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L’ecstasy può curare il disturbo da stress post-traumatico? Il dibattito è aperto

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Immagine da Wikimedia Commons, elaborazione di Sergio Cima per Scienza in rete.

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Secondo l’American Psychiatric Association, ogni anno circa il 3% della popolazione statunitense adulta è colpita dal disturbo da stress post-traumatico (PTSD, dall’inglese post-traumtatic stress disorder). Un’incidenza simile viene stimata anche in Europa, dove una recente rassegna indica che circa 8 milioni di adulti ogni anno sviluppano il disturbo. Secondo il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM), curato dall’Amercian Psychiatric Association e giunto alla quinta edizione, una persona può ricevere una diagnosi di PTSD solo se è stata esposta, direttamente o indirettamente, a un evento traumatico o stressante durante la propria vita. Le persone che ne soffrono hanno flashback che li riportano a quell’evento, evitano luoghi o persone che possano ricordarglielo, sono irritabili, aggressive e in continuo stato di allerta e possono soffrire di attacchi di panico. Inizialmente il disturbo è stato studiato soprattutto nei veterani di guerra, ma si è capito che anche altri tipi di esperienze possono causarlo, come per esempio stupri o minacce di stupro.

I trattamenti sviluppati per questa condizione sono sia psicoterapici che farmacologici, ma una porzione importante delle persone che soffrono di PTSD non traggono giovamento da questi trattamenti. Per questo motivo la notizia, pubblicata a maggio, che il primo studio clinico di fase 3 di un trattamento psicoterapico associato all’assunzione di MDMA (conosciuta anche con il nome di ecstasy) abbia osservato un’efficacia elevata, ha ricevuto molta attenzione.

Lo studio, i cui primi risultati sono stati pubblicati su Nature Medicine, è stato condotto negli Stati Uniti e sponsorizzato dalla non profit Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies (MAPS) con sede nella città californiana di Santa Cruz. Il fondatore di MAPS, l’attivista e psicologo Rick Doblin, racconta della sua «visione sul potenziale terapeutico e spirituale delle sostanze psichedeliche per il futuro dell’umanità» che ha motivato la sua missione di riaccreditare la ricerca sull’utilizzo delle sostanza psichedeliche in psichiatria fin dall’età di 18 anni, si è scontrata con l’inclusione nel 1985 dell’MDMA nell’elenco delle sostanze vietate sia per uso ricreativo che terapeutico, la cosiddetta Schedule I, da parte del Governo federale USA durante la war on drugs, e che è culminata proprio con questo studio clinico di fase 3. Doblin viene intervistato anche nel documentario del 2018 Dead dog on the left - A story of War, Friendship and Healing diretto da Emanuel Sferios, che racconta la storia di due reduci della guerra in Iraq che hanno partecipato a studi su MDMA e PTSD.

Per effettuare lo studio con l’obiettivo finale di chiedere l’autorizzazione di utilizzo del trattamento nella pratica medica all’Agenzia del farmaco statunitense FDA, MAPS ha ottenuto la classificazione di breakthrough therapy, che garantisce un percorso accelerato nel processo di valutazione. Questa classificazione è arrivata per i risultati promettenti di sei studi di fase 1 e 2, uno fra tutti quello pubblicato nel 2010 sul Journal of Psychofarmacology che ha riguardato 20 pazienti.

Lo studio di fase 3 ha coinvolto 90 pazienti e li ha divisi casualmente in due gruppi. Ai componenti del primo gruppo è stata somministrata una dose tra 80 e 120 milligrammi di MDMA all’inizio di tre sessioni di psicoterapia individuale lunghe otto ore. Ai membri dell’altro gruppo, invece, è stata data una sostanza inattiva all’inizio delle stesse tre sessioni di psicoterapia. Le tre sessioni sono avvenute a 4 settimane l’una dall’altra e ciascuna è stata seguita da 90 minuti di psicoterapia cosiddetta “di integrazione”, svolta immediatamente dopo o a una settimana di distanza. All’inizio dello studio, tutti i partecipanti hanno fatto una seduta di psicoterapia preparatoria di 90 minuti. Ciascuna seduta è stata tenuta da due psicoterapeuti che hanno seguito il programma di training dell’associazione MAPS.

L’efficacia del trattamento nei due gruppi è stata valutata a due mesi dall’ultima sessione attraverso una serie di metriche, comunemente utilizzate per valutare la gravità dei disturbi mentali. Una di queste è la “perdita della diagnosi”. Nel gruppo trattato con MDMA e psicoterapia circa il 70% dei partecipanti non presentava più l’insieme di sintomi necessari per ricevere diagnosi di PTSD, contro il 30% nel gruppo trattato solo con psicoterapia.

Un’altra metrica considerata è quella della riduzione dei sintomi, che viene calcolata utilizzando un punteggio chiamato CAPS (Clinically Administered PTSD Scale). Secondo questa metrica, l’impatto della psicoterapia assistita con MDMA è notevolmente superiore a quello dei trattamenti farmacologici che vengono indicati dall’FDA come trattamenti di prima linea, sertralina e paroxetina.

