Crediti: Neil Cummings / Flickr. Licenza: CC BY-SA 2.0.
Il bisogno di una nuova visione e strategia per la salute
In tutta la sua drammaticità la pandemia da SARS-CoV-2 ci mette di fronte all’opportunità di ripensare come promuovere e proteggere la salute individuale e di una intera comunità. Ci fa riflettere sul fatto che non possiamo continuare a considerare la prevenzione la cenerentola degli investimenti sanitari, e spinge a impegnarci per la salute in una prospettiva più ampia e sostenibile. Negli ultimi anni organizzazioni come l’OMS e la stessa Assemblea Generale delle Nazioni Unite hanno fornito spunti strategici per uno sviluppo ecosostenibile. Uno sviluppo che si sposi con la salute delle popolazioni e l’eradicazione della povertà. In pratica, è urgente che ci mettiamo nell’ottica che esiste un’unica salute ovvero One Health, o “salute circolare”. Purtroppo questi indirizzi di sviluppo sono stati quasi sempre ignorati o non implementati sistematicamente né a livello globale, né a quello nazionale e locale.
La pandemia ci sta fornendo lezioni troppo importanti per essere scordate appena finita. Essa ci fa riflettere sull’importanza della salute nella società. Senza salute non c’è sviluppo, né economia, né vita. Parafrasando il titolo di un famoso libro di Primo Levi: “Se non ora, quando?”.
Una visione strategica deve tradursi in obiettivi misurabili e in programmi di implementazione. Già nel 2012 l’OMS asseriva che le politiche per la salute, a tutti i livelli di governo, dovrebbero avere due obiettivi centrali. In primo luogo la promozione della salute e la riduzione delle iniquità. In secondo luogo il miglioramento della leadership e della governance partecipativa per la salute. Per realizzare questi due obiettivi si deve agire in quattro direzioni, definite nel documento “Health 2020. A European policy framework and strategy for the 21st century” realizzato dall’Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS. Esse possono concisamente essere così riassunte:
- investire in salute attraverso un approccio mirato all’intero corso dell’esistenza e mirare all’empowerment delle persone;
- affrontare le principali sfide sanitarie nel campo delle malattie trasmissibili e non trasmissibili;
- rafforzare sistemi sanitari centrati sulla persona, potenziare le capacità di sanità pubblica e la preparazione, sorveglianza e risposta alle emergenze - pandemie e disastri ambientali inclusi;
- creare comunità resilienti in grado di rispondere alle sfide e avversità creando ambienti favorevoli alla salute.
La pandemia rende estremamente evidente quanto questa impostazione strategica sia attuale. Da notare l’inclusione della resilienza come una delle quattro priorità di intervento per una strategia di salute efficace e contrasto alle iniquità di salute. Il rafforzamento della resilienza è un elemento connesso con pressoché tutti i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 sottoscritti dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2015.
Quattro forme di resilienza
La resilienza è scientificamente connessa con la capacità dei singoli o di una comunità di ottenere buoni risultati in termini di salute e benessere nonostante avversità, rischi e vulnerabilità. La resilienza può essere studiata a livello prevalentemente individuale o con un focus a livello di una determinata comunità. Recentemente studi sulla resilienza si sono indirizzati anche sul livello di sistema, per esempio il sistema socio-sanitario. A prescindere dal livello di resilienza (individuale, comunità o sistema), il mondo scientifico ha analizzato quattro specifiche capacità di resilienza.
Negli studi scientifici, la prima capacità di resilienza viene descritta come adaptive capacity. Cioè la capacità di accettare ed adattarsi ad un evento più o meno traumatico. Per esempio la capacità di accettare ed adattarsi ad una diagnosi di malattia cronica. O una diagnosi di positività al Covid-19. Non tutte le persone hanno questa capacità di resilienza e questo può causare meccanismi di rifiuto della diagnosi o di frustrazione e rabbia che, seppur giustificabili, non aiutano il paziente ad affrontare la nuova situazione.
