fbpx La ricerca scientifica è sempre meno rivoluzionaria | Scienza in rete

Scienza e brevetti sempre meno innovativi, ma di chi è la colpa?

La ricerca scientifica è sempre meno dirompente, sempre meno rivoluzionaria, nonostante un numero enorme di paper e di brevetti. Uno studio uscito su Nature mostra come un indicatore costruito sulle citazioni delle citazioni misuri questa tendenza e si interroga sulle motivazioni, ancora non completamente chiarite.

Immagine: Pixabay

Tempo di lettura: 7 mins

Il 4 gennaio, Michael Park e Russell J. Funk, della Carlson School of Management, University of Minnesota, ed Erin Leahey, della School of Sociology, University of Arizona, hanno pubblicato lo studio Papers and patents are becoming less disruptive over time su Nature, che ha già provocato un certo scalpore nel mondo scientifico, riportando in auge un tema più o meno già emerso in passato: la ricerca scientifica e gli sviluppi tecnologici sono sempre meno originali e dirompenti.

E sì che viviamo in un mondo dove il numero di studi scientifici è di circa un milione all’anno, come ricordano gli autori, e il numero di ricercatori cresce sempre di più: quasi 9 milioni per l’UNESCO Science Report 2021 (con una crescita di quasi 14% dal 2014 al 2018). La scienza produce sempre di più, ma il grado di innovatività sembra essere sempre più basso.

Un lavoro che non sarebbe stato possibile alcuni anni fa, per la potenza di calcolo richiesta nell’elaborazione dei circa 45 milioni di studi scientifici e quasi 4 milioni di brevetti, pubblicati dal 1945 in poi. I ricercatori hanno calcolato il valore dell’indicatore CD (consolidation-disruption) per ciascuno di questi e osservato l’andamento nel tempo. Il valore dell'indice CD misura quanto ciascuna ricerca consolidi conoscenze già acquisite o ne crei di nuove, variando da -1 (massimo di consolidamento) a +1 (massimo di innovatività). Scrivono gli autori che l’indice «è stato ampiamente convalidato in ricerche precedenti, anche attraverso la correlazione con le valutazioni degli esperti». Ecco come si calcola:

L’indice è essenzialmente un conteggio di quante citazioni vengono fatte negli studi dei cinque anni successivi a quello considerato, e in particolare di quante citano ricerche più vecchie di questo oppure no. «L'intuizione è che se uno studio o un brevetto è dirompente, i lavori successivi che lo citano hanno meno probabilità di citare anche i suoi predecessori; per i futuri ricercatori, le idee che hanno portato alla sua produzione sono meno rilevanti». Le ricerche che consolidano quanto già noto, invece, verranno citate da lavori che citeranno anche paper più vecchi.
Questo metodo, chiaramente, non equivale a conteggiare le sole citazioni post pubblicazione. L’esempio che riportano gli autori è il seguente. Watson-Crick e Kohn-Sham hanno entrambi ricevuto più di cento citazioni entro cinque anni dalla pubblicazione. L'articolo di Kohn e Sham sulla struttura degli elettroni ha però un CD di 0,22, mentre quello di Watson e Crick sul DNA ha un CD di 0,62.

Utiizzando questo indicatore, sono stati analizzati 25 milioni di studi dal 1945 al 2010 dal Web of Science e altri 20 milioni da JSTOR, the American Physical Society corpus, Microsoft Academic Graph e PubMed; e 3,9 milioni di brevetti dal 1976 al 2010 dal database del United States Patent and Trademark Office’s (USPTO).

Come riportato nel grafico, nei paper la diminuzione dell’indice CD va dal 91,9% per le scienze sociali al 100% per le scienze fisiche, nel periodo 1945-2010. Un calo, dal 1980, meno repentino per le scienze della vita, nella ricerca fisica e biomedica, più brusco invece nelle scienze sociali e tecnologiche. Per i brevetti (patents), si registra un quasi 79% per computer/comunicazioni e un massimo di 91,5% per il settore dei farmaci e della medicina, nel periodo 1980-2010. Per altro, segnalano gli autori, anche il divario tra l'anno della scoperta e l'assegnazione del premio Nobel è aumentato, suggerendo, forse, che la scienza di oggi non è all'altezza di quella del passato.

Un altro risultato interessante è il cambiamento nel lessico usato dagli scienziati. La scienza dirompente, dicono gli autori, tende a creare parole nuove per descrivere concetti non presenti fino alla loro introduzione o scoperta. Park e colleghi hanno infatti calcolato che la scienza ha usato parole sempre meno afferenti alla sfera della “scoperta” o della “creazione”, ma sempre più vicine alla “conferma” o al “miglioramento”. Per i paper, si registra una diminuzione di parole dirompenti che va dal 76,5% per le scienze sociali all'88% per la tecnologia. Per i brevetti, il settore chimico registra un calo del 32,5%, quello dei computer e delle comunicazioni dell’81%. Lo stesso discorso vale per la presenza di «combinazioni atipiche di parole», che appare prevalentemente in studi rivoluzionari e meno negli altri.

