Partire o non partire? La scelta di lasciare o meno il proprio laboratorio o reparto è un interrogativo per molti dottorandi e post-doc; in quest'articolo, Lorenzo Moja tratteggia i possibili vantaggi del “lungo viaggio” all'estero.
Immagine da pxhere.
«La valigia sul letto è quella di un lungo viaggio» sono i primi versi di una celeberrima canzone di Julio Iglesias, Se mi lasci non vale, un artista forse oggi un pochino fané ma capace di rientrare tra i primi dieci cantanti al mondo per dischi venduti. Nel testo della canzone una donna ferita da un tradimento lascia il proprio compagno, che però non si capacita di questa scelta. I versi creano un’atmosfera in cui si rimane sospesi nell’incertezza, tra passato e futuro. La partenza diventa l’inizio di un percorso introspettivo in cui si rivive cosa è stato, tra gioie e amarezze. E il viaggio si trasforma nel preludio di un possibile ritorno. Con le dovute differenze questa canzone mi ricorda le sensazioni che si provano nel partire per frequentare un nuovo ateneo o laboratorio, magari molto lontano. «La valigia sul letto» non potrà non ricordare a chiunque sia partito, nell’ambito delle proprie attività di ricerca, il momento immediatamente prima di una lunga trasferta.
Dopo un corso dedicato alla metodologia della ricerca, ho avuto modo di passare qualche piacevole momento con alcuni dottorandi e post-doc di alcuni importanti atenei, discutendo del mondo della ricerca e delle difficoltà che questo presenta, soprattutto nelle fasi iniziali: stipendi bassi, difficoltà nel condurre i propri progetti, nel pubblicare, e poche certezze riguardo il futuro. Tutte frustrazioni condivisibili; il mondo della scienza può risultare meschino anche a chi ci si è avvicinato con grandi speranze.
Gran parte della discussione era incentrata sui possibili vantaggi o svantaggi dell’abbandonare la propria comfort zone, ovvero il proprio laboratorio (o reparto nel caso dei medici). Due tesi venivano contrapposte. La prima, più di pancia, prevedeva di rimanere nel laboratorio (o reparto) all’interno della struttura dove si era cominciato a fare ricerca, valutando se il credito derivato dall’assidua presenza potesse poi materializzarsi in una promozione. Se il piano di ottenere un posto da ricercatore in loco fosse fallito, allora sarebbe stato attivato il piano B: andare all’estero. Può sembrare una scelta vantaggiosa, in quanto pone un ordine ben definito alle proprie possibilità, cercando di massimizzare il proprio vantaggio, e mitiga i rischi – partire senza aver prima visto cosa succede “in casa”. Questa decisione sconta però un peccato originale, ovvero non tiene conto della probabile maturazione personale e dell’arricchimento scientifico che il viaggio conferisce. La seconda tesi a confronto è quella riassunta nel verso «un lungo viaggio», di cui provo a tratteggiare di seguito i possibili vantaggi.
Il metodo scientifico e le competenze trasversali
Il metodo scientifico è un complesso insieme di conoscenze di diverse discipline. Nelle scienze mediche troviamo, per esempio, la statistica, l’epidemiologia, la fisiopatologia, la clinica, solo per citarne alcune. Per quanto in molti atenei italiani tutte queste discipline siano rappresentate, c’è comunque il rischio che rimanendo a lungo nel proprio ambiente formativo ci si possa imbattere in un blocco evolutivo, ovvero non si riesca a crescere oltre un certo livello. L’ambiente diventa statico facendo emergere difficoltà di vita, relazioni personali ingessate e il costante ripetersi della routine.
Studiare oltre confine dà l'opportunità di esplorare diverse metodologie di lavoro, scoprire innovazioni e sperimentare in prima persona la vita dei diversi sistemi accademici e il loro approccio alla ricerca. La dinamicità del viaggio facilita l’incontro con il nuovo.