La seconda capacità viene descritta come absorptive capacity. Con questa capacità la persona non si limita ad adattarsi e ad accettare la malattia a lui o lei diagnosticata. Questa capacità implica che la persona inneschi un processo attivo per gestire efficacemente la nuova situazione in cui la persona si trova a causa della malattia. Spesso questa capacità aiuta i pazienti, una comunità o un sistema a vedere anche nuove opportunità nonostante la presenza di una diagnosi di malattia o la presenza di un evento avverso. In questo caso si potrebbe parlare di capacità di gestione attiva e di utilizzo di tutte le risorse a cui il paziente (o una comunità, o un sistema) può attingere. Non ci riferiamo solo a risorse economiche ma anche e soprattutto ad attivare supporto umano da buone relazioni familiari o associative. Risorse che permettono alle persone di non sentirsi sole ma in controllo della loro situazione nonostante le ovvie problematiche e sfide che la malattia comporta. La nozione di “sentirsi in controllo” è fondamentale in qualsiasi processo salutogenico. Ormai vi è un’ampia documentazione scientifica che imputa le disuguaglianze di salute tra persone appartenenti a gruppi socio-economici differenti al differente livello di controllo sulla propria vita. Altre risorse salutogeniche sono di natura sociale, come la solidarietà e il mutuo aiuto presenti in un determinato territorio, di natura eco-ambientale, come la presenza di contesti non inquinanti e favorevoli alla promozione della salute, di carattere socio-economico e spirituale. A questi si aggiunge infine un’ampia gamma di fattori che creano le condizioni per una vita individuale e collettiva più sana e sostenibile.
La terza capacità viene chiamata anticipatory capacity, cioè la capacità di prevedere e prepararsi a situazioni da affrontare a breve, medio e lungo termine. Tramite questa capacità un paziente può mobilitarsi per cambiare, per esempio, alcune mansioni lavorative rimanendo attivo nel mondo del lavoro. L’adattamento allo “smart-working” durante la pandemia è un esempio di questa capacità.
Infine vi è la capacità trasformativa transformative capacity da parte di un sistema di cambiare la sua struttura e le modalità di funzionamento per meglio affrontare una situazione di grande cambiamento. La letteratura scientifica ci dice che la capacità del sistema socio-sanitario di trasformare pratiche obsolete e potenziare pratiche innovative con impatto sulla resilienza dei pazienti e delle loro famiglie danno risultati tangibili in termini di salute. Quest’ultimi comprendono una serie di elementi inclusi l’aumento della soddisfazione dei pazienti che si sentono più in controllo e fiduciosi in tutto il processo dall’identificazione della diagnosi, eventuale ospedalizzazione, dimissione e i check-up periodici. Altri benefici sono l’aumento dei livelli di compliance dei pazienti al trattamento prescritto e della loro abilità di autogestirsi efficacemente in molti aspetti relativi al piano di trattamento concordato con il personale medico. Altri elementi positivi possono includere (a seconda delle patologie) la riduzione delle ri-ammissioni ospedaliere, la lunghezza della degenza e l’aumento della soddisfazione e performance del personale sanitario.
La resilienza nella pratica medica sul campo
Questa sezione riporta l’esperienza di uno degli autori (Marco Rigo) relativa ai concetti descritti in precedenza. Quanto verrà qui riportato non fa parte di una ricerca pre-pianificata, bensì è una testimonianza sul campo. Ha il pregio di mettere in relazione i concetti descritti nelle sezioni precedenti alla luce dell’esperienza vissuta in prima persona nell’assistere persone che hanno contratto il Covid-19.
È passato più di un anno da quando Covid-19 ha cominciato a condizionare pesantemente la vita delle persone in ogni parte del mondo, mettendo in pericolo la salute e la loro stessa vita. Una prima osservazione che possiamo fare è che la pandemia si è trasformata da fenomeno “acuto” a fenomeno “cronico”. Affrontare questa trasformazione richiede molta resilienza a livello individuale, di comunità e di sistema per poter convivere con il virus. Oltre all’aspetto puramente sanitario, la pandemia sta producendo un impatto sociale ed economico che ha colto impreparati i governi e le persone.
La seconda osservazione è inerente al fatto che la reazione iniziale all’emergenza sanitaria - resa drammatica dalla propagazione del virus e da una impreparazione delle strutture sanitarie nel farvi fronte - è stata ovviamente di natura prettamente “infettivologica” (disinfezione di mani, superfici ed ambienti, mascherine, dispositivi di protezione individuale e altre misure di barriera e distanziamento fisico, tracciamento, isolamento, quarantena, lockdown a diversi gradienti). Non a caso igienisti e clinici infettivologi hanno assunto un importante ruolo informativo nei confronti dei mass media e dei decisori politici. In questa fase la discussione si è imperniata sulle caratteristiche del virus e della sua trasmissibilità (su quali superfici attecchisse il virus, disinfettanti e diluizioni efficaci, distanze da dover mantenere, ecc.).
