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Tutti i costi della salute

In Salute a tutti i costi. La sostenibilità della ricerca farmaceutica tra ambiente, economia e società (Codice edizioni 2022) Nicole Ticchi racconta tutti i costi della salute, aprendoci gli occhi sugli impatti ambientali e sociali della filiera della sanità, dalla ricerca alla distribuzione, dall'industria allo smaltimento dei rifiuti.

Immagine: Pixabay

Tempo di lettura: 8 mins

La salute è soprattutto «un progetto di prevenzione», dice Nicole Ticchi, chimica farmaceutica e comunicatrice scientifica, nelle prime pagine del suo Salute a tutti i costi. La sostenibilità della ricerca farmaceutica tra ambiente, economia e società (Codice edizioni 2022, 240 pagine, 16€). Un bel libro scritto in prima persona e pieno di dati, né troppi né troppo pochi, ma necessari per comprendere meglio e toccare con mano quali sono tutti i costi della salute, non solo economici. Già in copertina infatti vengono esplicitati i tre pilastri della sostenibilità, non solo farmaceutica: ambiente, economia e società.

salute

Assicurare la salute a tutti è un’impresa che si potrebbe paragonare «alla complessità di organizzare lo sbarco dell’uomo sulla Luna, e il suo ritorno sulla Terra. Entrambi […] sono accomunati da un fattore importante: la sicurezza». E sono tutte e due vere e proprie missioni, che coinvolgono un gran numero di settori della società.

Sicuramente, tra i costi che il contribuente medio percepisce più facilmente, ci sono quelli economici. Ticchi ci ricorda infatti che «un recente studio del 2020 ha stimato che l’investimento medio in ricerca e sviluppo necessario per portare sul mercato un nuovo farmaco è pari a 985 milioni di euro». Tanti sono i soldi in gioco quando si parla di salute, tanti quante le disuguaglianze sociali presenti nel mondo che impediscono ai paesi poveri di godere degli stessi diritti sanitari di quelli ricchi.

Dei 50-60 miliardi di dollari spesi ogni anno nel mondo per la ricerca sanitaria [a inizio millennio], sia dal settore pubblico che da quello privato, solo il 10% veniva dedicato ai problemi di salute del 90% della popolazione mondiale.

«Può curarsi solo chi se lo può permettere». In Italia fino a un certo punto, ma in altre parti del mondo, soprattutto fuori dall’Europa, è sostanzialmente così. L’ingiustizia non è il solo “costo” delle disuguaglianze, sono molte le ricadute dirette e indirette che inevitabilmente si ripercuotono nel resto del mondo.

Ma non è solo un problema geografico. Si pensi ai ricchi Stati Uniti, uno dei paesi che investe maggiormente in ricerca scientifica ma che non restituisce alla società i massicci investimenti statali e invece richiede – più o meno a tutti – di possedere onerose assicurazioni sanitarie. Il punto cruciale su questo è quello che emerge dall’esempio di Ticchi:

Tisagenlecleucel, una delle prime terapie CAR-T approvate per il trattamento del cancro, è stata sviluppata in collaborazione tra Novartis e la University of Pennsylvania, e ha ricevuto per la ricerca più di 200 milioni di dollari dai contribuenti. Come si decide quindi a quale valore è corretto fermare l’asticella del guadagno, quando chi dovrà beneficiarne ha già fatto la sua parte?

E qui si innesta un altro dei temi da sempre sotto la lente dei ricercatori, ma meno sotto quella dei politici: il finanziamento pubblico alla ricerca. Cioè quanto uno Stato decide di investire, al di là di quanto facciano i privati, sulla formazione di nuove conoscenze, ancor prima della produzione di nuovi farmaci e nuove cure. Nicole Ticchi sottolinea il noto male: «sono gli investimenti in ricerca di base destinati agli enti pubblici a rappresentare invece l’anello debole, rimanendo una quota ben più bassa rispetto a quella impiegata nel settore privato per i progetti più applicativi». E la ricerca di base è importante, non solo perché la scienza è – innanzitutto – soddisfazione della curiosità umana, ma anche perché senza i risultati faticosi e apparentemente astratti della ricerca di base, non esisterebbe quella applicata e le sue applicazioni tecnologiche. «È la parte sommersa dell’iceberg».

