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Animali: il gioco tra gli adulti è correlato all’evoluzione di società tolleranti e cooperative

Interpretando i dati emersi negli ultimi anni, l’etologa italiana Elisabetta Palagi sostiene che la presenza del gioco tra gli adulti sia correlata a società tolleranti e nelle quali la cooperazione ha un ruolo fondamentale.

Crediti immagine: Eric Kilby/Flickr. Licenza: CC-BY SA 2.0

Tempo di lettura: 8 mins

Ricerca di cibo, costruzione di un riparo, corteggiamento, riproduzione e cura dei piccoli: sono tutti comportamenti ampiamente studiati – e certamente d’importanza sostanziale per la loro (e nostra) vita. Ma ci sono anche altri comportamenti fondamentali attuati dagli animali che, tutto sommato, hanno ricevuto un’attenzione più scarsa. Tra questi, il gioco, per il quale negli ultimi anni sono diventati disponibili dati empirici che ne sottolineano l’importanza. A cosa serve? Quali animali giocano, quando e come? Queste le domande su cui si concentra la ricerca in questo campo.

Una recente review, apparsa su Neuroscience and Biobehavioral Reviews e firmata dall’etologa italiana Elisabetta Palagi, dell’Università di Pisa, raccoglie quanto sappiamo su un tipo di gioco particolare: quello che attuano gli individui adulti di alcune specie. E propone un’ipotesi nuova: a livello evolutivo, il gioco è correlato allo sviluppo di società più tolleranti e cooperative.

Il gioco è una cosa seria

Il gioco è un comportamento costoso, in termini di tempo ed energie, e anche rischioso (nel gioco si rischia pur sempre di farsi male). Il fatto che si sia mantenuto in modo così diffuso tra gli animali ne evidenzia l’importanza, per varie ragioni. Si tratta infatti di un comportamento polifunzionale: permette agli animali, soprattutto i più giovani, di scoprire e misurare l’ambiente in cui vivono e gli individui con cui si confrontano; consente anche di stabilire legami sociali, appianare le tensioni, conoscere un individuo estraneo. Ha, insomma, un importante ruolo nello sviluppo fisico e cognitivo e nell’affiliazione del gruppo, permettendo di rimanere in un contesto relativamente sicuro, non caratterizzato dall’aggressività, neanche quando le “mosse” del gioco sono riprese dal contesto di lotta o caccia (si pensi ai cani quando si rincorrono o si mordono giocando).

Così come diverse sono le funzioni del gioco negli animali, altrettanto varie sono le modalità in cui il gioco si esprime. Si può simulare una lotta (play fighting), si può giocare da soli o in gruppo, o magari con oggetti. Varie sono anche le specie in cui il gioco è stato studiato, da quelle domestiche come i cani o i maiali a quelle selvatiche come elefanti e delfini, fino agli invertebrati come i bombi, e le età nelle quali il comportamento di gioco si presenta. Se infatti il gioco è pervasivo in età giovanile e la sua massima attuazione corrisponde al periodo in cui la formazione delle connessioni nervose è massima (sinaptogenesi), ciò non toglie che il gioco permanga, per molte specie, anche in età adulta.

I dati sul gioco libero e sociale (cioè come comportamento del tutto spontaneo, senza oggetti raccolti in natura o forniti dai ricercatori, fra due o più individui) negli animali adulti sono però rimasti a lungo molto scarsi. «Una possibile ragione è che il comportamento di gioco negli adulti si presenta in modo relativamente infrequente rispetto ad altri, come la ricerca di cibo, e ciò lo rende costoso, in termini di tempo, da studiare. Quello del comportamento ludico è, insomma, un argomento per ricercatori pazienti», spiega Palagi. «Inoltre, si ha un po’ la tendenza a pensare che, se un comportamento si presenta a bassa frequenza, allora sia probabilmente poco importante. Ma è una tesi che trovo criticabile: una femmina di lemure passa 72 ore l’anno in estro, durante le quali si accoppia con vari maschi. Se dunque analizziamo la frequenza del tempo speso in accoppiamenti, il risultato sarà scarsissimo, neanche l’1% di tutte le ore complessive dell’anno, ma questo non significa certo che l’accoppiamento non sia importante. Altrettanto si potrebbe dire di una sessione di gioco, che avviene poche volte ma… sempre quando serve!».