Di seguito il grafico delle parole usate maggiormente all’inizio e alla fine dei periodi di tempo analizzati (a sinistra i paper, a destra i brevetti).

Perché accade tutto questo? Gli autori non trovano una risposta sicura. Il fenomeno non sembra legato al proliferare di riviste di minore qualità scientifica. Hanno infatti calcolato, tra gli altri controlli svolti, come diminuisce il numero di articoli rivoluzionari nelle sole riviste prestigiose: Nature, Science e PNAS. Non è quindi una questione di qualità delle riviste, visto che la tendenza resta la stessa anche considerando solo queste tre, come si può vedere dal grafico riportato qua sotto.

Non si può nemmeno affermare che si tratti di un generalizzato declino della qualità della scienza, che continua a produrre un numero pressoché invariato di studi rivoluzionari, a fronte però di una massa sempre maggiore di studi. Quasi ci fosse un limite difficilmente superabile di scoperte rivoluzionarie. Qualcuno ha detto che la conoscenza è come una sfera che cresce nell’ignoto. Più il raggio della sfera aumenta, più la conoscenza aumenta. Aumenta anche il confine tra il noto e l’ignoto, cioè la superficie sferica, ma più lentamente di quanto non cresca il volume della sfera, come può confermare qualsiasi studente di liceo.

Sicuramente - notano sempre gli autori dello studio di Nature - è mutato l’interesse dei finanziatori pubblici e privati, che tende e concentrare le risorse su temi di grande rilevanza globale, ma già relativamente maturi dal punto di vista scientifico, come le conoscenze sui cambiamenti climatici o sui vaccini. Un’altra motivazione può essere, suggeriscono, il fatto che la ricerca ha un carattere sempre più specialistico e “ristretto” rispetto al passato, e quindi meno multidisciplinare e originale.

È vero che più le conoscenze progrediscono, meno saranno i “frutti a portata di mano”, e quindi maggiore sarà lo sforzo per coglierli. Eppure gli stessi autori dello studio osservano come il progresso nelle conoscenze sembri avere un impatto positivo sul carattere dirompente dei paper scientifici, ma non sui brevetti.

Come ha commentato James A. Evans, sociologo dell'Università di Chicago, sul New York Times: «Scommettiamo con fiducia su dove investire il nostro denaro. Ma non scommettiamo su cose fondamentalmente nuove che hanno il potenziale di essere dirompenti. Questo articolo suggerisce che abbiamo bisogno di un po' meno ordine nel mondo della ricerca, e un po' più di caos».

Interessante anche il commento di Derek Lowe sul suo blog su Science. Da un lato, dice, ci sono le difficoltà della vita del ricercatore che «sottopone nuovi progetti, scrive documenti, cerca promozioni, naviga tra le politiche dei dipartimenti, il che non facilita un lavoro innovativo quanto si potrebbe idealmente desiderare». Dall’altro lato, i grafici dello studio «partono fondamentalmente dalla Seconda Guerra Mondiale, che è un punto come un altro per contrassegnare l'era scientifica moderna, ma che è molto vicino a essere una sorta di singolarità irripetibile. [...] La tecnologia è progredita durante la guerra in un modo mai visto prima durante un conflitto, con invenzioni e applicazioni che si sono susseguite a ritmo incalzante. […] Per citarne solo alcune, basti pensare al radar, alla codifica e alla decodifica, alla progettazione di motori a pistoni e poi a reazione, ai droni, ai razzi balistici e, naturalmente, alla bomba atomica». Formidabili, e terribili, quegli anni. Meno quelli che sono seguiti.

In ogni caso, lo sviluppo della scienza è sempre andato di pari passo con quello economico, con il benessere e con la crescita culturale dei paesi. Per continuare a trarne buoni frutti, anche se nascosti in alto sugli alberi, serve prendersene cura. Ed ecco il suggerimento finale degli autori:

Per promuovere una scienza e una tecnologia dirompenti, gli studiosi possono essere incoraggiati a leggere molto e ad avere il tempo di tenersi al passo con la frontiera della conoscenza in rapida espansione. Le università potrebbero rinunciare a concentrarsi sulla quantità e premiare maggiormente la qualità della ricerca, e forse sovvenzionare maggiormente gli anni sabbatici. Le agenzie federali potrebbero investire in premi individuali più rischiosi e a lungo termine che sostengano le carriere e non solo progetti specifici, dando agli studiosi il tempo necessario per uscire dalla mischia, vaccinarsi dalla cultura del publish or perish e produrre un lavoro veramente significativo.


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Is 1.5 degrees still a realistic goal?

Photo: Simon Stiell, Executive Secretary di UNFCCC (Source: UNclimatechange, CC BY-NC-SA 2.0 DEED)

Keep 1.5 within reach, "keep the 1.5 degrees within reach." This was the slogan with which COP28 opened, the United Nations conference on climate change that just concluded in Dubai. The feasibility of this goal, however, now seems more uncertain than ever, even though many considered this aim too ambitious from the outset.