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Il futuro della terza missione: obblighi legislativi e tante opportunità

Cos'è, in concreto, la terza missione delle università? E il public engagement? Come si può raggiungerlo? Questi temi sono stati trattati a Folle di Scienza, l'evento che si tiene annualmente e che raccoglie persone coinvolte nella divulgazione e comunicazione scientifica italiana: ce lo racconta Riccardo Lucentini.

Crediti immagine: Università di Pavia/Flickr. Licenza: CC BY 2.0

Tempo di lettura: 7 mins

Anche quest’anno divulgatrici, divulgatori e personalità della comunicazione della scienza si sono ritrovati a Strambino (TO) per Folle di Scienza, l’evento organizzato dall’associazione Frame - divagazioni scientifiche allo scopo di creare un luogo di confronto e aggregazione per tutti coloro che si dedicano alla divulgazione e alla comunicazione della scienza.

Tra i vari tavoli di discussione, uno tra i più proficui ha riguardato il rapporto dei comunicatori con la terza missione. Oltre a didattica e ricerca, ovvero prima e seconda missione, le università e gli enti di ricerca sono chiamati a occuparsi della valorizzazione economica, sociale e culturale delle proprie attività.

Il solo capire cosa sia esattamente la terza missione è impresa ardua. Per chiarire alcuni concetti basilari, a Strambino è intervenuto direttamente l’ANVUR, l’ente nazionale che si occupa di valutare il sistema universitario e la ricerca. Menico Rizzi, uno dei membri del direttivo ANVUR, ha spiegato che la terza missione accorpa dieci campi d’azione molto diversi tra loro: dalla valorizzazione della proprietà intellettuale, al sostegno delle politiche Open Science; dalla sperimentazione clinica del farmaco, al raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile. In questo enorme calderone si trova anche l’attività di maggiore interesse per chi si occupa di divulgazione e comunicazione della scienza: il public engagement. È proprio questa attività che sta prendendo sempre più piede nell’interazione tra la società e le università, soprattutto perché tanti giovani ricercatori e studenti di dottorato si lanciano con passione ed entusiasmo nel cosiddetto public engagement - un concetto ampio di coinvolgimento del pubblico e degli stakeholder di cui fa parte, ma non si limita, alla divulgazione.

Ma cos’è il public engagement? L’ANVUR lo definisce così: “il public engagement è un concetto multidimensionale, che può interessare tutte le discipline e che definisce tutte le attività di valore educativo, culturale e di sviluppo della società rivolte a un pubblico di non specialisti. Il PE si sostanzia in azioni che coinvolgono l’interazione e l’ascolto, con l’obiettivo di costruire una relazione sociale differente e più solida tra l’istituzione e la collettività. Tali azioni possono generare benefici reciproci, che vanno dall'ampliamento delle conoscenze scientifiche, al miglioramento della loro percezione pubblica, fino alla possibilità di trarne ispirazione per la ricerca e di aprirsi a nuove visioni e generare innovazione” (si veda qui).

Dopo aver compreso cosa sia la terza missione e quale sia il ruolo del public engagement al suo interno, la domanda successiva da porsi è: perché impegnarsi nella terza missione e nell’interazione con la società? Non c’è una risposta univoca: ogni scienziato si occupa di divulgazione e comunicazione sulla base di etica, sensibilità e valori personali, ma vista la crescente importanza del dialogo tra università e popolazione, queste spinte emotive non bastano più a rendere il public engagement un'attività strutturata. Infatti non ci sono solamente gli appassionati di divulgazione, esiste anche un sottobosco di personale universitario poco incline o anche diffidente nei confronti di attività che aprano il mondo della ricerca a pubblici non specialistici. Sono quindi necessari incentivi più convincenti: per smuovere le acque, la Comunità Europea ha deciso di aggiungere anche una motivazione economica. Il Ministero dell’Università e della Ricerca ha risposto alla sollecitazione europea stabilendo che circa il 3% del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) delle università sarà erogato sulla base della qualità della terza missione. Si tratta di un ammontare complessivo di circa 240 milioni di euro: un dipartimento universitario che faccia divulgazione e comunicazione di qualità può accedere a fondi che possono fare la differenza per i propri ricercatori. Ci si aspetta inoltre che la quota possa salire negli anni, in valore assoluto e in percentuale rispetto al totale del FFO.

L’aggiunta delle motivazioni economiche pone però un quesito: come valuterà l’ANVUR la qualità della terza missione? Per ammissione dello stesso Rizzi, non esistono ancora parametri chiari, univoci e quantitativi che permettano di stilare al meglio le classifiche: si parla genericamente di “impatto” con cinque votazioni che vanno da “eccellente ed estremamente rilevante” a “scarso”. L’ANVUR sta comunque lavorando, in collaborazione con gli atenei e le istituzioni di ricerca, per definire i parametri che nei prossimi anni permetteranno una più precisa valutazione della terza missione. È solo questione di tempo e non si torna indietro: la terza missione sarà valutata e permetterà l’accesso a finanziamenti per la ricerca.

