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Stimare l'eccesso di mortalità generale per capire l'impatto di Covid-19

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Una sintesi del webinar “Impatto Covid-19: quanto è difficile stimare l’eccesso di mortalità?” organizzata da Scienza in rete il 18 maggio.

L’ultima stima in ordine di tempo è quella pubblicata all’inizio di maggio dall’Organizzazione Mondiale della Sanità: tra il 2020 e il 2021 nei 194 paesi che fanno parte dell’OMS sarebbero morte 15 milioni di persone in più rispetto a quanto sarebbe successo se la pandemia di Covid-19 non ci fosse stata. Questa stima va confrontata con il numero di morti ufficialmente attribuiti a Covid-19 dai diversi governi nazionali, circa 5,5 milioni. La notevole differenza sarebbe in parte dovuta alle persone morte a causa dell’infezione con SARS-CoV-2 ma non diagnosticate e in parte al fatto che i sistemi sanitari sono stati sottoposti a una pressione tale da non poter garantire cure adeguate per tutte le altre malattie. Per questo, l'eccesso di mortalità generale è considerato una stima degli effetti diretti e indiretti di un’epidemia sulla popolazione.

«La differenza tra le morti in eccesso e quelle ufficialmente attribuite a Covid-19 non è uguale in tutti i paesi», ha spiegato Rodolfo Saracci, già presidente della International Epidemiological Association, «per l’Italia la stima dell’eccesso è di circa 160 mila morti da confrontare con le circa 136 mila associate a Covid dal sistema di sorveglianza integrata dell’Istituto Superiore di Sanità, una differenza del 20% circa simile a quella che si osserva nei paesi ad alto reddito dell’OMS».

La situazione è diversa se si considerano i paesi a basso reddito in cui non sono disponibili dati di mortalità di alta qualità. «I dati di mortalità mensili utilizzati per la stima dall’OMS sono disponibili solo per 74 dei 194 paesi che fanno parte dell’Organizzazione, per 84 paesi non ci sono dati e per i restanti 35 i dati sono parziali, si riferiscono cioè solo ad alcune regioni o ad alcuni periodi», commenta Saracci «per i paesi senza dati di mortalità si usano delle variabili che nei paesi in cui i dati di mortalità sono disponibili sono correlate con la mortalità. Queste variabili vengono usate poi anche per correggere le stime dei paesi che i dati li hanno. Insomma, si tratta di surrogati dei dati osservati».

Molto diverso l’approccio seguito da ISTAT e Istituto Superiore di Sanità per l’elaborazione del settimo rapporto sull’impatto dell’epidemia sulla mortalità totale. «Sono d’accordo con Saracci, la qualità di un modello dipende molto dalla qualità dei dati di input», ha commentato Sabrina Prati, che all’ISTAT dirige il servizio Registro della popolazione, statistiche demografiche e condizioni di vita. «Per questo ritengo che il processo di innovazione che ha riguardato i dati di mortalità in cui ISTAT è stata coinvolta, sia particolarmente importante. Oggi pubblichiamo dati di mortalità per comune, distinti per classi di età e sesso con 45 giorni di ritardo, prima l’attesa per questi dati era di dieci mesi», ha spiegato Prati. La disponibilità di dati prodotti con la stessa metodologia a partire dal 2011 e aggiornati tempestivamente permette di confrontare in maniera robusta la mortalità pre-Covid con quella osservata nel periodo Covid.

«Nel nostro rapporto abbiamo deciso di non fare modellizzazione, abbiamo usato un approccio statistico-descrittivo», ha spiegato Pezzotti, responsabile del sistema di sorveglianza integrata Covid-19 e direttore del Reparto di Epidemiologia, Modelli Matematici e Biostatistica del Dipartimento Malattie Infettive dell'Istituto Superiore di Sanità.

Il rapporto prende come riferimento il periodo 2015-2019, in cui la mortalità osservata è stata in media di 645 620 decessi all'anno, e lo confronta con i decessi osservati nel 2020, 746 146, e nel 2021, 709 035. L’eccesso è stimato come differenza e dunque è di 100 526 per il 2020 (+15,6%) e di 63 415 per il 2021 (+9,8%). L’eccesso di mortalità si concentra nel 2020, soprattutto nel primo semestre, mentre nel 2021, in particolare nel secondo semestre, si vede l’effetto delle vaccinazioni nel disaccoppiare l’aumento dei casi da quello dei decessi.

«In realtà un’assunzione c’è anche nel nostro rapporto, cioè che il 2015-2019 sia un buon periodo di riferimento per stimare la mortalità attesa nel 2020 e nel 2021 in assenza della pandemia», ha commentato Prati.

