemente va sotto il nome di verità.

La meccanica quantistica? Un monolite caduto dallo spazio

“Possiamo scindere gli atomi, ammirare la prima luce e predire la fine dell’universo con un pugno di equazioni, scarabocchi e simboli arcani che le persone normali, che pure controllano ogni minimo dettaglio della propria vita non comprendono. Ma non si tratta solo di gente comune: nemmeno gli scienziati capiscono più il mondo” dice nell’Epilogo il giardiniere notturno al protagonista, l’io narrante che in una manciata di capitoli conduce il lettore nella solitudine del genio, implacabilmente in preda delle proprie ossessioni fosse pure tra le trincee di una  guerra (Karl Schwarzschild e Fritz Haber), in castelli nobiliari rappezzati d’opere d’arte manicomiale (Louis de Broglie), in coffee shop tra ubriachi e prostitute o su isole sperdute (Werner Heisenberg), in sanatori (Erwin Schrödinger) o in comunità hippie (Grothendieck). “Prenda la meccanica quantistica – continua il giardiniere, ex matematico che parla della matematica come gli ex alcolisti parlano dell’alcol – la gemma sulla corona della nostra specie, la teoria fisica più precisa, più bella e di più vasta portata che sia mai stata concepita. Sta alla base di internet, dei telefoni cellulari e offre la promessa di un potere digitale paragonabile solo all’intelligenza divina. Ha trasformato il nostro mondo fino a renderlo irriconoscibile. Sappiamo come usarla, funziona per una sorta di miracolo, e tuttavia su questo pianeta non c’è una sola anima, viva o morta, che la capisca veramente. La mente non è in grado di districare i suoi paradossi e le sue contraddizioni. Sembra che questa teoria sia caduta sulla Terra come un monolite proveniente dallo spazio, e noi le giriamo intorno a quattro zampe tipo scimmie, giocandoci, lanciandole contro sassi e bastoni, ma senza un’autentica cognizione”. Non sono le iperboli narrative a dare ritmo alle pagine, cose del genere le hanno pensate e dette gli scienziati per primi ed è fin troppo facile ricordare le celebri parole di Richard Feynman, secondo cui “nessuno capisce la meccanica quantistica”. Ad appassionare non è (solo) l’elenco di paradossi che chiamiamo realtà o la scoperta di paesaggi mentali surreali puntualmente confermati da ogni esperimento, ad appassionare è la narrazione di questa mirabile insensatezza. Ma sia chiaro, quella di Labatut non è una denuncia nei confronti di una scienza divenuta incomprensibile, tutt’altro, la sua è una dichiarazione d’amore. Picasso amava ripetere che “Ogni atto di creazione è innanzitutto un atto di distruzione”, Labatut mette in mostra quanto questo sia vero anche per lo scienziato e non solo per l’artista, con la differenza che a morire ogni volta non è un’idea di realtà ma la realtà.

Squarci nell'universo: la "singolarità di Schwarzschild"

Prendiamo per esempio la reazione di Karl Schwarzschild all’ipotesi che pian piano stava balenando nella sua testa, passata alla storia come la “Singolarità di Schwarzschild”. Immerso nella carneficina della Grande Guerra, approfitta dei privilegi di tenente per farsi spedire riviste di fisica e, nel novembre del 1915, legge le equazioni sulla relatività generale pubblicate da Einstein. In meno di un mese le risolve, le invia al padre della relatività lasciandolo letteralmente basito, e ferito quasi a morte continua ad affinare i suoi calcoli. Si rende conto che, se applicati a una stella comune, le formule confermano quanto previsto da Einstein sulla curvatura dello spazio. Il problema nasce quando si ipotizza l’esistenza di una massa troppo grande in un’area troppo piccola, in quel caso i numeri gli fanno intravedere qualcosa di inconcepibile, la curvatura infinita dello spazio, una sorta di voragine senza fine separata dall’universo. Sono i buchi neri, solo mezzo secolo prima di essere concepiti. La sua è la reazione di un uomo atterrito. “L’immaginazione umana non riesce a trovare un solo luogo in cui gettare l’ancora” e l’alternativa non possono essere queste “sfere morte paragonabili a molecole di gas che volano da una parte all’altra in modo del tutto irregolare, al punto che il loro stesso caos sta per assurgere a principio”. Svela un mistero e trova l’incomprensibile.

Vedere l'invisibile, le matrici di Heisenberg

E così pure Werner Heisenberg, che a poco più di vent’anni inventa una nuova fisica partendo da un solo assunto: possiamo parlare solo di ciò che possiamo osservare, cosa che per chi si occupa di particelle subatomiche può voler dire che non possiamo parlare più di niente. E invece no, perché ogni volta che un elettrone cambia orbita emette un fotone e questo può essere registrato su una lastra fotografica. Ecco, Heisenberg parte da qui, dalle tracce dei fotoni emessi dagli elettroni per capire cosa accade nell’infinitamente piccolo e, incredibilmente, ci riesce. È come dedurre tutte le regole del torneo di Wimbledon, da quanto deve essere tesa la rete all’obbligo (all’epoca) dei giocatori di vestirsi di bianco, solo potendo vedere le palline lanciate fuori dallo stadio. Anche per lui è pressoché impossibile cogliere la connessione tra le matrici inventate nel giugno del 1925 sull’isola di Helgoland e il mondo reale, fatto sta che funzionano. Labatut immagina l’incontro tra Heisenberg e il suo maestro, Niels Bohr. Passeggiano nel freddo inverno di Copenaghen, il giovane gli racconta la strana relazione binaria tra le proprietà degli oggetti quantistici, il fatto per cui meglio si conosce una variabile, peggio si conosceranno tutte le altre, la condanna per cui misurare con assoluta certezza la posizione di un elettrone significherà non poter sapere nulla della sua velocità, l’assurda condizione per cui, immobile o velocissima come la luce, quella porzione di materia sarà sistematicamente inaccessibile. “Bohr volle sapere se quelle relazioni si presentavano a qualsiasi scala della materia o solo a livello subatomico; Heisenberg gli assicurò che quelle relazioni funzionavano per gli elettroni esattamente come per loro stessi, benché l’effetto negli oggetti macroscopici fosse impercettibile e in una particella gigantesco”. Bohr vuole sapere se questo è un limite dovuto agli strumenti teorici o empirici dettati dal tempo, e Heisenberg, gelido, gli risponde di no. “Questo limite è costitutivo della realtà, nessun fenomeno può avere più attributi definiti contemporaneamente”. La sua prima intuizione di fermarsi solo a quanto osservabile era più vera di quanto potesse immaginare: non si può vedere un’entità quantistica per la sola ragione che essa non ha una sola identità. L’indeterminazione governa la struttura delle cose. Anche Heisenberg come Schwarzschild svela un mistero e trova l’incomprensibile.
 
Secondo Einstein “la fisica è un tentativo di afferrare concettualmente la realtà, quale la si concepisce indipendentemente dal fatto di essere osservata”. Il lavoro di Labatut è il racconto di come la scienza ha meravigliosamente finito per smentirlo. 

 


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