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Cambiamenti climatici e conflitti con la fauna: una relazione da approfondire

In una perspective pubblicata su Science, la biologa Briana Abrahms passa in rassegna alcuni degli esempi più significativi di come i cambiamenti climatici possono influenzare, a breve e a lungo termine, il conflitto tra umani e fauna selvatica. Nonostante le molte conseguenze negative che tali conflitti possono determinare, sia per noi che per le altre specie, è importante approfondire questa relazione, ancora scarsamente studiata, così da poterla inserire tra gli elementi da tenere in considerazione per la gestione e la mitigazione.

Crediti immagine: V Srinivasan/Unsplash

Tempo di lettura: 6 mins

C’è un aspetto dei cambiamenti climatici al quale finora è stata dedicata solo una manciata di studi – ma per il quale è importante allargare le ricerche. Si tratta dell’effetto che i cambiamenti climatici hanno sui conflitti tra la nostra specie e gli animali selvatici: lo evidenzia bene una perspective recentemente apparsa su Science, una vera call to action firmata da Briana Abrahms, biologa dell’Università di Washington. Passando in rassegna alcuni degli esempi più significativi degli ultimi anni, la ricercatrice richiama l’importanza di indagare più approfonditamente le relazioni tra i cambiamenti climatici, la fauna e gli esseri umani, così da poter anticipare possibili conseguenze negative e agire in modo mirato per mitigarle.

Conseguenze complesse

Si può definire il conflitto tra esseri umani e fauna selvatica come un’interazione diretta con effetti negativi, che vanno dai danni agli umani (diretti e indiretti: dalla lesione in caso di scontro al rischio di diffusione di patogeni, ma anche per esempio i costi e le difficoltà di dover sorvegliare un campo coltivato) alla perdita di biodiversità, che coinvolge anche specie già a rischio di estinzione. A volte, le conseguenze sono complesse e non immediatamente intuibili: per esempio, in alcune regioni africane, le popolazioni di babbuini sono aumentate in conseguenza al declino dei loro predatori, cacciati dagli umani; i danni alle coltivazioni causati dai babbuini hanno fatto sì che molte famiglie mettessero i bambini a guardia dei campi, impendendo loro di frequentare la scuola.

E se l’evoluzione umana è “essenzialmente una storia delle interazioni umane con le altre specie”, come scrive Philip Nyhus, professore del Colby College, in un articolo di qualche anno fa, diversi fattori contribuiscono attualmente a influenzare il conflitto: tra questi, la crescita della popolazione umana, con il conseguente incremento nell’uso del territorio per l’agricoltura, i trasporti, l’energia eccetera. In generale, infatti, gran parte dei conflitti con le specie selvatiche emergono quando ci troviamo a condividere il territorio – e le risorse – con altre specie. E i cambiamenti climatici, scrive Abrahms, possono in molti casi diminuire la disponibilità di risorse, forzando la convivenza in spazi sempre più affollati; il risultato complessivo è un aumento dei conflitti, le cui conseguenze non sono sempre facilmente prevedibili.

Dal mare alla terraferma

Su Science, la ricercatrice porta diversi esempi, distinguendo tra gli effetti “acuti” del cambiamento climatico, rappresentati da eventi estremi quali le alluvioni, e quelli a lungo termine, che emergono dal riscaldamento globale. Per quanto riguarda il primo caso, in un’intervista a UN News Abrahms racconta che due esempi, in particolare, l’hanno spronata a occuparsi del problema: «Nel 2015 e nel 2016 vi è stato un forte aumento di balene rimaste intrappolate negli strumenti da pesca al largo della costa occidentale degli Stati Uniti. Vi era stata un’ondata di calore in mare che aveva avuto due effetti: da una parte, le balene si erano spostate più al largo per inseguire le prede, che si erano allontanate durante l’ondata di calore; dall’altra, questa ha modificato i tempi per la pesca del granchio. La congiuntura di questi due elementi ha creato la tempesta perfetta, portando alla sovrapposizione dell’uso del territorio e risultando nell’aumento di balene intrappolate». Il risultato è stato in un danno tanto per i cetacei quanto per i pescatori: un alto tasso di mortalità per le balene e restrizioni per i pescatori che hanno rischiato perdite economiche significative.