Da un “come” a un altro, si arriva ora a due domande incredibilmente spinose: come fare comunicazione e divulgazione di qualità? E, soprattutto, chi può farla? Può sembrare banale, ma per entrambe la risposta è “dipende”: i mezzi che permettono di fare public engagement di qualità sono molti. Laboratori, conferenze, presenza sul territorio e anche sui social network sono solo alcune delle attività che uno scienziato può organizzare.

Come evidenziato anche dall'intervento di Stefano Bertacchi, biotecnologo dell’Università di Milano-Bicocca e abilissimo divulgatore, ogni scienziato ha peculiarità e limiti di cui deve essere consapevole: se non ritiene la divulgazione la sua comfort zone, dovrebbe fermarsi e affidarsi a chi ha competenze e conoscenze in comunicazione della scienza. Possiamo confermarlo anche guardando alla massiccia presenza agli eventi di Strambino: ci sono molti professionisti della comunicazione della scienza, sia freelance che appartenenti ad associazioni. Questi sono pronti a farsi carico di un ruolo ormai necessario: guidare e affiancare gli scienziati per un migliore dialogo con i pubblici.

Le tipologie di collaborazione tra comunicatori e personale accademico sono molteplici: chi comunica la scienza può fare le veci di scienziate e scienziati che si sentano poco inclini a divulgare. Avendo un ruolo di interazione diretto con i pubblici, questo scenario è interessante per chi divulga in prima persona e ha costruito un brand personale riconoscibile, ma è anche vero che una parte di comunità scientifica potrebbe sentirsi in competizione con figure professionali di questo tipo: molti scienziati hanno il desiderio di comunicare direttamente alla comunità, mostrandosi al di fuori del mondo accademico. Da qui nascono altre tipologie di collaborazione, con i comunicatori che possono affiancare o lasciare il palco a scienziate e scienziati: questo vuol dire, per l’esperto di comunicazione, fare un passo indietro e svolgere un ruolo di mediatore, intervistatore o semplicemente di coach da dietro le quinte. Fondamentale, in questo caso, è anche la formazione continua: non basta più la buona volontà per comunicare efficacemente, servono conoscenze e competenze specifiche che si possono acquisire solo tramite corsi di formazione e collaborazione costante. Chi lavora nella comunicazione della scienza ha tutti gli strumenti per organizzare e tenere corsi di formazione efficaci: come è vero che molti comunicatori tengono particolarmente al brand personale, altri preferiscono il ruolo di coach e formatori e risponderebbero adeguatamente alle esigenze di scienziati e scienziate che vogliano comunicare in prima persona.

In ogni caso, lo scenario di collaborazione risulterebbe vincente per tutti: da un lato la comunità scientifica avrebbe strumenti nuovi e più efficaci per comunicare, dall’altro il comunicatore avrebbe un lavoro più stabile e affine alle proprie competenze con un riconoscimento istituzionale della sua professionalità.

Un’ultima domanda rimane ancora scoperta: come unire effettivamente le forze? Come contrattualizzare queste collaborazioni tra università e professionisti freelance o appartenenti ad associazioni e cooperative? La strategia più utile forse è l’affidamento diretto: una procedura da sempre esistente nella legislazione italiana e recentemente snellita dal “decreto semplificazioni” che permette di bypassare la tortuosa strada dei bandi pubblici e di affidare compiti precisi a professionisti esterni. I vantaggi di questa soluzione sono la rapidità nell’assegnazione del lavoro e la diretta contrattazione tra gli interessati. Il lavoro così assegnato rimane comunque saltuario e non è garantita la collaborazione sul lungo periodo.

Se un dipartimento volesse seguire la strada dei bandi pubblici, è fondamentale che questi siano redatti al meglio: esistono da ormai vent’anni titoli di studio specifici per chi vuole comunicare la scienza. Master di I livello in comunicazione della scienza sono sparsi per tutto il territorio italiano mentre l’Università di Modena e Reggio Emilia ha recentemente avviato la laurea magistrale in didattica e comunicazione delle scienze. Questi titoli devono essere riconosciuti nei bandi se un dipartimento vuole avvalersi di precise competenze. Rimane comunque il problema che una grande fetta di comunicatori della scienza non possiede titoli specifici, quindi la redazione di un bando che non escluda persino i migliori professionisti risulta molto complessa se non impossibile. Lo scenario che invece potrebbe portare a collaborazioni di medio-lungo periodo è l’assunzione, negli uffici dipartimentali, di personale amministrativo che si occupi a tempo pieno di public engagement. Alcuni dipartimenti universitari hanno già intrapreso questa strada, l’auspicio è che diventi una prassi diffusa.

Il messaggio che proviene dalla Comunità Europea e dal ministero è chiarissimo: “comunicate e fatelo bene”. Comunicatori della scienza, università e centri di ricerca possono e devono fare squadra per ottenere i migliori risultati possibili. Le strategie per collaborare sono tutte a disposizione: dobbiamo impegnarci a usarle al meglio.

L’autore ringrazia Giulia Lucia, studentessa di dottorato dell’Università Politecnica delle Marche e Marco Drago, ricercatore dell’Università La Sapienza e dell’INFN per il supporto nella stesura di questo articolo.

 


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