Questo è un anno decisivo per la lotta alla crisi climatica, e i cambiamenti che ci aspettano investiranno tanto i grandi sistemi quanto la vita di ogni singolo cittadino. Ma quanto le nostre democrazie potranno spingere sull’acceleratore della “rivoluzione verde”, fintanto che la maggioranza della popolazione sembra mancare di una chiara percezione della posta in gioco riguardo la risposta alla crisi climatica? Psicologi, sociologi ed esperti della comunicazione del rischio potrebbero aver già trovato una risposta.
Il 2021 è un anno decisivo per la lotta alla crisi climatica. In direzione della COP 26 del prossimo novembre, gli Stati Uniti d’America sono da poco rientrati nell’accordo di Parigi, la Cina promette di raggiungere zero emissioni nette entro il 2060, mentre l’Europa punta a realizzare lo stesso obiettivo nel 2050, con un traguardo intermedio di riduzione delle emissioni del 55% nel 2030. Per quanto riguarda l’Italia, il governo è impegnato in queste stesse settimane nell’aggiornamento del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), sulla base del quale la Commissione Europea deciderà se confermare lo stanziamento dei circa 208 miliardi di euro previsti dal pacchetto formato dal quadro finanziario pluriennale e dal Next Generation EU, cioè il programma dell’Unione Europea per sostenere la risposta a Covid-19 e per accelerare la transizione verso un’economia e una società climate neutral.
Quelli che ci aspettano nel prossimo futuro sono grandi cambiamenti, che investiranno tanto i grandi sistemi quanto la vita di ogni singolo cittadino. Viene da chiedersi allora quanto le nostre democrazie potranno spingere sull’acceleratore della “rivoluzione verde” fintanto che la maggioranza della popolazione - ora preoccupata soprattutto dalla pandemia - sembra mancare di una chiara percezione della posta in gioco riguardo la risposta alla crisi climatica. Psicologi, sociologi ed esperti della comunicazione del rischio potrebbero aver già trovato una risposta.
Gli asintomatici della crisi climatica
Il rischio è qualcosa di diverso da un calcolo di morti e feriti e dalla semplice stima di incorrere in un danno, in quanto è il rischio percepito da cuore e mente a dettare legge nella risposta a una minaccia (Epstein 1994; Sjoberg 2007; Brosch 2021).
Come spiegò Peter Sandman all’inizio degli anni Novanta, oltre alla probabilità del pericolo e alla gravità di un danno, i sentimenti di paura e indignazione scatenati dalla reazione delle autorità giocano infatti un ruolo chiave nell’influenzare la dimensione del rischio, e rappresentano quindi la bussola dell’azione d i comunicatori e istituzioni (Sandman 2008).
Secondo la letteratura, il rischio climatico ha tutte le caratteristiche per suscitare in noi una forte reazione emotiva, perché si tratta di un rischio sconosciuto, incontrollabile e che colpisce la popolazione in modo eterogeneo. Tuttavia, la generale reazione di indifferenza o negazione delle persone lascerebbe intuire che la mossa migliore per la comunicazione sia la care communication, il cui obiettivo è quello di coltivare la consapevolezza del rischio climatico informando e allertando le persone. L’obiettivo del movimento Extinction Rebellion, per esempio, è quello di sensibilizzare sull’urgenza della crisi e mobilitare alla disobbedienza civile il 3,5% della popolazione mondiale. Di fronte a un impegno non più rimandabile come la risposta alla crisi climatica ed ecologica, le manifestazioni pacifiche degli attivisti sono una reazione naturale e legittima. Malgrado ciò, le persone sembrano mostrare una scarsa reazione alle azioni di sensibilizzazione. Perché questa strategia non sortisce gli effetti desiderati?
Secondo Sandman, dietro alle reazioni di indifferenza o negazione rispetto agli allarmi degli scienziati si nasconderebbe in realtà la difficoltà di molti di noi a gestire cognitivamente un messaggio talmente fuori scala da risultare indecifrabile per la mente (Sandman 2009). Una sorta di interruttore salvavita per proteggerci dalla paura, la tristezza e il senso di colpa per gli impatti dei cambiamenti climatici sulle presenti e sulle future generazioni. Siamo nell’era degli “asintomatici della crisi climatica”.