«Il secondo esempio», continua la ricercatrice, «proviene da un report del governo del Botswana, dove ho svolto molto del mio lavoro sul campo. Citava uno dei più alti numeri di conflitti tra umani e fauna selvatica mai registrati - soprattutto grandi carnivori che predavano il bestiame d’allevamento - durante una forte e prolungata siccità nel 2018». In questo caso, i conflitti hanno aggravato l’insicurezza alimentare ed economica delle comunità agricole e pastorali, già aumentata dalla siccità.

Risulta evidente, quindi, che il conflitto – così come la crisi climatica – coinvolge gli ambienti e le specie più disparate. Un altro caso significativo, riportato nell’articolo su Science, riguarda la siccità del 1986-1988 in India, dovuta a El Niño, che ha spinto gli elefanti nelle aree a maggior presenza umana determinando sia danni consistenti alle coltivazioni sia attacchi mortali alle persone. Quello stesso evento ha visto anche un aumento degli attacchi di leone asiatico sugli allevamenti, con scontri fatali con gli umani.

Non da meno sono gli effetti a lungo termine. Anche in questo caso, le regioni del mondo in cui si possono osservare sono svariate: si va dalla Hudson Bay, in Canada, dove nell’arco di trent’anni sono aumentati i conflitti con gli orsi polari, che al diminuire del ghiaccio passano sempre più tempo sulla terraferma, alle montagne dell’Himalaya, nelle quali l’alterazione della vegetazione (legata alle temperature più elevate) ha portato il bharal (un caprino dell’Asia Centrale) a quote più basse. E non sono al bharal si devono danni alle coltivazioni, ma questa specie è stata seguita dal suo predatore, il leopardo delle nevi. Questo, a sua volta, ha fatto sì che da una parte aumentassero gli attacchi al bestiame e dall’altra aumentassero le uccisioni da parte degli umani nel tentativo di scacciarlo ed evitare i danni – sebbene si tratti di una specie già classificata come “vulnerabile” dalla IUCN, per la quale si stima che la popolazione matura (pur con alcuni limiti) sia al massimo intorno ai tremila individui.

Una relazione da riconoscere e approfondire

Se, insomma, il legame tra i cambiamenti climatici e i conflitti con la fauna selvatica sembra emergere in diversi casi, sono tuttavia ancora pochi gli studi che lo indagano. Come spiega Abrahms, «Abbiamo cercato nella letteratura scientifica e nei rapporti governativi, e al massimo ne troviamo qualche decina. Ma si tratta di casi diversi, studiati e riportati in modo isolato, ed è difficile confrontarli tra loro. Alcuni sono aneddotici, come il report del Botswana. Altri suggeriscono collegamenti più diretti tra le condizioni ambientali e il contatto umano-animale, come nel caso dell’intrappolamento delle balene». E, sebbene la connessione sia oggi sempre più riconosciuta (come fa per esempio la IUCN in un recente articolo), «Da parte della più ampia comunità scientifica, non vi è stato un riconoscimento di come il cambiamento climatico alimenterà conflitti più intensi e più frequenti tra gli esseri umani e la fauna selvatica».

È però importante che questo avvenga, e che la ricerca possa approfondire le relazioni tra i diversi fattori che influenzano il conflitto con la fauna selvatica (quali i processi demografici delle specie selvatiche e degli umani, o i cambiamenti nell’uso del territorio) comprendendo l’influenza dei cambiamenti climatici. Per farlo, scrive Abrahms, è necessario un approccio interdisciplinare, in grado di coglierne le complesse dinamiche socio-ecologiche. «Ci sono molti metodi, in fase di sviluppo o già in atto, per mitigare i conflitti tra umani e fauna selvatica, ma al momento non tengono in conto il ruolo del clima. Se una buona ricerca aiutasse a metterlo in luce, potrebbe essere possibile modificare quei metodi per renderli in grado di rispondere alle condizioni ambientali. E ridurre i conflitti è l’obiettivo del nostro gruppo di ricerca. Più sappiamo di quando i conflitti sono più probabili, più possiamo prepararci o intervenire per evitarli del tutto».

 


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