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Equivoci su libertà e pandemia al Festival di filosofia

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Il Festival di filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo, conclusosi da poco, è stato quest'anno dedicato al tema della libertà, trattato nel contesto della pandemia, ma molte delle argomentazioni emerse derivano da un uso a dir poco semplicistico e scorretto dei dati a disposizione, enfatizzandone alcuni a discapito di altri, come nella peggiore retorica sofistica.

Crediti immagine: aboodi vesakaran/Unsplash

Tempo di lettura: 7 mins

Nel Capitolo 22 della Genesi è narrato il famosissimo episodio della legatura di Isacco, erroneamente tradotto con «sacrificio», in quanto nessuno verrà mai sacrificato. La scena è notissima e travalica di molto i confini dell’immaginario religioso. Si tratta dell’ultima delle dieci prove che Abramo deve superare per rispondere alla chiamata divina, che in Gen. 21, 1, gli aveva chiesto di lasciare «la propria terra, la propria famiglia, la casa di suo padre» per dirigersi verso il luogo che gli sarebbe stato mostrato.

Quest’ultima prova sembra la più dura: al patriarca biblico viene chiesto di sacrificare suo figlio «il tuo unico, quello che ami, Isacco». In più punti il commento al testo mette in rilievo lo smarrimento di Abramo: ma come il punto d’origine di questo percorso è stata l’uscita da Ur dei Caldei, la città della fornace in cui i bambini erano sacrificati al sovrano-Dio Nimrod, e ora lo stesso Dio che mi ha intimato di andarmene mi chiede di sacrificare il mio? Il patriarca è in palese confusione.

Il tema del sacrificio dei figli non si è certo chiuso con l’antichità, riguarda anche noi moderni, alle prese con il tentativo di formare una pedagogia della libertà (cfr., John Dewey, Maria Montessori, ecc.), che superi lo scoglio della castrazione del figlio, per usare l’immagine psicoanalitica. Operazione alquanto paradossale, sebbene ineludibile: ogni pedagogia è inevitabilmente una castrazione in quanto costringe chi la riceve ad assumere una forma determinata. Se è così, si capisce bene lo smarrimento di Abramo: non aveva capito la formula pedagogica da adottare. Giusto vietare in un percorso di libertà come quello che lui stava costruendo con le sue prove?

L’episodio biblico sembra essere la perfetta metafora del Festival di filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo appena conclusosi e quest’anno dedicato al tema della libertà. Non sfugge a nessuno come l’argomento venga dibattuto in un contesto pandemico, che ci ha fatto e fa pensare ai confini da dare a questo concetto. Il festival ha riproposto tesi diffuse fra alcuni dei principali nomi del panorama filosofico attuale. Dall’onnipresente Massimo Cacciari, che ai toni ben noti trattati anche da Giovanni Boniolo su queste pagine ha aggiunto un sovrappiù di vittimismo, fino a Carlo Galli, che già da tempo strizza l’occhio a tesi neonazionaliste che denunciano un depauperamento dei diritti acquisiti. Tesi, come noto, oggi confluite nella critica alle misure di contenimento del virus, dalle mascherine, alle quarantene, fino al Green Pass1. Gli organizzatori non si sono spinti al punto da accogliere le posizioni esplicitamente negazioniste di Giorgio Agamben, il più noto filosofo italiano all’estero, che esordì parlando di presunta epidemia ed è giunto a paragonare i docenti che hanno accettato la DAD ai professori che si asservirono al regime fascista nel 1931.

ll tema, anche se mai evocato fino in fondo, appare chiarissimo: la pandemia ha accelerato la crisi del modello democratico che viviamo da diversi decenni, segnata da un prolungamento ad libitum dello stato d’emergenza. Siamo a un passo dallo stato d’eccezione di schmittiana memoria. Insomma, un’applicazione meramente formale di un paradigma contestatario post-sessantottino, che prescinde nel modo più assoluto dalle contingenze in atto. Un’interpretazione talmente astratta da dover essere corroborata da dati falsi, o mal letti, ed estremizzazioni infantili delle procedure scientifiche (tipico l’uso sproporzionato e arbitrario della definizione di procedura d’emergenza relativa ai vaccini) caratteristiche degli ambienti negazionisti del virus e dell’efficacia delle campagne vaccinali.

Sarebbe assai semplice dimostrare l’abbaglio in cui sono caduti autorevoli filosofi, partendo dal fatto che lo stato d’eccezione ci sarà se le società rimarranno preda del caos generato dall’epidemia, non dalle misure di contenimento. Se le democrazie non si dimostrano in grado di controllare i fenomeni, si condannano al fallimento e, a quel punto, verremo tutti assaliti da una «nostalgia cinese», dove l’epidemia è stata sostanzialmente domata in due mesi.