Una spiegazione per la reazione di rifiuto causata dalla paura è la negazione da evitamento, cioè un meccanismo psicologico di minimizzazione o negazione dell’importanza di un rischio, che funziona attraverso la neutralizzazione di informazioni negative per noi rilevanti (Wiebe & Korbel 2003). Un secondo tipo di negazione, che si associa a bassi livelli di ansia (Thompson & Ting 2012), è quella guidata dal cosiddetto optimism bias, a causa del quale ci convinciamo che gli eventi spiacevoli abbiano meno probabilità di accadere a noi stessi che agli altri (Sharot 2011). Questo pregiudizio in particolare può applicarsi bene al rischio climatico, cioè a qualcosa che percepiamo psicologicamente distante, come un insieme di eventi incerti che immaginiamo verificarsi in un futuro lontano, con impatti su luoghi lontani e su persone diverse da noi (Pidgeon 2012).
Un’altra reazione emotiva di apatia e negazione riguarda la paura e l’ansia per i cambiamenti che la risposta alla crisi climatica porta con sé. In particolare, la resistenza al cambiamento può comportare importanti effetti sul piano emotivo, cognitivo e comportamentale (Ford et al., 2008). Nel caso dell’emergenza climatica, questa reazione può avere a che fare con i timori per gli importanti cambiamenti che la transizione ecologica comporterà tanto per i sistemi economici e sociali quanto per i nostri stili di vita.
Per quanto riguarda la paura della minaccia climatica, gli esperti raccomandano di provvedere alla sensibilizzazione delle persone accompagnando le notizie e gli appelli sui rischi e gli impatti, che fanno leva sulla preoccupazione, con messaggi di efficacia. Questa strategia, pur favorendo la percezione della gravità della minaccia e della suscettibilità, serve a mostrare quella “luce in fondo al tunnel” utile a innescare una risposta e a limitare i danni da un possibile eccesso di ansia (Witte & Allen 2000).
Ma questo non basta. Se l’attuale strategia della care communication non sta funzionando a dovere, questo esito non è dovuto solo a una carenza di messaggi di efficacia dagli attivisti e dell’impegno di sensibilizzazione da parte di istituzioni e media. Probabilmente il grosso limite sta nel trattare la crisi climatica come qualcosa che deve ancora accadere. Se riconoscessimo invece che la crisi è già iniziata, ciò su cui dovremmo puntare sarebbe allora un’efficace crisis communication, che ci consentirebbe di mettere in secondo piano le emozioni negative e di innescare una risposta da parte della società, concentrando i l dibattito sulla transizione ecologica.
A questo proposito, per prevenire e vincere la resistenza al cambiamento, il consiglio per comunicatori e istituzioni è quello di investire in una comunicazione coerente e costruttiva, che mira a politiche climatiche efficaci e attraenti basate su co-benefici locali e tangibili, in grado così di superare i possibili pregiudizi psicologici della popolazione (Klenert et al., 2020). Come spiegano gli esperti di economia comportamentale «Putting the fruit at eye level counts as a nudge. Banning junk food does not» (Thaler & Sunstein 2008). Oltre a parlare delle limitazioni necessarie per il taglio delle emissioni di gas serra, il messaggio dovrebbe focalizzarsi sui benefici per la salute dalla riduzione dell’inquinamento dell’aria, dal muoversi a piedi o in bicicletta, e su una responsabile promozione dei cambiamenti di stile alimentare per la riduzione dei rischi di tumore e di malattie cardiovascolari, producendo al contempo importanti benefici per il clima e per la biodiversità.
Considerando l’importanza della cooperazione, una crisis communication basata sui co-benefici e supportata da una care communication responsabile, potrebbe costituire l’asso nella manica della transizione ecologica, e consentirebbe di coinvolgere in modo efficace tanto gli “asintomatici della crisi climatica” quanto coloro che sono già consapevoli del rischio ma non dispongono di mezzi adeguati per gestirlo. Gli effetti di questa strategia, peraltro, non si limiterebbero al coinvolgimento delle persone grazie all’offerta di benefici espliciti. Considerando infatti la tendenza delle persone all’inazione spiegata dallo status quo bias e sfruttando la spinta gentile del nudging, una strategia di comunicazione co-benefica della crisi climatica si tradurrebbe automaticamente nella promozione e nel consolidamento della consapevolezza del rischio, nutrendo così le basi di una risposta efficace.