Tra gli step della lunga filiera della ricerca biomedica – ma non solo – non manca il riferimento alla sperimentazione animale. Nicole Ticchi ci mette in guardia dagli ideologismi e ci ricorda che la sperimentazione animale è ancora una tappa necessaria nel processo di sviluppo di nuove cure, perché fondamentale è osservare l’effetto di nuove molecole in una struttura vivente complessa, dopo, ovviamente, aver superato altri test di sicurezza, tossicità e quant’altro. Eppure, grazie alla tecnologia informatica,

oggi molti parametri relativi alla farmacocinetica possono essere ricavati mediante tecniche computerizzate. Questo consente di ridurre il più possibile i test su specie animali, a cui si ricorre solo quando è necessario osservare un sistema più complesso del singolo tessuto e sono stati quindi creati modelli animali e umani virtuali, che permettono anche di velocizzare i test e la fase della cosiddetta discovery (scoperta). Si tratta di piattaforme e algoritmi costruiti grazie a equazioni che descrivono le vie metaboliche, adattabili alle caratteristiche dell’organismo di interesse.

E ci mette in guardia, facendo bene a ricordarlo, anche dall’altro grande mito legato al mondo della salute: i rimedi naturali sono migliori di quelli sintetizzati in laboratorio. Ticchi ammonisce che non è così, «naturale non è sinonimo di sicuro, e che molte tra le sostanze più velenose, a bassissime dosi, sono proprio naturali». Piuttosto, racconta, esiste un filone di ricerca «che riguarda l’ottimizzazione di sostanze già presenti in natura, estratte o riprodotte tal quali, e che sono state studiate per un determinato effetto farmacologico. Si tratta, nella maggior parte dei casi, di un miglioramento delle loro proprietà farmacocinetiche e soprattutto degli aspetti di sicurezza». Appunto.

Ma il tema che permea tutto il libro è la sostenibilità ambientale, soprattutto per quanto riguarda l’utilizzo di risorse e lo smaltimento della valanga di rifiuti prodotti, oltre che l’impatto in termini di emissioni di gas serra.

Se il settore sanitario globale fosse uno Stato, a giudicare dalla sua impronta climatica sarebbe il quinto più grande emettitore di gas serra del pianeta.

Non poco.

Durante la pandemia abbiamo imparato che alcuni dei vaccini anti Covid devono essere conservati a temperature molto sotto lo zero; a questo proposito, visto che parliamo di gas serra provenienti anche dalla produzione di energia, può essere utile sapere che un freezer che arriva fino a -80°C ha un consumo energetico «di circa 8,5 kWh/giorno» quando «un frigorifero domestico di una buona classe energetica ha un consumo medio di 200 kWh, ma in un anno. Una differenza non proprio sottile».

L’impatto ambientale del sistema sanitario è sotto i riflettori non proprio da molto tempo; questo spiega la carenza di dati sulle varie forme di emissioni, inquinamento e rifiuti provenienti dal mondo della salute. E i dati sono importanti, anche dal punto di vista della comunicazione.

[Un’analisi del 2018] svolta dallo European Solvent Recycler Group, che ha confrontato l’impronta di carbonio dei solventi riciclati e di quelli vergini, con l’intento di sensibilizzare e incentivare l’adozione di questa pratica a livello non solo di ricerca, ma anche e soprattutto industriale, [ha fatto emergere] che mentre l’impronta di carbonio totale dei solventi riciclati in un anno è pari a 109 chilotonnellate (kiloton, kt) di CO2eq/anno, quella derivante dalla produzione della stessa quantità di solventi vergini è pari a 727 kt di CO2eq/anno. Riciclando quindi 309 kt di solventi si risparmiano circa 618 kt di CO2eq/anno: un risparmio delle emissioni di gas serra che equivale a togliere dalla strada 280.000 auto diesel.

