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Corte costituzionale: sì all'obbligo vaccinale sotto pandemia per alcune categorie

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Con due sentenze depositate il 9 febbraio 2023 (n. 14/2023 e n. 15/2023) la Corte costituzionale ha ritenuto non irragionevoli, né sproporzionate, le principali scelte adottate in periodo pandemico dal legislatore in merito ai vaccini. In particolare, sono state dichiarate non fondate le questioni di costituzionalità che erano state proposte quanto ai seguenti aspetti: i) obbligo vaccinale (temporaneo) del personale sanitario; ii) esclusione, in caso di inadempimento dell’obbligo vaccinale e per il tempo della sospensione, della corresponsione di un assegno a carico del datore di lavoro per chi sia stato sospeso, e ciò, sia per il personale sanitario che per il personale scolastico; iii) mancata esclusione della necessità di prestare il consenso informato alla vaccinazione.

Le ricche motivazioni delle due sentenze si segnalano per una serie di ragioni, in buona parte relative al bilanciamento fra i diversi valori costituzionali. In particolare, le sentenze si sono incentrate sull’equilibrio da raggiungere fra la libertà di cura e la dimensione collettiva della salute, entrambe menzionate e garantite dall’art. 32 della Costituzione.

Legittimità dell’obbligo in certe condizioni

La Corte ha ribadito le condizioni in presenza delle quali misure come l’obbligo vaccinale o una forte incentivazione alla vaccinazione sono legittime. Devono in particolare sussistere i seguenti requisiti: a) il trattamento deve essere diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare quello degli altri; b) il trattamento non deve incidere negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili;  c)  nell'ipotesi di danno comunque derivante dal vaccino, deve comunque essere prevista la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria.

Queste condizioni sono state ritenute – con ampiezza di argomenti – sicuramente esistenti nel caso in esame, sulla base di una serie di motivazioni, le quali in parte approfondiscono e integrano la preesistente giurisprudenza della Corte costituzionale sui vaccini.

Così, ad esempio, quanto alla prima condizione (trattamento vaccinale utile anche alla comunità), la Corte ha ribadito la centralità del principio solidaristico, che rappresenta «la base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente». Ha inoltre sottolineato come, di fronte al «deflagrare di un’emergenza sanitaria dai tratti del tutto peculiari», le misure di obbligo o incentivazione alla vaccinazione abbiano in vario modo realizzato l’interesse della collettività (come richiesto dall’art. 32 della Costituzione), e ciò sia per il contributo offerto alla riduzione dei contagi (particolarmente con le prime varianti del virus), sia per l’efficacia rispetto all’obiettivo di «evitare l’interruzione di servizi essenziali per la comunità» (quali sanità e scuola), sia infine per l’utilità rispetto al complessivo pericolo di «congestione delle strutture ospedaliere e dei reparti intensivi» e per «proteggere quanti entrano in contatto» con gli operatori sanitari.

Sicurezza del vaccino

Quanto alla seconda condizione (sicurezza complessiva del vaccino), la Corte ha sottolineato che l’astratta possibilità, in casi rari, come per tutti i farmaci, di eventi avversi anche gravi, non elimina la sicurezza complessiva del vaccino in questione, considerato che, secondo le evidenze raccolte in modo inoppugnabile dalla comunità scientifica, i benefici del trattamento superano chiaramente i rischi, e ciò sia per il soggetto che riceve il trattamento, sia per la comunità nel suo complesso. A questo riguardo la Corte ha opportunamente insistito sull’esistenza nel nostro ordinamento di una riserva di scienza, vale a dire del dovere di Governo e Parlamento di adottare decisioni sempre fondate sulla verifica dello stato delle conoscenze scientifiche e delle evidenze sperimentali, acquisite attraverso gli organi tecnico-scientifici dello Stato e della comunità internazionale e non attraverso opinioni di singoli esperti, che del resto non si saprebbe come scegliere.

Quanto infine alla terza condizione (previsione di un indennizzo nel caso di danni), la Corte ha sottolineato come, nei casi rari di effettivo e serio danno da vaccino, sia previsto dalla legge un indennizzo, tanto per le vaccinazioni obbligatorie come per quelle solo raccomandate.

L'obbligo non è irragionevole, anche perché temporaneo

La Corte ha ritenuto nel complesso proporzionato e non irragionevole l’obbligo introdotto dal legislatore per alcune categorie, perché temporaneo e soggetto a revisione, tanto che la fine del periodo di obbligo è stata anticipata «appena la situazione epidemiologica lo ha consentito», e perché si è trattato di una mera sospensione del rapporto lavorativo, senza alcuna conseguenza di tipo disciplinare, e non di una sua risoluzione.

In merito poi alla questione del consenso informato, la Corte ha rilevato che l’obbligatorietà del vaccino lascia comunque al singolo la possibilità di scegliere se adempiere o sottrarsi all’obbligo, assumendosi responsabilmente, in questo secondo caso, le conseguenze previste dalla legge, e che qualora «il singolo adempia all’obbligo vaccinale, il consenso, pur a fronte dell’obbligo, è rivolto, proprio nel rispetto dell'intangibilità della persona, ad autorizzare la materiale inoculazione del vaccino».

Perché sospendere dal lavoro chi, non vaccinato, non aveva comunque rapporti con gli assistiti?

Va infine aggiunto, per completezza, che, con sentenza n. 16/2023, depositata, come le altre, il 9 febbraio 2023, è invece stata dichiarata improcedibile per ragioni processuali la questione di costituzionalità riguardante le norme che non avevano limitato la sospensione dall’esercizio della professione sanitaria alle sole prestazioni o mansioni che implicano contatti interpersonali o che comportano, in qualsiasi altra forma, il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2. Il motivo dell’improcedibilità è molto tecnico, riguardando il fatto che il giudice che ha sollevato la questione di fronte alla Corte (TAR della Lombardia) non aveva giurisdizione per occuparsi della questione, in quanto la causa avrebbe dovuto essere radicata presso il giudice ordinario e non presso il giudice amministrativo.

L’improcedibilità della questione di costituzionalità, per la ragione indicata, ha impedito alla Corte di valutare il merito della questione. Probabilmente, se la causa fosse stata avviata davanti al giudice fornito di giurisdizione (Tribunale ordinario), e se conseguentemente la Corte avesse potuto e dovuto occuparsi del merito di essa, sarebbe stato più complesso pervenire a una decisione di rigetto della questione di costituzionalità. Infatti, pur essendo probabilmente difficile separare con nettezza le mansioni che implicano contatti interpersonali dalle altre, appare difficile giustificare la proporzionalità e ragionevolezza delle disposizioni che senz’altro hanno disposto la sospensione dall’esercizio della professione sanitaria anche a chi esercitasse la professione senza alcun contatto interpersonale (pensiamo ad esempio a casi, marginali ma non escludibili, di psicologi che operano soltanto da remoto). Va infatti ricordato che, in materie così delicate, che toccano i diritti di libertà del singolo, i divieti di legge non possono avere soltanto un significato etico o culturale – ad esempio quello di ricordare l’importanza della vaccinazione, in particolare per gli esercenti le professioni sanitarie – ma devono sempre basarsi sulla loro oggettiva idoneità a contenere i contagi o a salvaguardare i servizi essenziali, anche attraverso la riduzione del carico sanitario.

 


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