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Almeno il 40% del pianeta da tutelare per preservare la biodiversità

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Per proteggere la biodiversità, secondo uno studio pubblicato su Science, serve tutelare il 44% della superficie terrestre. Un risultato importante per guidare le prossime agende politiche sui temi ambientali. Proprio a giugno, a Nairobi, si è discusso sulla definizione dei nuovi target per la tutela della biodiversità post-2020 e lo sviluppo sostenibile.

Crediti immagine: Mark Houghton - Unsplash

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Per fermare la rovinosa perdita di biodiversità in corso servirebbe proteggere un’area pari a circa 64 milioni di chilometri quadrati, corrispondente al 44% della superficie terrestre, secondo uno studio pubblicato su Science da un team che comprende ricercatori olandesi, italiani, australiani, inglesi e statunitensi. Insomma, non era andato troppo in là con la fantasia Edward O. Wilson, illustre biologo inventore della parola biodiversità, a proporre nel 2016 di salvaguardare metà del pianeta per fermare la sesta estinzione di massa. La metà della Terra, secondo Wilson, sarebbe necessaria perché solo proteggendo territori vasti, o favorendo la creazione di corridoi che colleghino in un’ampia rete aree protette di più modesta estensione, si può sostenere il funzionamento di un numero elevato di ecosistemi e delle specie che li formano.

Un ragionamento simile ha guidato gli autori dello studio di Science, che, attraverso un’analisi geospaziale, hanno combinato diverse informazioni per stimare la superficie minima da proteggere: hanno infatti mappato tutte le aree protette esistenti, gli ecosistemi ancora intatti e le Key Biodiversity Areas ovvero aree chiave per la biodiversità, hotspot che ospitano una o più specie e ne garantiscono l’esistenza sul lungo periodo. Oltre a questo, i ricercatori hanno utilizzato i dati geografici delle liste rosse dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura relativi a ben 35.561 specie di mammiferi, uccelli, anfibi, rettili e crostacei di acqua dolce. Non è il primo tentativo di stimare la porzione del pianeta da difendere per arginare la perdita di specie, ma è la prima volta che vengono messi insieme in un'unica mappa tutti questi dati.

La buona notizia è che oltre la metà (per la precisione il 70%) di questo 44% di Terra necessaria a sostenere la biodiversità è già relativamente integro, e quindi non richiederebbe grandissimi sforzi e investimenti per la conservazione. Diverse sono invece le criticità: in primo luogo, molti degli ecosistemi ancora integri e delle aree chiave per la biodiversità non si sovrappongono alle superfici delle aree protette. Inoltre, come è facile immaginare, le aree da salvaguardare non sono distribuite in modo equo in tutte le regioni del mondo. Per esempio, tra ecosistemi ancora non degradati e funzionanti e Key Biodiversity Areas, il 64% del Nord America (prevalentemente il Canada) richiederebbe una tutela, contro il 33% della vecchia Europa, segnata da millenni di impronta antropica. La superficie supera invece l’80% in Paesi ricchi di specie endemiche come il Costa Rica, l’Ecuador e il Suriname. Sicuramente, però, la maggiore criticità da affrontare è che nelle aree che richiedono una maggiore attenzione per la salvaguardia della biodiversità vivono ben 1,87 miliardi di persone. Anche qui la situazione è sbilanciata, perché queste aree sono per la maggior parte in Africa, Asia e America Centro- Meridionale, Paesi che ospitano hotspot di biodiversità. Lo studio ipotizza tre possibili scenari futuri: uno ottimistico, in cui la transizione verso la sostenibilità entra concretamente nelle agende politiche, uno pessimistico, nel quale le rivalità per l’accesso alle risorse la faranno da padrone e il consumo di habitat proseguirà a ritmo sostenuto, e, infine, una via di mezzo tra le due opzioni, con la messa in campo di alcune strategie sostenibili, ma senza cambiamenti eclatanti dello stile di vita. Il problema è che anche nello scenario più ottimistico si verificherà una perdita significativa di habitat intatti e necessari al sostentamento della biodiversità. E nello scenario peggiore questa perdita raggiungerà proporzioni elevate: la stima è che più di 1,3 milioni di km2 di questa superficie terrestre – un’area più grande del Sudafrica – rischiano di essere distrutti entro il 2030 dalle attività antropiche. E anche qui le superfici non sono equamente ripartite, perché la maggior parte di queste trasformazioni si verificherà in Paesi in via di sviluppo, in particolare nel continente africano, mentre il rischio è meno pronunciato per i Paesi più ricchi.