Queste stime possono essere confrontate con quelle ottenute dal gruppo coordinato da Marta Blangiardo all’Imperial College a Londra e pubblicate a fine gennaio su Nature Communications, di cui avevamo parlato anche qui. «Il nostro lavoro si distingue dagli altri perché prova a stimare l’eccesso di mortalità a livello subnazionale. L'obiettivo era provare a individuare quali caratteristiche di un luogo e della sua popolazione sono state determinanti per la mortalità», ha spiegato Blangiardo.

Il modello usa come unità spaziale la settimana e come unità territoriale la provincia. Considera cinque paesi europei, Italia, Spagna, Francia, Grecia e Inghilterra. Si tratta di un modello spazio-temporale, che ammette cioè correlazioni nel tempo e a livello geografico. Il modello prevede poi una dipendenza non lineare della mortalità dalla temperatura e considera una popolazione “dinamica” in termini di composizione per età e sesso. «La granularità spaziale e temporale ci permette di avere risultati a livello di provincia e di settimana ma poi di aggregare alla risoluzione spaziale e temporale che ci interessa. Questo ci permette di fare confronti all’interno dello stesso paese, ma anche poi di aggregare e fare confronti a livello nazionale o dell’intero anno», ha spiegato Blangiardo.

I risultati, che si limitano al 2020, indicano una forte variabilità geografica anche a livello nazionale. In Italia, oltre alle grandi differenze osservate tra Nord e Centro-sud durante la primavera del 2020, si vedono differenze significative anche concentrandosi sulle singole regioni e guardando a province diverse. In Inghilterra, la variabilità geografica si osserva di più tra zone urbane e zone rurali.

«Aggregando a livello nazionale possiamo confrontare l’andamento temporale nei diversi paesi e si vede, per esempio, che la Grecia di fatto non ha avuto eccesso di mortalità in corrispondenza della prima ondata dell’epidemia nel resto d’Europa. Questo, secondo noi, potrebbe essere dovuto al fatto che quando la Grecia ha introdotto il primo lockdown c’erano solo un centinaio di casi nel paese, mentre erano molti di più in Italia, Spagna e Inghilterra».

«Per l’Italia nel complesso noi stimiamo un eccesso di circa 65 mila morti, con un intervallo di credibilità che va da circa 30 mila a circa 100 mila», ha spiegato Blangiardo. «La stima di ISTAT e ISS è dunque all’estremo superiore del nostro intervallo di confidenza. Questa differenza è probabilmente dovuta al fatto che noi consideriamo l’invecchiamento della popolazione».

Se la stima di Blangiardo e coautori è inferiore rispetto a quella dell’ultimo rapporto di ISTAT e ISS, quella prodotta dall’Institute for Health Metrics and Evaluation(IHME) dell’Università di Seattle, responsabile anche delle stime Global Burden of Disease, è invece molto maggiore, 259 mila morti in più per il biennio 2020-2021, contro i circa 164 mila stimati da ISTAT e ISS.

«Le stime di IHME pubblicate all’inizio di marzo su Lancet hanno creato un po’ di scompiglio», ha commentato Lorenzo Monasta, dirigente statistico presso l’IRCCS Burlo-Garofolo di Trieste e coordinatore della rete Global Burden of Disease in Italia. «Di questo l’Istituto si è reso conto e sta procedendo a una prima correzione. Come nel caso dell’OMS, anche la stima dell’IHME è una stima globale e la qualità della stima dipende dalla qualità dei dati di input. Per la maggioranza dei paesi africani e del Sud-est asiatico non erano disponibili dati affidabili di mortalità per il periodo preso a riferimento, che nel nostro caso è 2011-2019. L’Italia aveva contribuito, al momento della stima, con i dati di mortalità fino alla 48esima settimana del 2021, quindi fino al 1°dicembre 2021».

Dopo la pubblicazione su Lancet si è aperta una discussione con ISTAT e ISS che hanno espresso dei dubbi sulla fondatezza dei risultati e chiesto spiegazione agli autori.

«Il modello è stato costruito considerando sia la stagionalità che i trend temporali», ha spiegato Monasta. «Uno dei problemi che abbiamo riscontrato è che in Italia nei primi mesi del 2020 la stima della baseline si abbassava eccessivamente a causa di una mortalità molto bassa probabilmente dovuta a un inverno mite. Il modello, che è molto complesso, aggiustava per la variabilità dei residui ed era forse eccessivamente flessibile». Un andamento discendente della mortalità era infatti in disaccordo con l’osservazione degli ultimi anni: un aumento della mortalità causato dall’invecchiamento della popolazione.

Altre criticità potrebbero derivare dal fatto che, per supplire alla mancanza di dati di mortalità per alcuni paesi sono state usate delle variabili covariate anche per quei paesi che invece avevano dati di mortalità affidabile, come l’Italia. È stato poi usato un approccio di ensemble, sono stati cioè combinati diversi modelli stabilendo il peso di ciascuno in base alla sua capacità di riprodurre i dati storici pre-Covid.