Ancora più facile sarebbe dimostrare qual definizione ingenua della libertà sia quella che concepisce ogni limitazione come suo opposto, costringendo il potere politico a imporre come ordini procedure che dovrebbero essere applicate da ciascuno di noi seguendo un semplice buon senso. Ma me lo deve dire il governo che non posso andare in discoteca in presenza di un virus aerobico molto contagioso? Spinoza, tra i fondatori del pensiero democratico moderno, distingueva in questo modo fra servo e suddito: il primo è colui cha ha bisogno di imposizioni, il secondo colui che sa autonomamente cosa è giusto fare (Trattato teologico-politico, Cap. XVI).2

Ma vogliamo, piuttosto, raccogliere qualche dato dall’esperienza di questo festival, che leggiamo un po’ come sintesi del dibattito filosofico di questi tempi di pandemia: la filosofia, non solo italiana, non si è emancipata da un approccio contestatario, che viene ormai applicato a ogni circostanza come fosse un riflesso filosofico condizionato. Un paradigma cha ha svolto uno straordinario ruolo sociale e che certo non ha smesso di generare i suoi frutti, sempre lo si sappia declinare nelle contingenze attuali (si potrebbe dire lo stesso in relazione ad altri temi al centro del dibattito sociale). Ne usciamo con la consapevolezza che va assolutamente colmata la distanza fra cultura umanistica e scientifica. Molte delle argomentazioni emerse derivano da un uso a dir poco semplicistico e scorretto dei dati a disposizione, enfatizzandone alcuni a discapito di altri, come nella peggiore retorica sofistica. Qualcosa che assomiglia più a un cherry picking dove ognuno raccoglie i dati utili a corroborare la propria tesi, piuttosto che dimostrare consapevolezza dell’iter di giudizio che presiede a un percorso di sperimentazione.

Tutti i momenti di sviluppo della conoscenza umana, fino alle grandi intuizioni «decostruttive» del secolo scorso, hanno visto la collaborazione di scienziati, filosofi, artisti, insieme impegnati nella fondazione di nuovi paradigmi, che avrebbero poi rappresentato la griglia interpretativa dei fenomeni nei secoli successivi. Ci vorrebbe un umanesimo nuovo, un neo-Rinascimento, cantava Giorgio Gaber al termine della sua vita. La discussione nata intorno alla pandemia ha reso questo auspicio ancor più improrogabile.

 

Note
 1. Massimo Cacciari ha presentato una relazione dal titolo «Libertà vo’ cercando», che riprende il «libertà va cercando ch’è sì cara» che Virgilio pronuncia riferito a Dante nel primo Canto del Purgatorio, vv. 70-72. Il cambio nel titolo deriva dal fatto, a dire dello stesso Cacciari, di essere solo in questa lotta, a differenza di Dante, che era accompagnato da Virgilio e ispirato da Beatrice e dalla Vergine Maria (!). Si può sentire in merito lo stesso Cacciari qui. Allo stesso link, che rinvia alla trasmissione di RaiRadio3 Uomini e profeti, si può sentire anche Galli. La trasmissione ha seguito il festival per conto della rete.
2. In questo caso anche Pina Totaro, tra le massime studiose di Spinoza in Italia, ha applicato in modo molto schematico l’idea di una libertà contrapposta ad ogni forma di necessità, cosa che ci sembra in contrasto con una visione seicentesca prima, spinoziana poi. Così Spinoza nel riferimento indicato:
«Dunque, il compito di provvedere a queste cose pesa soltanto sul potere sovrano, mentre sui sudditi, come abbiamo detto, pesa il compito di eseguire i suoi comandi e di non riconoscere altro diritto all’infuori di quello che il potere sovrano dichiara esser tale. Ma forse qualcuno penserà che in questo modo noi rendiamo schiavi i sudditi, dato che si ritiene che sia schiavo colui che agisce per comando e libero colui che si regola a suo piacimento; il che non è vero in assoluto, poiché, in realtà, è in sommo grado servo colui che è trascinato dal suo piacere al punto da non poter vedere né fare ciò che per lui è utile, e libero soltanto colui che vive con tutto l’animo soltanto sotto la guida della ragione. D’altra parte, l’azione per comando, cioè l’ubbidienza, toglie di sicuro in qualche modo la libertà, ma non rende senz’altro schiavi: a far ciò è il motivo dell’azione. Se il fine dell’azione non è l’utilità di chi agisce, ma di chi comanda, allora chi agisce è schiavo e inutile a se stesso; ma nell’ambito dello Stato e dell’esercizio del potere, dove è legge suprema la salvezza di tutto il popolo, e non di chi comanda, colui che ubbidisce in tutto al potere sovrano non deve essere detto schiavo inutile a se stesso, ma suddito. E perciò è massimamente libero quello Stato le cui leggi sono fondate sulla retta ragione: qui infatti ciascuno, se vuole, può essere libero, cioè vivere con tutto l’animo sotto la guida della ragione. Così, anche i figli, sebbene siano tenuti ad ubbidire a tutti i comandi dei genitori, non per questo sono schiavi, perché i comandi dei genitori riguardano soprattutto l’utilità dei figli. Esiste dunque una grande differenza tra lo schiavo da una parte, e il figlio e il suddito dall’altra, i quali, perciò, si definiscono così: schiavo è colui che è tenuto ad ubbidire ai comandi del padrone, comandi che riguardano soltanto l’utilità di chi comanda; figlio, invece, è colui che fa ciò che è utile a se stesso per comando del genitore; suddito, infine, colui che fa ciò che è utile alla comunità e, di conseguenza, anche a se stesso, per comando del potere sovrano».

 


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