La terza osservazione è che con il passare del tempo e con l’aumento delle conoscenze sul virus, i clinici hanno via via acquisito competenze sul come migliorare la gestione terapeutica dei casi. Tuttavia, possiamo anche affermare che sia gli infettivologi che i clinici non sono in possesso degli strumenti per cogliere interamente la complessità dei fenomeni sociali connessa con una pandemia della portata della SARS-CoV-2. Lo stesso vale per le implicazioni di natura comportamentale e psicologica delle misure di prevenzione raccomandate. Si spiegano così le numerose contraddizioni in cui gli “esperti” in molti paesi sono incorsi nel dare indicazioni utili per affrontare le varie sfaccettature del problema. Il tutto esasperato da un contesto mediatico sull’emergenza Covid-19 spesso caratterizzato da un tono sensazionalistico.
Il comprensibile tentativo di superare l’epidemia il più presto possibile per poter tornare alla vita normale ci porta ad un’altra osservazione. È plausibile affermare che per quanto riguarda il contenimento della pandemia le misure poste in essere dai governi in Italia e altrove si sono rivelate al di sotto delle aspettative. La letteratura scientifica indica che questo è stato determinato da dinamiche di propagazione e remissione molto spesso dipendenti da fattori connessi non solo al comportamento umano. Studi recenti stanno ponendo in luce il fatto che nella diffusione del virus e dei suoi impatti sociali sono entrati in gioco fattori connessi con il clima, i livelli e il tipo di inquinamento e un'ampia gamma di altri elementi complessi. In più, Il perdurare dell’emergenza ha fatto sì che in determinati contesti questo ha portato con sé il rischio di far diventare poco efficaci disposizioni ragionevoli ma pensate però per un fenomeno di breve periodo. Eccezioni si sono ovviamente verificate, per esempio in Nuova Zelanda, dove le caratteristiche geografiche hanno facilitato le misure messe in atto dal governo per tenere il virus fuori dai confini nazionali o in Israele, dove una rapida campagna vaccinale di massa sembra aver ridotto notevolmente la diffusione della malattia.
Un’altra osservazione che abbiamo potuto verificare nella pratica medica è il constatare come i casi severi di Covid-19 siano diventati via via più gestibili sul piano individuale migliorando l’approccio e soprattutto la precocità di intervento. Questi elementi sono mancati nei primi mesi dell'epideia per una serie di motivi: la scarsa conoscenza del virus e della patogenesi della malattia, l’iniziale inadeguatezza dell’organizzazione ospedaliera abbinata a una debolezza della medicina territoriale, l’indisponibilità di presidi, farmaci, vaccini, ecc.. Abbiamo osservato anche l’emergere di un profondo disagio della popolazione che si può definire di natura psicologico sociale. Ho visto questo disagio manifestarsi chiaramente con sindromi cliniche strutturate come ansia, attacchi di panico, depressione, incapacità di riprendere una vita di relazione normale senza allarmismo e troppa preoccupazione. È interessante e apprezzabile che in Italia e in altri paesi europei stiano iniziando una serie di studi su queste dimensioni connesse con la cronicizzazione della durata della pandemia.
Vi è quindi un’urgenza nel trovare un appropriato equilibrio tra le misure classiche di contenimento del virus tramite distanziamento, lockdown, ecc. e quello che oggi l’OMS chiama pandemic fatigue con il conseguente aggravarsi o insorgere di tutta una serie altre problematiche mediche e sociali.
Si è potuto constatare infatti una tendenza crescente alla somatizzazioni e sintomi vaghi che rivelano un’incapacità di resilienza adattiva. Questa è una condizione che se non superata può facilitare malattie organiche da stress (malattie cardiovascolari, auto-immunità, invecchiamento e deperimento precoce). Studi recenti confermano questa osservazione.
