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Dieci anni di FameLab Italia: intervista a Leonardo Alfonsi

Il 18 giugno si è chiuso FameLab 2021: la decima edizione del talent scientifico ne segna un traguardo importante, rappresenta un momento per fare bilanci e tracciare nuove prospettive. Ne abbiamo parlato con Leonardo Alfonsi, direttore di FameLab Italia e di Psiquadro, società di comunicazione della scienza che organizza e coordina la manifestazione nel nostro paese.

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Con la vittoria di Michele Dusi si è chiusa il 18 giugno, presso il teatro Sangiorgi di Catania, l’edizione 2021 di FameLab Italia. Il giovane studente di Ingegneria Informatica dell’Università degli Studi di Brescia, con un talk incentrato sulle tecniche che la scienza informatica e matematica stanno elaborando per emulare il processo creativo umano tramite computer, ha saputo convincere la giuria del talent scientifico. «Spesso consideriamo creatività e immaginazione come doti esclusive dell’essere umano, nella convinzione che nessun’altra creatura – animale o artificiale – saprà mai replicarle», spiega Dusi. «Ma con la maggiore comprensione dei processi cerebrali e il parallelo sviluppo delle tecnologie digitali, questa certezza sembra vacillare. Una delle tecniche escogitate per riprodurre il processo creativo è utilizzare due intelligenze artificiali, contrapposte e in grado di migliorarsi a vicenda. La creatività così ottenuta però non è che una raffinata imitazione dei dati di partenza. Se da un lato è più che sufficiente per tantissime applicazioni, dall’altro impedisce effettivamente alla macchina di “uscire dagli schemi”. In ultimo, richiama noi esseri umani a nuove responsabilità, che non devono tradursi in un rifiuto della tecnologia, bensì nell’educazione di chiunque al suo utilizzo consapevole».

La decima edizione del talent scientifico ha visto alternarsi sul palco 16 partecipanti, tutti studenti, dottorandi e ricercatori. La fase finale di Catania ha rappresentato l’atto conclusivo di un percorso iniziato ad aprile, quando decine di giovani ricercatori si sono sfidati, in 8 città, nelle selezioni locali.

Dieci anni sono un traguardo importante. È il momento di bilanci e di tracciare nuove prospettive. Per questo abbiamo incontrato Leonardo Alfonsi, direttore di FameLab Italia e di Psiquadro, società di comunicazione della scienza che organizza e coordina la manifestazione nel nostro paese.

FameLab come arriva in Italia?

Con un’intuizione in un bar di Perugia. All’epoca organizzavamo il Perugia Science Fest ed era nostro ospite Frank Burnet, scienziato e professore emerito di comunicazione della scienza a Bristol. Eravamo un po’ stanchi dei soliti festival, la scienza ha bisogno di sperimentare nuovi strumenti di comunicazione perché il desiderio di ampliare le proprie conoscenze può portare a coinvolgere un pubblico sempre più vasto ed eterogeneo. Volevamo trovare un formato che mettesse sotto la lente d’ingrandimento i veri protagonisti della ricerca: studenti, dottorandi e ricercatori. Burnet ci raccontò di questo talent scientifico che aveva ideato nel 2005 all’interno del Cheltenham Science Festival. Ce ne siamo subito innamorati e in poco tempo, grazie al supporto del British Council, siamo riusciti a portarlo anche qui da noi.

Come hanno reagito le università e gli enti di ricerca quando avete proposto questo format?

All’inizio molti ricercatori partecipavano senza comunicarlo ai propri supervisori. Un po’ per paura di non essere considerati degli attenti scienziati, un po’ perché era presente l’idea che dedicarsi a progetti di comunicazione volesse dire sottrarre tempo alla ricerca. Oggi invece, si è capito che fare divulgazione scientifica è un elemento cruciale per chiunque faccia scienza o ricerca. Raccontare e portare ad altri quello che si sta facendo è fondamentale perché può sensibilizzare i non addetti ai lavori a quelle che sono le tematiche di ricerca più attuali e gli sviluppi delle tecnologie che verranno ma offre, al tempo stesso, allo scienziato una rilettura critica di ciò che fa. Ma FameLab può essere anche inizio, può aprire la strada a nuovi percorsi lavorativi. Molti ex FameLabbers, dopo aver partecipato al talent, hanno iniziato a essere coinvolti in prodotti di divulgazione. Alcuni dei conduttori di Super Quark+, per esempio, provengono dalla nostra “palestra”. Altri concorrenti, invece, rimangono a fare ricerca ma con una nuova e più convinta consapevolezza del ruolo della comunicazione.

In questi dieci anni il mondo della comunicazione è cambiato più volte. Molti ricercatori sono passati da essere chiusi nella torre d’avorio a essere onnipresenti sui social. In questo contesto FameLab riesce a stare al passo con i tempi?

FameLab ha una particolarità unica: al centro di tutto rimane il valore della parola. Niente slide, niente filmati. L’uso corretto delle parole, il sapersi spiegare e il rendersi comprensibili sono esigenze fondamentali soprattutto in questa società. Essere capaci di utilizzare parole leggere e rapide ma esatte e coerenti, come spiegava Calvino, è un elemento imprescindibile nella comunicazione di oggi. È moderno poi, perché è un talent show ma senza il marcato esibizionismo di questi format. I contenuti sono i veri protagonisti, chiediamo ai partecipanti uno sforzo di sintesi molto profondo e alle giurie di valutare con molta attenzione il grado di equilibrio tra la quantità d’informazioni e la brevità del contenuto. FameLab è anche l’occasione per riportare alla luce dei riflettori le eccellenze latenti, un ponte tra scienza e società. Grazie a questo talent molte persone scoprono infatti le eccellenze che svolgono attività di ricerca nei propri atenei ed enti di riferimento. Un arricchimento culturale e sociale per il territorio.

Quali sono le sfide future che attendono FameLab Italia?

Cercare di uscire dalle gabbie disciplinari e scientifiche, superando il modello STEM. Il nostro prossimo obiettivo è incoraggiare la partecipazione di concorrenti che sappiano raccontare il nostro mondo da punti di vista diversi. Sarà fondamentale il passaggio da un talk disciplinare a un talk culturale. Sicuramente, ci sarà un’interazione maggiore con i media. In molte nazioni la finale viene trasmessa in diretta sui canali generalisti. I tre minuti del format possono essere la base per sviluppare nuove forme creative di comunicazione della scienza in radio, in tv e sui social. La performance sul palco deve essere vista come stimolo per la curiosità del pubblico. Svilupperemo quindi nuovi format che avranno alla base la capacità di sintesi e di adattamento che sono elementi imprescindibili della manifestazione.

Michele Dusi, vincitore di questa edizione, tra qualche mese parteciperà alla finale internazionale di Cheltenham. Ci sono differenze tra i nostri concorrenti e quelli degli altri paesi?

La finale di Cheltnham è un ottimo punto di osservazione sull’evoluzione e lo stato di salute della divulgazione scientifica del nostro paese. In questi anni ho notato un diverso grado di maturità. I concorrenti provenienti per esempio dal Regno Unito sono più pronti. Questo perché, rispetto ai loro coetanei italiani, vengono inseriti prima in maniera attiva nella ricerca e hanno stimoli maggiori all’interno dei propri istituti nel divulgare le proprie scoperte.

 


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