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Il gioco di lotta come sostituto di una vera aggressione

Nella letteratura scientifica, il comportamento di gioco è tendenzialmente associato a una condizione positiva: ma un nuovo studio condotto nei maialini prima dello svezzamento suggerisce che possa, in realtà, fare da sostituto di una vera interazione aggressiva. Ci sarebbe, insomma, un “lato oscuro” del gioco, che si associa anche a mood negativi.

Crediti immagine: Marek Piwnicki/Unsplash

Tempo di lettura: 7 mins

Se pensiamo al gioco, tra noi come tra gli altri animali, tendiamo ad associarlo a una situazione piacevole. La stessa associazione la fa anche, in genere, la letteratura scientifica: nei molti lavori dedicati al gioco tra gli animali non umani, infatti, questo è visto come un comportamento che a sua volta favorisce i comportamenti affiliativi e grazie al quale, quindi, si rinforzano i legami sociali. Ma il gioco potrebbe avere anche un altro ruolo, associato a situazioni meno positive?

Secondo uno studio recentemente pubblicato su Animal Behaviour, in effetti, il gioco e soprattutto il gioco di lotta (play fighting) non è necessariamente sinonimo di affiliazione tra animali ma può, invece, prendere il posto di una vera e propria aggressione. Come indicano nel titolo gli autori, potrebbe insomma esserci un “lato oscuro” del comportamento di gioco.

Di cosa parliamo quando parliamo di gioco?

Per gli animali sociali, umani compresi, il gioco è un comportamento determinante nello sviluppo fisico e cognitivo degli animali e nel miglioramento della vita di gruppo. Ma le sue funzioni non sono univoche, anzi: «Infatti, “polifunzionale” è la parola chiave: sia negli umani che negli altri animali, il gioco ha diverse funzioni che sono legate all’età, al sesso, al rango o comunque ruolo nel gruppo, al contesto sociale, a quello ambientale…», spiega Giada Cordoni, professoressa a contratto all’Università di Torino, Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi, e prima autrice dello studio. Per esempio, il gioco negli individui immaturi consente loro di imparare a relazionarsi con l’ambiente circostante e con i compagni, mentre in alcuni primati in cattività è stato osservato che il gioco è messo in atto prima della distribuzione di cibo, un momento in cui la tensione sociale è massima, per alleviare lo stress; ancora, uno studio  condotto nel 2019 sui ratti suggeriva che questi animali potessero giocare anche solo per il puro piacere di farlo.

Anche la stessa definizione di gioco può non essere così semplice. «Nel 2005, il biopsicologo Gordon Burghardt ha definito cinque criteri che permettono di definire il gioco e distinguerlo dagli altri comportamenti: tra questi, per esempio, ci sono la caratteristica della volontarietà e la presenza di pattern comportamentali ripetuti, presi in prestito da altri contesti (sessuali, anti-predatori, di foraggiamento, agonistici…), messi in atto senza seguire una sequenza temporale definita», spiega Cordoni. «Ma questi criteri non sono sempre rispettati: per esempio, Burghardt indicava tra i criteri il fatto che il gioco iniziasse in condizioni non stressanti per l’individuo; ma, come dimostra il fatto che possa essere impiegato anche prima di un momento di tensione, in alcune condizioni può non essere così».

In questo contesto polifunzionale e dalle diverse sfaccettature è comunque possibile riconoscere diversi tipi di gioco; tra questi, il play fighting – termine che potremmo tradurre con il “gioco di lotta” -, che prende in prestito i pattern motori tipici delle interazioni aggressive di quella determinata specie, senza però inserirli in un contesto di competizione. «Una delle caratteristiche del play fightining è che si tratta di un gioco nel quale gli individui si trovano a stretto contatto fisico anche per tempi relativamente prolungati», spiega Cordoni. «Questo implica anche una notevole capacità di gestire la sessione di gioco, perché il contatto fisico e i pattern vigorosi aumentano il rischio che uno degli individui si possa far male».

Studiando i maiali

Come il resto del comportamento di gioco, il play fighting è stato osservato in diverse specie e con funzioni diverse: se in alcuni casi sembra poter predire le successive relazioni di dominanza, come fosse una palestra per l’interazione agonistica, in altre non sembra invece in relazione con i successi nella competizione. Ancora, meno intuitivamente, nel lemure microcebo murino sembra essere addirittura un primo tipo di approccio per arrivare poi a scambiare comportamenti affiliativi con il compagno di gioco.