Proprio il confronto con altre terapie esistenti ha acceso il dibattito all’interno della comunità scientifica. In un commento pubblicato questa settimana su Nature Medicine, un gruppo di psicologi e psichiatri, ha osservato che esistono tecniche di psicoterapia che hanno un’efficacia molto superiore a quella di sertralina e paroxetina, soprattutto la trauma-focused cognitive behavioral therapy.

«Per il PTSD c’è tanto in termini di psicoterapia, alcuni approcci si sono dimostrati estremamente efficaci» commenta Ioana Cristea, ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze del Sistema Nervoso e del Comportamento all’Università di Pavia e una degli autori del commento. «Per questo riteniamo che sarebbe stato più utile confrontarsi con questi trattamenti, visto che l’intervento proposto è una combinazione di psicoterapia e farmaco» spiega Cristea e aggiunge: «gli autori parlano di una svolta nel trattamento di questo disturbo, breakthrough, ma se confrontato con tecniche di psicoterapia consolidate e che diverse linee guida internazionali, tra cui quelle dell’American Psychological Association o del National Institute for Health and Care Excellence britannico, indicano come trattamenti di prima linea, questo intervento non sembra classificarsi come una vera e propria svolta».

Gli autori dello studio hanno risposto osservando che il termine breakthrough era inteso in senso più regolatorio che scientifico e faceva riferimento alla classificazione ricevuta dall’FDA. Resta fermo il fatto che ci sono gruppi di persone con PTSD che non traggono giovamento dalle cure disponibili, né farmacologiche, né psicologiche. «Proprio per questo uno dei nostri suggerimenti» commenta Cristea «è quello di individuare popolazioni specifiche che non hanno risposto precedentemente ai interventi di prima linea verso cui indirizzare questo nuova terapia combinata con MDMA».

L’altro punto su cui gli autori dello studio hanno ribattuto, è la definizione di trattamento di prima linea per patologie su cui sia trattamenti psicologici che farmacologici hanno dimostrato una qualche efficacia. In particolare, riportano il parere dell’American Psychological Association che suggerisce come gli interventi farmacologici e psicologici non possano essere facilmente confrontati e sottolineano la difficoltà di progettare studi clinici che valutino l’efficacia di trattamenti combinati.

«Questo è il centro del problema a mio parere», dice Gaetano di Chiara, professore emerito di farmacologia all’Università di Cagliari e membro del Gruppo 2003; «è difficile capire quale sia stato il contributo del farmaco e quale quello della psicoterapia. In studi sulla psilocibina, un classico allucinogeno, è stato valutato esclusivamente l’effetto del farmaco, somministrando a un gruppo una dose ad attività francamente psichedelica e al gruppo di controllo una dose più bassa, inattiva o comunque priva di effetti psichedelici attivi». Di Chiara aveva raccontato qualche mese fa su Scienza in rete del cosiddetto rinascimento psichedelico in corso nella psichiatria e degli studi clinici sulla psilocibina nel trattamento dei disturbi depressivi.

Secondo Di Chiara il dibattito sullo studio clinico in questione è nato anche perché sono state messe in contatto due comunità che studiano il trattamento dei disturbi mentali con metodi diversi, da una parte gli psicofarmacologi e dall’altra gli psicologi. «I trattamenti in questi due campi vengono valutati in modo molto diverso, l’efficacia dei trattamenti psicologici è molto difficile da valutare e gli studi clinici non vengono sottoposti allo stesso tipo di vaglio dei trattamenti con farmaci».

Cristea, in effetti, rileva anche un altro limite dello studio proprio riguardo la parte di psicoterapia: «dal punto di vista degli interventi psicoterapici per il PTSD, c’è stato un dibattito approfondito all’interno della comunità scientifica. Negli studi clinici sono stati considerati diversi approcci, alcuni hanno mostrato i loro limiti e sono stati accantonati, altri hanno dato risultati migliori e ora le strategie più efficaci sono ben codificate ed esistono anche dei percorsi di formazione riconosciuti. Nello studio condotto da MAPS, invece, la parte di psicoterapia non sembra essere altrettanto codificata e non è chiaro se sia basata sugli ingredienti psicologici che già sappiamo funzionare bene oppure su altro. In più, è completamente in-house, solo MAPS può effettuare il training dei terapeuti.»

Un ultimo punto critico è stato sollevato in un secondo commento pubblicato questa settimana su Nature Medicine e riguarda la robustezza del blinding dello studio, ovvero la difficoltà nel nascondere ai partecipanti il gruppo a cui sono stati assegnati (MDMA o placebo). Gli effetti della sostanza sono talmente distintivi e immediati che è davvero difficile che chi la assume possa non rendersene conto. In più, circa il 30% dei partecipanti ha dichiarato di averne fatto uso in passato a scopo ricreazionale.

«Il problema del placebo in questo tipo di studi è estremamente difficile da risolvere», commenta Di Chiara «negli studi sulla psilocibina è stata somministrata una bassa dose al gruppo di controllo, ma visti gli effetti così intensi, che vengono descritti come mistici, anche in quel caso è difficile pensare che i partecipanti non siano consapevoli del gruppo cui sono stati assegnati» e aggiunge: «negli studio di efficacia di altri psicofarmaci, come gli antidepressivi inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, le sostanze sono praticamente prive di effetti acuti e il loro effetto terapeutico si manifesta a distanza di qualche settimana».

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