«Ora IHME ha corretto le sue stime per l’Italia e il nuovo risultato per il 2020 è di 101 146 decessi in più, in linea con quello di ISTAT e ISS ma con delle differenze ancora significative se si guarda a livello regionale. Per il 2021 la stima corretta, pari a circa 105 mila decessi, è ancora sostanzialmente più alta di quella di ISTAT e ISS», ha spiegato Monasta aggiungendo che «la lezione appresa è che forse i modelli troppo complessi sono rischiosi e faticano a tenere conto delle realtà locali».

Il dibattito che si è aperto dopo la pubblicazione delle stime dell’IHME ha portato alla costituzione di un gruppo di lavoro coordinato da Pezzotti, che coinvolge una decina di ricercatori che hanno lavorato su questo tema. Oltre agli epidemiologi di ISS che hanno contribuito al rapporto sulla mortalità pubblicato insieme a ISTAT e hanno anche firmato un articolo a luglio dello scorso anno sulla rivista Frontiers in Public Health, ci sono anche Giovanna Jona Lasinio e Antonello Maruotti della Sapienza autori di una stima di eccesso di mortalità in Lombardia nella prima ondata pubblicata sulla rivista Aging Clinical and Experimental Research, oltre a Garyfallos Konstantinoudis e Michela Cameletti, due degli autori del lavoro su Nature Communications coordinato da Marta Blangiardo.

Il gruppo sta confrontando le diverse stime di eccesso di mortalità per l’Italia nel 2020 e 2021, guardando anche le differenze a livello di area geografica, fasce di età e regioni. «Per ora la stima del settimo rapporto congiunto ISS-ISTAT tiene molto bene, è sempre inclusa nell’incertezza delle diverse stime che stiamo considerando», ha commentato Pezzotti. «Con i colleghi di ISTAT abbiamo condiviso un approccio che fosse oltre che robusto anche semplice da comunicare al pubblico».

Oltre a stimare la mortalità in eccesso, il rapporto congiunto ISS-ISTAT ha anche analizzato alcune caratteristiche delle persone morte a causa di Covid, ovvero di quei decessi che sono stati segnalati nel sistema di sorveglianza integrata Covid-19 gestito dall’ISS. Esiste un secondo flusso di dati dell’epidemia che viene gestito dalla Protezione civile insieme al Ministero della Salute. Anche in questo flusso vengono segnalati i decessi attribuiti a Covid-19, ma si tratta di dati più sporchi perché più tempestivi.

«Abbiamo analizzato un campione di certificati di morte e cartelle cliniche associate, circa il 10% del totale», ha spiegato Graziano Onder, che dirige il Dipartimento di Malattie cardiovascolari, endocrino-metaboliche e invecchiamento dell’Istituto Superiore di Sanità e coordina il gruppo di lavoro sulla mortalità. «Le nostre analisi ci permettono di smontare tre adagi che si sono spesso ripetuti nel dibattito pubblico durante questi anni».

Il primo è: “Di Covid muoiono solo gli anziani, pluri-patologici”. Tuttavia, «molto dipende dal periodo di riferimento», ha spiegato Onder. In un lavoro pubblicato a dicembre del 2020 sulla rivista Aging Clinical and Experimental Research Onder e coautori hanno osservato che, se nel periodo giugno-agosto 2020 l’età media dei deceduti era intorno a 83 anni, nel periodo marzo-maggio dello stesso anno era tre anni più bassa. Inoltre, se nel secondo periodo una persona morta su dieci aveva una o nessuna patologia oltre Covid-19, nel primo periodo una persona morta su sei aveva una o nessuna patologia. «Questi dati rispecchiano il differente carico sul sistema sanitario nazionale nei due periodi, oltre alla maggiore comprensione della Covid-19 acquisita nel tempo dai medici».

Il secondo adagio recita così: “Erano vecchi, sarebbero morti comunque”. Questa affermazione è in parte basata sull’ipotesi che una percentuale significativa delle morti attribuite ufficialmente a Covid-19 sia in realtà stata causata da altre patologie, e che i medici abbiano compilato i certificati di morte in modo impreciso. «La definizione stessa di malattia infettiva crea un corto circuito», commenta a questo proposito Saracci «la diagnosi di una malattia infettiva è basata sull’accertamento in laboratorio della presenza del patogeno associato, che è anche la causa della malattia. Questo fa sì che la malattia infettiva prevalga sulle altre patologie al momento della certificazione di morte», ha continuato Saracci e ha aggiunto «all’inizio della mia carriera ho trascorso cinque anni in ambito clinico e il mio primo lavoro fu la certificazione di morte di una coorte di 1 700 pazienti, non credo che oggi i medici vengano formati ancora su queste attività».