La comunicazione della transizione ecologica
Da un confronto con la risposta alla pandemia di Covid-19, la lotta contro i cambiamenti climatici appare una sfida ben più ardua da affrontare e da comunicare, e richiede trasformazioni profonde e durature dei nostri sistemi politici ed economici che invece, nel caso della pandemia, risultano prevalentemente transitorie (Klenert et al., 2020). Quanto si auspica è che la risposta a Covid possa rappresentare una buona palestra in vista delle future sfide globali.
Costruire una priorità nelle politiche climatiche non è cosa semplice, perché ci si scontra con la percezione che la maggior parte dei danni della crisi riguarderà gli esseri umani nel futuro o luoghi lontani, e con la necessità di una complessa programmazione e visione a lungo termine. I nostri decisori politici oggi devono formulare scelte alternative basate su un fenomeno complesso e incerto e vincere l’effetto deterrente di complessi fattori e bias psicologici dei processi decisionali (Orlove et al., 2020). Inoltre, è noto che le politiche preventive sono poco accettate dalle persone, soprattutto se queste non sono davvero convinte della gravità delle conseguenze (Klenert et al., 2020). Tuttavia, evitare ritardi nella percezione da parte delle persone è essenziale per garantire una risposta efficace, e prevenire i danni da paura e indignazione resta un’azione urgente e fondamentale nell’interesse stesso delle istituzioni.
Che si tratti di cittadini o di istituzioni, la resistenza al cambiamento rappresenta un importante serbatoio di energia che andrebbe incanalata e sfruttata per favorire un cambiamento efficace (Weisbord 1987). Di fronte alla polveriera di energia ed emozioni delle persone, le prime mosse sulla scacchiera della lotta alla crisi climatica dovrebbero dunque essere la cooperazione e la solidarietà dei governi nella mitigazione e nell’adattamento ai cambiamenti climatici. Un approccio ben diverso, per intenderci, da quello seguito per gestire la distribuzione dei vaccini contro Covid-19 e che alcuni hanno definito the Covid political war.
Possiamo e dobbiamo fare di meglio, e l’Italia offre risorse preziose per una transizione partecipata ed efficace. Dopo l’annuncio dell’istituzione del Ministero della Transizione Ecologica, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale ha dato il via al progetto di comunicazione e dialogo Transizione Ecologica Aperta (TEA), prevedendo una serie di incontri per informare e discutere le opportunità offerte dal Next Generation EU. Nel mentre, la comunità scientifica sta sollecitand o il governo con importanti appelli per aumentare il livello di ambizione delle misure in discussione nel nuovo PNRR (qui e qui i due appelli ripresi da Scienza in rete).
Le iniziative italiane per promuovere la comunicazione della crisi climatica e della transizione ecologica non vengono solo dagli scienziati. Per l’importanza della conoscenza e della fiducia nella comunicazione del rischio climatico, i giornalisti, ricercatori ed esperti di comunicazione del gruppo Climate Media Center Italia (CMC) offrono oggi il loro supporto a media e scienziati, per migliorare l’accuratezza e l’efficacia dell’informazione sul clima e la conoscenza delle soluzioni e dei co-benefici. Per la promozione della cooperazione nella risposta alla crisi ambientale e sociale, il recente manifesto Ci sarà un bel clima unisce cittadini, scienziati, giornalisti, politici, imprenditori e cittadini per favorire la comunicazione e il dialogo per la transizione ecologica, attraverso la diffusione di messaggi onesti e responsabili e la promozione di sentimenti di coesione e positività.
Una transizione ecologica basata sulle soluzioni e sui co-benefici del contrasto alla crisi climatica abbraccia l’interesse di istituzioni e cittadini, ed equivale alla scoperta di nuovi diritti alla salute, al benessere, alla giustizia e alla sostenibilità ambientale, sociale ed economica per le presenti e future generazioni. Come ricordò Calamandrei oltre sessant’anni fa per la nostra Repubblica, ciò di cui si parla oggi con la transizione ecologica è, per tutti i cittadini, «non solo il diritto ma il dovere di camminare verso un impegno di rinnovamento sociale non più revocabile».