fbpx Fotovoltaico sui tetti per limitare il consumo di suolo | Scienza in rete

Fotovoltaico sui tetti per limitare il consumo di suolo

Primary tabs

Secondo ISPRA, nel 2020 abbiamo perso 56,7 chilometri quadrati di suoli naturali a causa di nuovi cantieri, edifici, insediamenti commerciali, logistici, produttivi e di servizio, infrastrutture e altre coperture artificiali, arrivando a un totale di oltre 21 000 chilometri quadrati, il 7,11% del territorio nazionale rispetto alla media UE del 4,2%. I “costi nascosti” di questo fenomeno, causati dalla perdita dei servizi ecosistemici che il suolo non è più in grado di fornire, sono stimati in oltre tre miliardi di euro l’anno. L'obiettivo di azzerare il consumo di suolo netto entro il 2050, fissato a livello europeo, si scontra però con la necessità di installare nuovi impianti fotovoltaici che permettano la transizione energetica verso fonti rinnovabili. Si stima che al 2030 saranno tra 200 e 400 i chilometri quadrati di aree agricole persi per installare panelli fotovoltaici a cui se ne aggiungerebbero 365 destinati a nuovi impianti eolici. Eppure sfruttando i tetti degli edifici esistenti, gli ampi piazzali associati a parcheggi o ad aree produttive e commerciali, le aree dismesse o i siti contaminati ISPRA stima che potrebbero essere installati pannelli per una potenza totale più che doppia rispetto ai 30 gigawatt che il Piano Nazionale Integrato Energia e Clima prescrive di aggiungere entro il 2030.

Nell'immagine l'impianto fotovoltaico sul tetto del Centro Agro Alimentare Bolognese (CAAB). Crediti: Roberto Serra / Iguana Press. Licenza: CC BY-NC-SA 2.0.

Tempo di lettura: 6 mins

Con consumo di suolo si intende la perdita di aree agricole, naturali e seminaturali a causa di nuove coperture artificiali. Un processo prevalentemente dovuto alla costruzione di nuovi edifici, fabbricati e insediamenti, all’espansione delle città, alla densificazione o alla conversione di terreno entro un’area urbana, all’infrastrutturazione del territorio e ad altri interventi di impermeabilizzazione e di artificializzazione del suolo. Molti cambiamenti di uso e di sfruttamento del suolo, la riduzione della sostanza organica a causa di pratiche agricole intensive e non sostenibili, la progressiva perdita della produttività, l’erosione, la salinizzazione, la contaminazione e molti altri fattori portano, in generale, al degrado del suolo, alla perdita della sua capacità di fornire servizi ecosistemici e di supportare la biodiversità. Il consumo di suolo è, tuttavia, la forma più impattante e irreversibile tra le diverse cause di degrado di questa limitata e preziosissima risorsa ambientale e, anche per questo, è stato tra i temi su cui, giustamente, si è posta molta attenzione negli ultimi anni.

È infatti ben riconosciuto l’impatto negativo di questo fenomeno, che contribuisce significativamente ai cambiamenti climatici e limita fortemente la capacità di adarvisi. Inoltre, aumenta il rischio e la pericolosità dei fenomeni di dissesto, limita la capacità di regolare i principali processi ambientali, riduce la disponibilità di terreni fertili e produttivi occupando superfici che erano utilizzate per la produzione agricola e dunque rendendo sempre più irraggiungibile l’autosufficienza alimentare. In generale, spesso incide negativamente sul benessere e sulla qualità della nostra vita.

Il Parlamento europeo ha formalmente richiamato pochi mesi fa gli stati membri a rispettare i loro impegni internazionali ed europei relativi al suolo e, in particolare, ad azzerare il consumo di suolo netto entro il 2050. Il consumo di suolo netto è valutato attraverso il bilancio tra il consumo di suolo e l’aumento di superfici agricole, naturali e seminaturali dovuto a recupero, demolizione, de-impermeabilizzazione, rinaturalizzazione o altri interventi in grado di ripristinare le funzioni naturali del suolo.

Le azioni relative al suolo e al territorio sono prioritarie anche a livello globale. Tra i 17 obiettivi stabiliti dall’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, c’è anche quello di non aumentare il degrado del suolo e di mantenere il tasso di variazione del consumo di suolo al di sotto di quello della popolazione. In un paese in una fase di marcata decrescita demografica come il nostro, questo si traduce in un impegno ad azzerare il consumo di suolo in meno di dieci anni e a procedere spediti verso il ripristino degli ecosistemi degradati.

Anche in Italia, con l’invio del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) alla Commissione Europea, il Governo si è impegnato formalmente ad approvare una «legge nazionale sul consumo di suolo in conformità agli obiettivi europei, che affermi i principi fondamentali di riuso, rigenerazione urbana e limitazione del consumo dello stesso, sostenendo con misure positive il futuro dell’edilizia e la tutela e la valorizzazione dell’attività agricola». Una legge che, se riuscisse ad arrestare finalmente ed efficacemente il consumo di suolo nel nostro Paese, permetterebbe di fornire un contributo fondamentale per affrontare le grandi sfide poste dai cambiamenti climatici, dal dissesto idrogeologico alla sicurezza alimentare, dall’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo al diffuso degrado del territorio, del paesaggio e dell’ecosistema.

