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Blue&Raman: da chi viene il nome del nuovo cavo sottomarino

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Il sistema di trasmissione via cavo a fibre ottiche che, una volta ultimato, collegherà Italia e India e la cui piena operatività è prevista per il 2024 comprende due tratti: il primo è il Blue System, mentre il secondo è il Raman System (che collegherà Giordania, Arabia Saudita, Gibuti, Oman e India). Il nome viene dal fisico indiano Chandrasekhara Venkata Raman (1888-1970), scopritore del fenomeno ottico che porta il suo nome: Marco Taddia ce ne racconta la storia.

Crediti immagine: berenice melis/Unsplash

Tempo di lettura: 5 mins

La prima volta che il premio Nobel in campo scientifico prese la via dell’Asia fu nel 1930, quando venne assegnato al fisico indiano Chandrasekhara Venkata Raman (1888-1970), scopritore del fenomeno ottico che porta il suo nome (Effetto Raman). La motivazione del riconoscimento fu «for his work on the scattering of light and for the discovery of the effect named after him». Dalla scoperta di Raman derivò un nuovo tipo di spettroscopia vibrazionale, che oggi impiega sorgenti laser e nelle moderne varianti trova applicazione in svariati campi, da quello biochimico e biomedico, all’industria farmaceutica, ai materiali in generale, compreso lo studio dei pigmenti pittorici.

Si è pensato a Raman al momento di dare un nome all’innovativo sistema di trasmissione via cavo a fibre ottiche che, una volta ultimato, collegherà Italia e India e la cui piena operatività è prevista per il 2024. Il sistema comprende due tratti: il primo (Blue System) collegherà Italia, Francia, Grecia e Israele, mentre il secondo (Raman System) collegherà Giordania, Arabia Saudita, Gibuti, Oman e India. Il cavo Blue&Raman offrirà a Internet Service Provider (ISP), operatori di telecomunicazioni, fornitori di contenuti, imprese e istituzioni collegamenti Internet ad alta velocità e soluzioni di connettività diversificate e ad alte prestazioni. 

La decisione di intitolare a Raman il secondo tratto del cavo ci ricorda il viaggio per mare che lo scienziato compì un secolo fa. All’epoca era professore all’Università di Calcutta, titolare della Palit Chair e compì il suo primo viaggio a Londra. L’occasione gliela aveva fornita il Congresso delle Università dell’Impero Britannico, che si era tenuto a Oxford e dove lui aveva rappresentato quella di Calcutta. Raman, che era già noto per ricerche in acustica e ottica, approfittò dell’occasione per compiere alcuni esperimenti di acustica nella galleria della cattedrale di Saint Paul e, naturalmente, per incontrare scienziati del calibro di J.J. Thompson, E. Rutherford e W.J. Bragg.

Per tornare in patria si imbarcò a Southampton sul piroscafo a vapore S.S. Narkunda, che l’avrebbe portato a Bombay in due settimane, e, durante il lungo viaggio, ebbe modo di riflettere su un fenomeno che l’aveva colpito, ossia il colore blu intenso delle acque del Mediterraneo e del Mar Rosso. Non era certamente il primo a interessarsene: prima di lui Lord Reyligh l’aveva attribuito alla riflessione del colore del cielo.

Non convinto della spiegazione, Raman ideò un semplice esperimento per escludere la sola riflessione come causa del fenomeno. Aiutandosi con un prisma di Nicol che aveva montato a un capo di un tubo di osservazione e che poteva ruotare attorno al proprio asse per intercettare la luce polarizzata riflessa dalla superficie marina, si accorse che il colore blu del mare persisteva anche quando il riflesso era neutralizzato da un’adatta orientazione del Nicol. Dotando il tubo di una fenditura e ricorrendo a un reticolo di diffrazione vide inoltre che nella luce proveniente dalla superficie marina erano prevalenti le radiazioni a lunghezza d’onda corta rispetto a quella proveniente dal cielo. Segnalò anche che il colore del mare, privato del riflesso, variava con l’azimuth di osservazione relativo al piano di incidenza dei raggi solari sull’acqua. Quando il piano di osservazione e quello di incidenza erano gli stessi e l’osservatore volgeva la schiena al sole, il colore del mare era più brillante ma comparativamente meno intenso. Cambiando posizione di osservazione le cose cambiavano finché per un angolo prossimo a 180° l’acqua appariva molto scura e il colore tendeva all’indaco. Il colore e la sua intensità mutavano a seconda dell’altezza del sole nel cielo.

Da queste osservazioni, Raman dedusse che il fenomeno andava collegato alla diffrazione provocata dal passaggio della luce attraverso l’acqua, chiedendosi nel contempo chi fosse responsabile di tale effetto. Avanzò l’ipotesi che, almeno in parte, fossero le stesse molecole d’acqua che, in ragione della loro struttura, riuscivano a diffondere la luce otto volte più intensamente dell’aria priva di polveri. Riferì il tutto in una lettera per Nature, che porta la data del 26 settembre 1921 e che risulta scritta sul piroscafo.

Una volta rientrato in patria avviò prontamente un programma di ricerca presso il suo laboratorio dell’Indian Association for the Cultivation of Science, coadiuvato da un gruppo di giovani collaboratori. La svolta che fece prendere alle sue ricerche una direzione inattesa si verificò nel 1923. In quell’anno, K.R. Ramanathan, uno dei suoi più brillanti studenti, studiando il fenomeno con un sistema di filtri appropriato, si accorse che nella luce diffusa comparivano radiazioni diverse da quelle contenute nel raggio incidente. Due anni dopo, fu K.S. Krishnan a studiare il fenomeno su diversi liquidi accuratamente purificati e, nel 1927, lo stesso Raman lo estese a vetri ottici e a cristalli di ghiaccio. Intanto venivano perfezionate le apparecchiature e ciò permise di verificare che la luce solare, diffusa da glicerina purificata e anidra, appariva verde e nettamente polarizzata. Cercando una spiegazione dei fenomeni osservati, Raman cominciò a pensare che si trattasse di un fenomeno analogo all’effetto Compton e lo chiamò “scattering modificato”.

Nel 1928 la rivista Nature pubblicò due articoli di Raman, il secondo firmato con Krishnan, che escludeva trattarsi di fluorescenza e riconduceva il fenomeno a fluttuazioni delle molecole dal loro stato “normale”. Sulla stessa rivista, nello stesso anno, l’autorevole fisico R.W. Wood (1868-1955) scrisse che la scoperta era una conferma della teoria quantistica. Come spesso succede, non mancarono altre rivendicazioni, come quella dell’austriaco Adolf G. S. Smekal (1895 –1959), tant’è che si parlò anche di effetto Smekal-Raman. Insomma, anche questa volta, il Nobel fu seguito da polemiche sulle priorità. Anche gli scienziati non danno molto importanza a ciò che il poeta indiano Rabindranāth Tagore (1861-1941), primo Nobel asiatico per la letteratura (1913), diceva:

Quando siamo grandi in umiltà, siamo più vicini a ciò che è grande.

 

Per saperne di più:
B.R. Masters, C.V. Raman and the Raman Effect, OPN, 2009, 41, 3
R.S. Krishnan and R.K. Shankar, Raman Effect: History of the Discovery, J. Raman Spectr., 1981, 10, 1
C.V. Raman, The Molecular Scattering of Light (Nobel Lecture, December 11, 1930) 

Questo articolo anticipa in parte quello che comparirà prossimamente sul giornale La Chimica e l’Industria online, organo ufficiale della Società Chimica Italiana.

 


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