fbpx L'ascolto è importante per diventare musicisti | Scienza in rete

Vuoi imparare a suonare? Ascolta!

Uno studio pubblicato su Scientific Reports evidenzia come l'ascolto sia importante per lo studio musicale oltre alla già nota pratica motoria. Ne abbiamo parlato con Alice Mado Proverbio, tra le autrici, neuroscienziata dell'Università Milano-Bicocca.

Immagine: Pixabay

Tempo di lettura: 6 mins

Nello studio della musica, ascoltare il suono prodotto mentre si studia svolge un ruolo determinante, oltre a concentrarsi sulla pratica motoria come già si sapeva. Questo è il risultato dello studio condotto da Maria Giovanna Luciani, Alessandra Cortelazzo e Alice Mado Proverbio e pubblicato su Scientific Reports lo scorso 17 novembre.

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«La rilevanza della pratica intensiva e dell’esercizio motorio ripetuto e costante sono già nozioni altamente condivise, in quanto il sapere suonare è comunque un’abilità procedurale (motoria)», ci spiega Alice Mado Proverbio (neuroscienziata del laboratorio di elettrofisiologia cognitiva al Dipartimento di Psicologia dell’Università Milano-Bicocca), che abbiamo contattato. Quello che emerge è il ruolo ancora poco considerato (il che sembra paradossale, facendo musica) dell’ascolto durante lo studio. «Il feedback acustico si è rivelato particolarmente importante per l'apprendimento musicale degli studenti inesperti, […] indicando quanto i suoni siano strettamente associati ai gesti motori».

Nel grafico qua sopra sono riportati i principali risultati. Gli errori diminuiscono se si passa dalla lettura a prima vista (senza aver studiato il brano in precedenza) a uno studio basato solo sull’ascolto in cuffia, e ancora se lo studio avviene su uno strumento muto (quindi uno studio solo motorio) per poi diminuire ancora con uno studio completo. «L'estrema coerenza dei dati raccolti su 115 musicisti di varia età e preparazione, che non si conoscevano, e residenti in regioni italiane lontanissime (principalmente Veneto e Sardegna), sono risultati altamente significativi alle analisi statistiche», dice Proverbio.

Uno degli aspetti interessanti dei risultati è il conteggio degli errori e come variano le loro tipologie al variare delle condizioni di studio. Sono stati individuati quattro gruppi possibili di errori:

  1. note sbagliate o stonate
  2. figure ritmiche sbagliate
  3. errori di “dinamica” (piano, forte, sforzando, …), di “agogica” (cioè di scansione temporale) e di “articolazione” (staccato, legato, pizzicato, puntato, cadenza, rallentando, ritornello, …)
  4. mancanza di scorrevolezza, fluidità e regolarità dell'esecuzione (inciampi, interruzioni, ripetizioni)

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Qui sopra sono riportati due grafici speculari, che mostrano entrambi come varia il numero di errori al variare della tipologia di errore e delle condizioni di studio. È lampante, ovviamente, come l’esecuzione a prima vista (cioè di fatto senza studio) produca più errori delle altre. Un drastico calo di errori di smoothness (scorrevolezza, fluidità, …) si evince se gli studenti studiavano al completo (e questo è ovvio) ma anche solo esercitandosi nei movimenti senza ascoltare il suono prodotto. Gli errori ritmici invece sono stati ridotti indipendentemente dalla condizione di studio. C’è un po’ di variabilità per la “dinamica”, dove chi performa meglio sono coloro che hanno studiato al completo (ovvio), ma anche solo ascoltando. Gli errori sulle note sono invece ancora più distribuiti: oltre allo studio completo (che, come al solito, performa meglio), l’ascolto migliora anch’esso la riduzione degli errori rispetto alla sola prima vista, e l’attività motoria aiuta ancora un po’ di più.

Chiediamo ad Alice Mado Proverbio: come sono stati contati gli errori? «Il numero di errori associati a una determinata esecuzione da parte di un singolo studente era rappresentato dalla media degli errori riportati dagli insegnanti. Quando una data nota/gesto musicale conteneva contemporaneamente due o addirittura tre tipi di errore (esempio intonazione, ritmo e dinamica), il valutatore appuntava tutti e tre i tipi di errore sulla griglia di valutazione».