Una ulteriore osservazione scaturisce dalla mia esperienza nel prestare servizio medico presso una Residenza Sanitaria Assistenziale (RSA) e indica la necessità di una approfondita ricerca che dia supporto alle persone e alle istituzioni . Ho potuto verificare la differenza tra il paziente “istituzionalizzato” e quello a domicilio, a parità di età e con patologie simili. Come nel resto del paese, appena l’epidemia Covid-19 si è presentata nella RSA sono state intraprese una serie di iniziative restrittive per gli ospiti al fine di limitare al massimo il potenziale scambio biologico tra interno ed esterno. In sintesi sono state create compartimentazioni molto rigide per ospiti e personale con soppressione di tutte le attività svolte nelle sale comuni (riabilitazione, animazione, eventi conviviali). Si è impedito l’uscita nel parco e in paese (limitando anche gli accessi ospedalieri a quelli assolutamente inevitabili). Si è posto il divieto per i famigliari e conoscenti di fare visita al congiunto in struttura. Questa modalità di gestione è stata mantenuta anche durante l’estate, nonostante il calo dei contagi, ed è continuata nell’autunno quando la “seconda ondata” ha comportato un ulteriore inasprimento delle tutele (ad esempio con il confinamento degli ospiti in camera). Dopo appena due mesi di questo trattamento sanitario gli ospiti hanno cominciato a manifestare evidenti sintomi di depressione e deterioramento psico-organico. In sintesi, un'involuzione generale che in diversi casi si è manifestata con dimagrimenti importanti, rifiuto del cibo, apatia, aggravamento dei sintomi della demenza.
Nella RSA (in Italia come in altri paesi) questa rigorosa gestione anti Covid-19 non ha impedito l’ingresso del virus, visto che in molte strutture lavorano spesso decine di operatori esterni che vanno e vengono. Con i primi casi positivi è iniziato quindi uno stillicidio di morti repentine. Al tampone positivo seguiva infatti dopo pochi giorni il decesso lasciando il tempo solo per una sedazione compassionevole.
È suggestivo osservare che fra la quarantina di pazienti anziani contagiati ed alcuni pazienti oncologici in chemioterapia che ho seguito a domicilio, vi siano stati solo due sono deceduti, mentre gli altri sono guariti con decorsi più o meno impegnativi. In generale tutti erano affetti anche da altre patologie cronico degenerative.
Il confronto fra i malati curati a casa e quelli seguiti in RSA suggerisce che Covid-19 da solo non sia in molti casi sufficiente a determinare la drammatica progressione che porta alla morte, ma che abbia bisogno anche di circostanze facilitanti, come scarse capacità di resilienza. Seguendo questa ipotesi, la possibilità di superare l’infezione da Covid-19 dipenderebbe non solo da fattori macroscopici come età, patologie concomitanti, ma anche e soprattutto dalle possibilità e capacità di reazione all’evento.
Un approccio clinico che non tenga conto anche di queste circostanze corre il rischio di sottovalutare una delle armi più potenti che le persone possiedono per sopravvivere e che gli hanno permesso nel corso della storia di resistere a svariati rischi e circostanze avverse: la resilienza, appunto.
Questa riflessione apre un mondo nuovo per la ricerca sui modi di affrontare la pandemia o altre avversità in futuro. Il punto cruciale per la ricerca in questo campo è saper valutare e identificare misure di salute pubblica e di trattamento clinico capaci di rafforzare le capacità di resilienza dei pazienti e dei loro familiari. Alcuni studi stanno già applicando i concetti di resilienza a modalità innovative di fornire prestazioni sanitarie. Alcuni studi, ad esempio, hanno misurato l’impatto negativo di una campagna di comunicazione martellante che in molte persone ha sviluppato ansia e perfino terrore, in alcuni casi minando la loro capacità di resilienza. La psiche umana infatti non è selezionata per vivere a lungo e costantemente in pericolo senza che tutti suoi apparati ne restino profondamente alterati, in primis il sistema immunitario. Ne deriva che l’azione dei medici, e in generale del personale sanitario, deve essere anche orientata a riconoscere, ed eventualmente disattivare, i meccanismi di eccessiva allerta e preoccupazione, così come si pone sentinella di un'eccessiva infiammazione (che da meccanismo di difesa può diventare, se non disattivata, la causa del progredire e dell’aggravarsi della patologia).
In definitiva, per migliorare sia la pratica medica che le misure di salute pubblica, le considerazioni fatte precedentemente sulla necessità di preservare e rafforzare tutte e quattro le capacità di resilienza sono da tenere in grande considerazione. Usare una “lente di resilienza" per esaminare l’appropriatezza delle misure di prevenzione e trattamento delle malattie sia infettive come il Covid-19, sia non trasmissibili come le patologie croniche degenerative, risulta quanto mai essenziale e urgente.