La protezione dell’ambiente rischierebbe quindi di scontrarsi in modo ineguale con le necessità dei singoli Stati, penalizzando in particolar modo chi vive in Paesi in via di sviluppo, che ospitano la maggiore proporzione di ecosistemi intatti e di aree chiave per la biodiversità. È quindi fondamentale fermare la perdita di biodiversità senza impattare le comunità locali, pensando strategie di sviluppo sostenibile compatibili con la tutela. Già a suo tempo, la proposta di Wilson di preservare metà della terra aveva sollevato vivaci polemiche in quanto considerata non solo utopica ma anche dannosa per lo sviluppo economico delle popolazioni locali. La tutela stretta degli ecosistemi secondo alcuni studiosi potrebbe infatti avere drammatiche ricadute sulla sicurezza alimentare in diverse aree del mondo. In passato alcune azioni di conservazione hanno avuto ricadute negative sui popoli indigeni, per esempio trasferendo le persone e proibendo l'accesso o l'uso tradizionale delle risorse all'interno dei confini delle aree protette. Ma la protezione della biodiversità non deve necessariamente escludere le comunità che abitano il territorio, anzi dovrebbe prevedere un potenziamento del loro coinvolgimento a tutela della natura,  in un’ottica di una conservazione basata sulle comunità, in linea con gli obiettivi dell’agenda per lo sviluppo sostenibile, e soprattutto adottando un approccio che ha già dimostrato di essere molto efficace, per esempio nelle foreste dell’America Latina. Un esempio è il programma Socio Bosque in Ecuador, che eroga incentivi a sostegno dei popoli indigeni per lo sviluppo di progetti locali, in cambio di un impegno da parte delle comunità che aderiscono a preservare la foresta e limitare le attività produttive al minimo. In 8 anni questo ha prodotto una diminuzione dell’80% della deforestazione nelle aree in cui il programma è attivo.

Dal 21 al 26 giugno, a Nairobi, si è tenuto un workshop di avanzamento per la definizione del Post 2020 Biodiversity Framework, che stabilirà gli obiettivi da raggiungere entro il 2030 per la tutela della biodiversità. Come sappiamo, più della metà dei target per la conservazione prefissati nella scorsa decade non sono stati raggiunti. Il piano strategico 2011-2020 della Convention on Biological Diversity (CBD) delle Nazioni Unite prevedeva di tutelare almeno il 17% di superficie terrestre entro il 2020. La prima bozza della strategia futura innalza questa percentuale al 30% ma, come dimostra lo studio pubblicato su Science, potrebbe non essere sufficiente. Wilson sosteneva in Metà della Terra che occorrono obiettivi ambiziosi da raggiungere, non timidi progressi raggiunti pian piano concentrandosi sulle emergenze più eclatanti senza guardare il quadro complessivo.

Circa un milione di specie sono a rischio di estinzione, molte in un futuro non troppo lontano. Sappiamo che le politiche globali attuali non promettono realisticamente alcun significativo miglioramento entro il 2030. La ricchezza e la diversità delle forme viventi è fondamentale per il funzionamento degli ecosistemi, e anche volendo essere cinici e noncuranti del destino di altre specie che abitano questo pianeta, la nostra stessa esistenza dipende dai servizi ecosistemici che ambienti biodiversi possono fornire. La biodiversità fa funzionare gli ecosistemi in cui la nostra stessa specie si è evoluta, e ha quindi un valore immateriale oltre a quello funzionale sul nostro benessere, cultura e identità.

Malgrado il riconoscimento della sua importanza, anche economica, la crisi della biodiversità continua a essere tra le cenerentole nelle priorità delle agende politiche. È necessario un approccio inclusivo, equo e basato su evidenze scientifiche per guidare uno sviluppo compatibile con la difesa della biodiversità. Puntare a tutelare il 44% della superficie della terra è forse ambizioso, ma è anche un necessario investimento per il futuro. Non significa necessariamente tenere sotto un’ampolla di vetro gli ecosistemi integri e le specie che li popolano, ma frenare una antropizzazione massiccia e ripensare i modelli di consumo per una coesistenza sostenibile tra attività umane e ambiente. L’impegno deve però essere globale, perché, come abbiamo visto, la distribuzione delle aree da salvaguardare non è egualmente ripartita, ma l’impegno per la sua tutela dovrebbe invece esserlo, come lo sono i benefici di un pianeta che protegge la biodiversità. Se i costi della tutela ricadono unicamente sui singoli stati all’interno dei propri confini, è inevitabile che, soprattutto nelle zone più povere del pianeta, si crei un pericoloso bivio tra tutela delle risorse e sviluppo economico. Inoltre, in un mondo globalizzato è inutile pensare a coltivare l’orticello di casa in modo sostenibile per poi acquistare materie prime prodotte a suon di pesanti alterazioni degli habitat in altre parti del mondo. In questo senso è promettente la dichiarazione di intenti contenuta nella strategia europea per la biodiversità 2030 che si muove proprio nella direzione di una maggiore tutela e sostenibilità all’interno dell’Unione e impegno a raddoppiare i flussi finanziari destinati alla biodiversità verso i Paesi in via di sviluppo e a misure per evitare o ridurre al minimo l'immissione sul mercato dell'UE di prodotti associati alla deforestazione o al degrado delle foreste.

Ed è proprio di questi giorni la proposta di legge al Parlamento europeo per il ripristino degli habitat, la Restoration law, nell'ambito dell'European Green Deal, che mira al ripristino degli habitat naturali europei, a cui si associa la proposta di un nuovo regolamento sull'uso dei pesticidi in UE, che punta a una riduzione del 50% entro il 2030. Obiettivo della restoration law è l'intervento per il ripristino degli habitat europei alterati in qualche misura dall'azione umana (ben l'80% degli habitat europei necessitano interventi) e punta ad ottenere risultati per il 20% degli ecosistemi terrestri e marini entro il 2030. L’auspicio è che gli ottimi obiettivi delle strategie europee e mondiali per la biodiversità non restino parole su carta, ma un impegno perché si trasformino in azioni efficaci, perché non possiamo davvero più permetterci di mancare decade dopo decade gli obiettivi e procrastinare a un futuro che diventa sempre più incerto.

 

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