Come sono stati scelti i musicisti partecipanti

I partecipanti erano 59 studenti di pianoforte e 56 di chitarra (63 maschi e 52 femmine) tra gli 11 e 32 anni, per la maggior parte provenienti da Conservatori. Per studiare gli effetti di queste quattro tipologie di pratica sono stati anzitutto suddivisi in tre livelli (principianti, intermedi ed esperti), confermati da una sessione preliminare di esecuzione di un brano specifico per ogni livello. Successivamente ognuno ha studiato un brano per ogni condizione sperimentale per 12 minuti al giorno per cinque giorni, per poi registrare in video il brano e consegnarlo alla commissione che ha contato gli errori senza conoscere la condizione di studio. «I video sono stati salvati con un codice alfanumerico e solo dopo l'intero processo di valutazione sono stati collegati alla specifica condizione sperimentale», spiega Proverbio. Quando veniva effettuato lo studio solo in cuffia (senza quindi fisicamente muovere le dita), è stato chiesto di non leggere lo spartito. Tutto ciò è stato ripetuto per ogni studente per ogni condizione di studio con un brano diverso selezionato in modo randomizzato (sempre rispettando il livello di preparazione) tra brani scelti in precedenza. Chiaro che la situazione sperimentale ideale sarebbe quella in cui ogni partecipante si dimentica quanto fatto ed effettua lo studio nei quattro modi diversi sempre con lo stesso brano.

È evidente che, come scrivono le autrici, una limitazione dello studio proviene dal fatto che non vi sia un «controllo oggettivo della pratica degli studenti durante le settimane», probabilmente in parte compensata dal fatto che, come afferma Proverbio: «Gli insegnanti e i genitori erano a stretto contatto con gli sperimentatori. Gli studenti sono stati seguiti e reclutati personalmente dai loro insegnanti nelle accademie. Pertanto, non si trovavano in un contesto anonimo e non controllato. Inoltre, sapevano che le loro prestazioni sarebbero state valutate da due insegnanti estranei. Erano consapevoli e orgogliosi che il loro Conservatorio e i loro insegnanti stessero partecipando ad un progetto scientifico con un'università». E continua, «poiché la loro partecipazione comprendeva cinque incontri e sessioni di registrazione, un mese di studio, l'attenzione dei loro insegnanti e di altre figure autorevoli, ed era completamente gratuita (non ricompensata!) non abbiamo motivo di credere che i giovani musicisti partecipanti allo studio non fossero motivati dall'intenzione di essere il più possibile collaborativi e coscienziosi».

È anche ragionevole pensare che i risultati sarebbero potuti essere diversi coinvolgendo altri tipi di strumenti, caratterizzati da tecniche di suono diverse. Infatti, per esempio, i pianisti hanno in media fatto più errori dei chitarristi, in questo studio.

Muoviti... e ascolta

Questa evidenza sperimentale potrebbe, e forse dovrebbe, essere condivisa con gli insegnanti di musica, visto che l’ascolto «è talvolta ingiustamente trascurato nell'insegnamento, che si concentra maggiormente sullo sviluppo dell'agilità e della destrezza motoria (per esempio, eseguire velocemente trilli o scale, od altri tecnicismi)». Quello che risulta interessante, infatti, è che sono proprio gli studenti principianti, con 3 o 4 anni di studio, a risentire di più dell’assenza della pratica uditiva, rispetto ai più esperti, che «imparano ad anticipare le conseguenze uditive dei movimenti delle dita sullo strumento durante l'esecuzione». Ecco perché, continua Proverbio, «analogamente a quanto da noi rilevato in precedenza su violinisti e pianisti del Conservatorio di Milano, tre anni di studi musicali accademici sembrano essere largamente insufficienti per lo sviluppo di un sistema audio-motorio feed-forward in grado di prevedere il risultato uditivo sulla base dei segnali propriocettivi (cioè le sensazioni che ci provengono dai muscoli e dai tendini)».

Insomma, lo studio della musica non dovrebbe prescindere dall’importanza dell’ascolto, soprattutto all’inizio. Proverbio vuole concludere così: «studi sulla trascrizione genica mostrano che i geni che codificano la musicalità (per esempio l’alfa-sinucleina o il gene GATA2) si esprimono soprattutto durante l’ascolto della musica nei musicisti; quindi musicisti non si nasce, ma lo si diventa attraverso lo studio intensivo e l’ascolto».

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