Nonostante questo, ancora oggi, si continua a trasformare il territorio nazionale con velocità elevate e, nel 2020, secondo gli ultimi dati rilevati da ISPRA e dal Sistema Nazionale per la Protezione Ambientale, nuovi cantieri, edifici, insediamenti commerciali, logistici, produttivi e di servizio, infrastrutture e altre coperture artificiali hanno portato alla perdita di suoli naturali per 56,7 chilometri quadrati, ovvero, in media, quasi due metri quadrati di suolo al secondo. Un incremento che, neanche i mesi di blocco di gran parte delle attività durante il lockdown hanno ridotto e che rimane in linea con quello rilevato nel recente passato. Una crescita delle superfici artificiali solo in piccola parte compensata dal ripristino di aree naturali, pari nell’ultimo anno a cinque chilometri quadrati, dovuti al passaggio da suolo consumato a suolo non consumato (in genere grazie al recupero di aree di cantiere o di superfici che erano state classificate in precedenza come “consumo di suolo reversibile”).

La copertura artificiale del suolo è ormai arrivata a estendersi per oltre 21 000 chilometri quadrati, pari al 7,11% del territorio nazionale (era il 7,02% nel 2015, il 6,76% nel 2006), rispetto alla media UE del 4,2%. Le conseguenze sono anche economiche e i “costi nascosti”, dovuti alla perdita dei servizi ecosistemici che il suolo non è più in grado di fornire a causa della crescente impermeabilizzazione e artificializzazione degli ultimi otto anni, sono stimati in oltre tre miliardi di euro l’anno. Valori che sono attesi in aumento nell’immediato futuro e che potrebbero erodere in maniera significativa, per esempio, le risorse disponibili grazie al programma Next Generation EU. Si può stimare, infatti, che se fosse confermato il trend attuale e quindi la crescita dei valori economici dei servizi ecosistemici persi, il costo cumulato complessivo, tra il 2012 e il 2030, arriverebbe quasi ai 100 miliardi di euro, praticamente la metà dell’intero PNRR.

L’obiettivo di fermare il consumo di suolo, tuttavia, si scontra anche con la necessità di perseguire la transizione energetica e investire fortemente su nuovi impianti di energia da fonti rinnovabili, che potrebbero, a loro volta, portare a un incremento significativo delle superfici artificiali. I nuovi impianti fotovoltaici installati a terra nel 2020 hanno portato a un nuovo consumo di suolo agricolo pari a 1,8 chilometri quadrati per una potenza stimata di poco meno di 100 megawatt, un dato non molto distante dai due chilometri quadrati rilevati nel 2019. Ma le prospettive di crescita sono significative e, tra le misure previste all’interno del PNRR e gli obiettivi del Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC), che probabilmente saranno rivisti al rialzo, ISPRA e il Gestore Servizi Energetici (GSE) stimano una perdita compresa tra i 200 e i 400 chilometri quadrati di aree agricole entro il 2030 per il fotovoltaico a terra, a cui se ne aggiungerebbero, secondo Enel, altri 365 destinati a nuovi impianti eolici. Superfici così estese impatteranno negativamente su diversi servizi ecosistemici del suolo e lasceranno un’impronta indelebile sul paesaggio per gli anni futuri.

Eppure una buona parte dei tetti degli edifici esistenti, gli ampi piazzali associati a parcheggi o ad aree produttive e commerciali, le aree dismesse o i siti contaminati, rappresentano esempi evidenti di come sarebbero facilmente coniugabili la produzione di energia da fonti rinnovabili e la transizione energetica, con la tutela del suolo, dei servizi ecosistemici e del paesaggio, in prospettiva di una vera transizione ecologica che non tenga in considerazione solo alcuni obiettivi specifici spostando l’impatto su altre risorse. Solo considerando i tetti degli edifici (circa 3 500 chilometri quadrati in Italia al di fuori dei centri urbani), ISPRA stima che quelli dove sarebbe possibile installare nuovi impianti siano compresi tra i 700 e i 900, escludendo le aree non utilizzabili e assicurando le distanze necessarie alla manutenzione, con una potenza variabile dai 66 agli 86 gigawatt. A questa potenza si potrebbe aggiungere quella installabile in aree di parcheggio, in corrispondenza di alcune infrastrutture, in aree dismesse o in altre aree impermeabilizzate, senza aumentare il consumo di suolo. Anche ipotizzando che sul 10% dei tetti sia già installato un impianto, si può concludere che ci sarebbe una potenza fotovoltaica potenzialmente compresa fra 59 e 77 gigawatt, un quantitativo sufficiente, secondo il GSE, a coprire il doppio di quanto previsto dal Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC), che individua per il fotovoltaico un obiettivo di circa 52 gigawatt installati al 2030, cioè 30 in più dell’attuale livello (22 gigawatt).

La transizione energetica, quindi, non ha necessità di consumare altro suolo agricolo e naturale e si potrebbe facilmente coniugare con gli obiettivi di protezione del suolo e delle risorse naturali, del mantenimento della produzione agricola e della tutela del paesaggio. Anzi, potrebbe essere un’ulteriore occasione di riqualificazione degli edifici e di rigenerazione del patrimonio costruito esistente.


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Discovered a New Carbon-Carbon Chemical Bond

A group of researchers from Hokkaido University has provided the first experimental evidence of the existence of a new type of chemical bond: the single-electron covalent bond, theorized by Linus Pauling in 1931 but never verified until now. Using derivatives of hexaarylethane (HPE), the scientists were able to stabilize this unusual bond between two carbon atoms and study it with spectroscopic techniques and X-ray diffraction. This discovery opens new perspectives in understanding bond chemistry and could lead to the development of new materials with innovative applications.

In the cover image: study of the sigma bond with X-ray diffraction. Credits: Yusuke Ishigaki

After nearly a year of review, on September 25, a study was published in Nature that has sparked a lot of discussion, especially among chemists. A group of researchers from Hokkaido University synthesized a molecule that experimentally demonstrated the existence of a new type of chemical bond, something that does not happen very often.