«È vero», ha risposto Onder, «i medici non sono sufficientemente formati sulla compilazione dei certificati di decesso, ma questi certificati restano la migliore fonte di informazione che possiamo avere, perché sono compilati dai medici che hanno seguito i pazienti al momento del decesso e che hanno sott’occhio la cartella clinica». (Questo nel caso di decessi avvenuti in ospedale, che sono solo una parte dei decessi attribuiti a Covid in questi due anni, ndr).

«Per questo, per il settimo rapporto abbiamo analizzato un campione di certificati di morte e cartelle cliniche e abbiamo concluso che in nove casi su dieci Covid-19 è stata effettivamente la causa principale del decesso».

Questo porta al terzo adagio: “Ma allora i decessi Covid sono sovrastimati”. La risposta qui è semplice: «il 10% circa dei decessi segnalati al sistema di sorveglianza Covid-19 potrebbe essere effettivamente stato causato da altre patologie, ma non dobbiamo dimenticare che, soprattutto nel primo semestre del 2020, molte persone sono morte senza essere state sottoposte a tampone e dunque non entrano in questi conteggi».

Questo si vede bene, ha aggiunto Onder, considerando il rapporto sulle cause di morte del periodo marzo-aprile 2020 pubblicato da ISTAT ad aprile 2021. In quei due mesi 29 mila decessi hanno come causa principale Covid-19, mentre nel sistema di sorveglianza Covid-19 i morti segnalati sono 20 mila. Quindi nei soli mesi di marzo e aprile del 2020, abbiamo 9 mila morti non conteggiati nel portale dell’Istituto ma che risultano morti a causa di Covid secondo il certificato di decesso. A questo si aggiunge il fatto che negli stessi due mesi sono stati osservati 5 mila morti in più per polmonite o influenza rispetto a quanto osservato nel periodo 2015-2019, tra questi una parte saranno stati causati da una peggiore assistenza sanitaria, ma un’altra parte è plausibile siano decessi causati da Covid-19 in persone che non hanno mai ricevuto la diagnosi.

Onder ha infine sottolineato che l’impatto dell’epidemia sulla mortalità generale non si limiterà al 2020-2021. «Molte persone con malattie croniche in questi due anni non sono state diagnosticate, curate e sottoposte a screening. La loro condizione si è deteriorata e ora si presentano con manifestazioni acute rivolgendosi ai Pronto Soccorso».

L’analisi dei certificati di morte da parte del gruppo di Onder è stata limitata a un piccolo campione perché in Italia il certificato di morte è ancora compilato a mano su carta. «Viene prodotto in due copie, una viene spedita alla ASL e una all’ISTAT», spiega Stefano Marchetti, che in ISTAT si occupa proprio di dati sui decessi e di codifica dei certificati di morte. «Questo accade perché il certificato di morte è un documento con valore prima di tutto amministrativo, non viene cioè usato solo per finalità statistiche. Serve ad aggiornare l’Anagrafe della Popolazione Residente, gestita dal Ministero dell’Interno, e l’Anagrafe Tributaria, gestita dal Ministero dell’Economia e delle Finanze.»

Il dato arriva dunque con ritardo all’ISTAT e quando arriva è un dato che deve essere trasferito dalla carta ai sistemi informatici. Altro ritardo.

«Finora ISTAT elaborava i dati di mortalità con 24 mesi di ritardo, rispettando la normativa comunitaria. Ma quando l’epidemia è scoppiata è stato chiaro che 24 mesi sono troppi per usare questi dati per prendere decisioni e indirizzare le politiche di sanità pubblica».

L’accelerazione di questo processo passa ovviamente dalla digitalizzazione.

L’Anagrafe della popolazione residente è stata istituita nel 2012 con il decreto legge numero 179, in cui, all’articolo 2, è stata anche prescritta la digitalizzazione del certificato di morte.

Ma da allora fino al 2020 è successo ben poco. Il decreto legge 34/2020 ha ribadito l’urgenza di accelerare il processo usando il sistema tessera sanitaria. «I medici già conoscono il sistema tessera sanitaria, possono compilare in tempo reale il certificato di morte e inviarlo alle ALS e a noi di ISTAT» ha spiegato Marchetti. Il decreto è stato poi demandato a un decreto attuativo affidato a Ministero dell’Economia e delle Finanze, Ministero dell’Interno e Ministero della Salute. «Al tavolo siamo stati invitati anche noi di ISTAT e l’Agenzia per l’Italia digitale».

Il decreto dovrebbe essere pubblicato a luglio in Gazzetta Ufficiale. «Da lì ci vorranno alcuni mesi per l’avvio delle procedure, ed entro la fine dell’anno si spera di abbandonare il cartaceo e passare alla certificazione elettronica», ha concluso Marchetti.


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