Leggendo il libro colpisce la quantità di possibili impatti ambientali derivati dalla gestione dei rifiuti, soprattutto quelli provenienti dagli ospedali e dall’industria. Impatti che paradossalmente minano alla base la missione stessa di assicurare la salute a tutti. Anche solo il nostro ingerire medicinali (da qui l’invito a non abusarne) non è così trascurabile. Sì, perché «un principio attivo assunto per via orale viene rilasciato nell’ambiente con una percentuale variabile tra il 30% e il 90% attraverso le escrezioni, e che i metaboliti di molti farmaci possono rimanere attivi nell’ambiente anche dopo essere stati espulsi». È normale che questo avvenga, perché significa che il nostro metabolismo funziona bene e “scarta” quello che non serve, spiega Ticchi. Ma rifiuti – non solo quelli escreti dal nostro corpo – ad alte concentrazioni diventano un problema:

le acque effluenti dagli ospedali sono caratterizzate da una tossicità intrinseca dalle cinque alle quindici volte più elevata rispetto alle acque di scarico urbane. Una diretta conseguenza di questo la stiamo vivendo tutti nel mondo, sulla nostra stessa pelle: si chiama resistenza antimicrobica, favorita proprio dalla dispersione nel terreno e nelle falde acquifere di antibiotici che favoriscono l’evoluzione di ceppi microbici resistenti.

E che dire della plastica. Nel 2014, si legge, «i rifiuti di plastica totali provenienti da circa 20.000 istituti di ricerca sparsi nel mondo ammontavano a circa 5,5 milioni di tonnellate». Per non parlare delle iniezioni. Ogni anno sono circa 16 miliardi e «non tutti gli aghi e le siringhe vengono smaltiti in modo sicuro, il rischio di lesioni, infezioni o anche di riutilizzo di quei dispositivi è dietro l’angolo: nel 2010, le iniezioni ritenute pericolose erano ancora responsabili di più di 30.000 nuove infezioni da HIV, di 1,7 milioni di infezioni da epatite B e di 315.000 infezioni da epatite C». Se non è paradossale questo!

Lo smaltimento dei rifiuti pericolosi si collega inevitabilmente all’uso dei termovalorizzatori, su cui anche in questo caso si dibatte spesso troppo grossolanamente. La medaglia ha due facce. Da un lato non si può prescindere dal bruciare gran parte dei rifiuti sanitari, soprattutto se a rischio infettivo. Dall’altro, si deve stare attenti ai prodotti di combustione secondari:

I materiali inceneriti trattati con o contenenti cloro possono generare diossine e furani, che sono cancerogeni per l’uomo e sono stati associati a una serie di effetti negativi sulla salute. L’incenerimento di metalli pesanti o di materiali ad alto contenuto di metalli, inoltre, può portare alla diffusione di residui tossici nell’ambiente. Gli unici impianti in grado di rispettare gli standard internazionali di emissione per diossine e furani sono quelli moderni, che funzionano a 850-1.100 °C e sono dotati di speciali apparecchiature per la depurazione dei gas.

E, giusto per complicare il quadro, Ticchi sottolinea che, a oggi, «l’88% dei prodotti farmaceutici umani non ha un set di dati completo per la tossicità ambientale», proprio perché gli effetti negativi non sono ancora stati abbastanza studiati.

Salute a tutti i costi, così, può sembrare un elenco di sciagure che mostrano come non è possibile voler essere in salute senza che qualcun altro si ammali per noi. Ma sarebbe un errore pensarlo. Tra gli innumerevoli esempi e storie che Nicole Ticchi racconta, ci sono molte buone pratiche, successi, soluzioni doppiamente vincenti e molta speranza nel futuro. “Insomma, si faccia qualcosa!” è il titolo dell’ultimo capitolo. Ecco, il libro indica che quel qualcosa si può fare e la strada che la ricerca sta disegnando è quella da seguire: il lavoro di squadra e il dialogo multidisciplinare. La bussola è quello che diceva Roosevelt qualche anno prima della nascita dell’Organizzazione mondiale della sanità: «Il diritto a cure mediche adeguate e l’opportunità di raggiungere e godere di buona salute dovrebbero essere disponibili per tutti».

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