Nel loro lavoro, i ricercatori hanno voluto capire che ruolo potesse avere il play fighting nel maiale. Perché proprio questa specie? «Da una parte, il maiale è un animale che mostra caratteristiche cognitive e sociali complesse; inoltre, i porcellini molto giovani, prima dello svezzamento, mettono in atto vigorose sessioni di play fighting, per cui è una specie interessante per studiare questo tipo di gioco», spiega Ivan Norscia, professore Associato all’Università di Torino, Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi e autore senior dello studio. «Inoltre, la maggioranza dei lavori sui maiali in campo etologico si concentra sugli animali in allevamenti intensivi ed è più che altro dedicata al rapporto umano-animale e alle ricadute in campo agronomico o veterinario, per esempio per individuare condizioni di grave stress. Sappiamo quindi ancora molto poco del comportamento sociale del maiale in condizioni di libertà o semi-libertà. Infine, c’è anche una ragione pratica per la quale ci siamo concentrati su questa specie: ci permette, cioè, di avere un modello di studio accessibile anche per gli studenti, senza che sia loro necessariamente richiesto di viaggiare per studiare specie esotiche».

Lo studio ha coinvolto come co-autrici Elisa Demuru (CNRS-Università di Lione/Saint-Etienne, Francia) e Marika Gioia, laureata in Evoluzione del Comportamento Animale e dell’Uomo (Università di Torino), che ha svolto la sua tesi di laurea sull’argomento e ha condotto osservazioni sugli animali ospitati presso l’allevamento etico “Parva Domus” (Cavagnolo, Torino), nel quale i maiali vivono allo stato semi-brado: hanno a disposizione ampi spazi naturali e i piccoli restano con la madre per circa due mesi dopo la nascita. La raccolta dei dati si è basata sulle video-riprese portate avanti dalla nascita dei cuccioli fino allo svezzamento, e poi analizzate per individuare e studiare nel dettaglio due diversi comportamenti, quello di gioco e quello aggressivo.

Il lato oscuro del gioco

E, con quest’analisi, si sono accorti di qualcosa di abbastanza sorprendente: gli individui che vincono nel gioco sono anche quelli che vincono nell’aggressione; chi è al centro della rete sociale del gioco lo è poi anche nella rete sociale delle aggressioni; e gli individui che giocano di più non solo non sono quelli che mostrano più alti livelli di comportamenti affiliativi tra di loro ma, anzi, sono coloro che tendono poi ad aggredirsi maggiormente. Inoltre, i cuccioli iniziano più facilmente il gioco quando la loro probabilità di vincere è maggiore (cioè interagendo con individui di taglia più o meno equivalente) e l’invito non è di contatto: quando, cioè, tra i diversi pattern che i maiali mettono in atto per invitare l’altro al gioco (l’equivalente dell’inchino nei cani) il compagno ne sceglie uno che non prevede il contatto fisico. Insomma, un po’ come se preferissero “prenderla alla larga”.

«Tutti questi elementi, presi insieme, ci spingono a pensare che il gioco non sia in fondo poi così “giocoso”, quanto un vero e proprio sostituto dell’aggressione», spiega Norscia. «E questo significa anche che il gioco non può essere associato di default solo a una condizione di benessere, ad uno stato emotivo positivo dell’animale, ma anche a condizioni conflittuali».

«Qualcosa di simile, in effetti, lo suggeriva anche un recente lavoro condotto sugli scimpanzé, secondo il quale sarebbe una semplificazione considerare il gioco un segnale esclusivamente di uno stato interno positivo», spiega Cordoni. «Ma qui abbiamo potuto fare un passaggio ulteriore, dimostrando tassello per tassello la relazione esistente tra il gioco di lotta dei maiali e l’aggressione, per cui il primo è un sostituto della lotta vera e propria. E questo vale anche all’interno di una stessa nidiata, non solo tra individui non imparentati».

Un’altra osservazione interessante che emerge dal lavoro è nella relazione tra l’allattamento, il gioco sociale e le aggressioni: al diminuire del tempo che i maialini trascorrono assumendo latte materno, il comportamento di gioco sociale decresce nettamente, e altrettanto nettamente aumentano le aggressioni. Gli autori suggeriscono che in questo meccanismo possa essere coinvolta l’ossitocina che i piccoli assumono con il latte materno, che potrebbe ‘trasformare’ confronti aggressivi potenzialmente pericolosi in interazioni ludiche meno rischiose nelle prime fasi di vita; tuttavia, saranno necessari studi ormonali per confermare l’ipotesi.

«Lo studio del gioco è interessante sia perché si tratta di un comportamento basilare per la vita di gruppo, non meno di quelli associati alla riproduzione o alla competizione, sia perché è condiviso con la nostra specie: studiarlo ci permette quindi di comprendere le basi biologiche e ontogenetiche di un elemento che gli animali sociali condividono e possibili convergenze evolutive con noi, esseri umani. Indagandone anche i “lati oscuri”», conclude Cordoni.

 


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