Una rete internazionale di contatti
Fare il proprio dottorato all'estero (o almeno una parte di esso) permette di espandere la rete di propri contatti al di fuori del proprio paese d'origine. Non si tratta di annotare qualche numero di telefono in più nella propria rubrica telefonica, ma di tessere relazioni e opportunità di crescita intellettuale tra la corte di colleghi della propria età e anche più senior. Chi viaggia dimostra passione e volontà di adattarsi a nuovi sistemi, e questa attitutidine favorisce l’accoglienza e “accende” l’empatia. Costruire una solida rete di colleghi permette di accedere a diversi progetti, esperienze di lavoro e opportunità di ricerca che rendono la propria agenda più ampia e variegata. Le attività così iniziano ad espandersi e moltiplicarsi.
L’inatteso
Andando all'estero, ci si apre a un'esperienza completamente nuova, che può finire per diventare parte di un percorso non pianificato al momento della partenza. La maturazione professionale in contesti che accolgono giovani ricercatori stranieri è sorprendentemente veloce, in particolare se comparata alle dinamiche italiane, dove si necessita spesso di tempo per scalare le gerarchie. Questa flessibilità si può concretizzare in proposte lavorative da parte dell’ente o accademia dove si è “atterrati”, o nella possibilità di vincere una selezione in altre istituzioni. Spesso è proprio l’esperienza internazionale la chiave di volta che apre a nuove strade. Chi inoltre possiede un’indole più audace, nel viaggio può trovare un ottimo bilanciamento tra mondo accademico e senso di avventura, scoprendo maggiormente sé stessi e le proprie capacità.
La continuità del viaggio nel proseguo della carriera
In diversi contesti culturali il “viaggio” non è un’opportunità relegata all’età specificatamente dedita all’apprendimento. In molti paesi Europei e negli Stati Uniti, professori con molti anni di carriera alle spalle spendono periodi all’estero con regolarità. Ogni 5 o 10 anni hanno l’opportunità di fare un sabbatico, ovvero un periodo di studio ospitati da una struttura estera. L’assunzione di fondo è che i benefici culturali e sociali che offre un lasso di tempo all’estero possono giovare non solo in età più giovane, ma ripetersi a ogni tempo della vita. Imparare a sfruttare le opportunità offerte da contesti diversi diventa quindi qualcosa che si può ripercorrere e replicare.
Il ritorno
Molte istituzioni e università in Italia stanno aumentando le quote di ricercatori e professori che hanno maturato lunghe esperienze all’estero (tre o più anni). Da più di dieci anni è attivo un sistema che dedica alcuni milioni di euro ogni anno per finanziare le chiamate dirette nei ruoli di professori di studiosi ed esperti stranieri o italiani impegnati all’estero. Questa opportunità, dedicata solamente a chi si è speso all’estero, va ad aggiungersi alle altre tipologie di concorsi del sistema di reclutamento accademico italiano. È lecito pensare che «la valigia sul letto» possa essere, nel futuro, quella di un possibile ritorno. A volte il rientro può beneficiare anche di condizioni fiscali particolarmente vantaggiose, se il ricercatore per esempio rientra nel contesto della legge “rientro dei cervelli” o “lavoratori rimpatriati”.
Le carriere nel mondo di ricerca si possono sviluppare sia a livello di sedi italiane, sia all’estero, o in ambedue. Esplorare percorsi complementari in cui ci si trasferisce da un’istituzione italiana a una estera, e viceversa, è una possibilità che andrebbe stimolata e non sottovalutata. Dimostrando di essere determinati, aperti alle novità e pronti a lanciarsi in nuove situazioni si allarga il proprio network fuori dai confini nazionali, acquisendo nuove conoscenze e sviluppando un pensiero critico su diversi sistemi e metodi di lavoro. Questo mix di cultura e passione è incredibilmente importante in un mondo globalizzato, indipendentemente dal percorso specialistico che si sceglie, per “saper andar via ma saper ritornare”, proprio come diceva Iglesias.
Sono grato a Daniela Berardinelli per i suggerimenti dati a una versione iniziale dell’articolo.
Questo articolo si va aggiungere a altri due articoli dedicati a coloro che sono in formazione: Medico e ricercatore: come bruciare i due lati della candela, senza scottarsi e L’inquietudine dei dottorandi al tempo di Covid-19