Gioco da grandi

Nel tempo, comunque, hanno iniziato ad accumularsi alcuni dati sul gioco negli individui adulti di diverse specie. Alcuni di questi provengono proprio dal lavoro di Palagi e dei suoi colleghi e colleghe: per esempio, la ricercatrice ha studiato a lungo il gioco nei bonobo, i primati a noi filogeneticamente più vicini insieme agli scimpanzé, osservando come proprio grazie al comportamento ludico (e alle interazioni socio-sessuali), gli individui riuscissero a gestire meglio le relazioni sociali, quando tali interazioni coinvolgevano almeno una femmina. Diversamente dagli scimpanzé, i bonobo sono una specie a dominanza femminile e molto tollerante, poco aggressiva nei confronti degli individui sconosciuti: gli studi hanno mostrato che, in natura, quando gli adulti appartenenti a gruppi diversi si incontrano, il primo approccio avviene proprio attraverso il gioco. Quest’ultimo sembra insomma aiutare a “rompere il ghiaccio”, a fare da lasciapassare per le relazioni sociali. Gli scimpanzé, nella loro società più dispotica e neofobica (ostile a individui sconosciuti), invece, pur giocando tanto quanto i bonobo durante l’infanzia, maturando dismettono molto di più il comportamento ludico.

«Queste osservazioni iniziavano a suggerire una correlazione tra la presenza del comportamento ludico e la tolleranza. In quest’ottica, ho deciso di provare a espandere l’ipotesi ad altri gruppi di primati non umani», spiega Palagi. Un buon modello in tal senso è rappresentato dai macachi, un genere che raccoglie una ventina di specie accomunate dal punto di vista sociale da alcune caratteristiche quali la filopatria femminile (le femmine non lasciano il gruppo in cui nascono) e l’esogamia maschile (i maschi migrano dal gruppo d’origine per riprodursi). «Mi sono sembrati un valido modello per saggiare l’ipotesi che la presenza di gioco negli adulti fosse correlata a una società più tollerante. Abbiamo dunque scelto le due specie che rappresentano gli estremi del gradiente tra dispotismo e tolleranza, il macaco giapponese (Macaca fuscata, più dispotico) e il macaco di Tonkean (Macaca tonkeana, più tollerante), e analizzato la presenza di comportamento ludico», continua la ricercatrice. «E, in effetti, nel macaco di Tonkean il gioco si conserva molto anche in età adulta, al contrario di quanto avviene nel macaco giapponese. Ancora, abbiamo condotto uno studio simile nei lemuri, sempre lavorando su due specie che rappresentassero un po’ gli opposti per quanto riguarda la tolleranza, raccogliendo dati simili. Insomma, si faceva sempre più forte l’ipotesi che la tolleranza inclusa nella storia biologica della specie fosse un fattore fondamentale per la presenza di gioco negli adulti».

Questione di cervello? Questione d’esperienza?

Nella sua review, Palagi indaga anche alcuni aspetti neurobiologici del gioco. A lungo, scrive, si è pensato che il comportamento ludico fosse più presente nelle specie in cui la dimensione del cervello è maggiore. Tuttavia, proprio come la dimensione cerebrale non si è dimostrata correlabile allo sviluppo di determinate abilità, nello stesso modo si è visto che, tra le specie raggruppate all’interno dello stesso ordine, questo non si verifica: bonobo e scimpanzé, per esempio, hanno un cervello di dimensioni comparabili, eppure solo una delle due specie rimane così propensa a giocare anche in età adulta. Ciò che si è osservato è che, invece, sono particolari aree del cervello a essere correlate a una maggiore o minore presenza di comportamenti ludici.

Tornando ai bonobo, per esempio, si è visto che presentano una maggior quantità di materia grigia rispetto agli scimpanzé in alcune zone dell’amigdala, dell’ipotalamo, della corteccia prefrontale e insulare - regioni coinvolte nella percezione dello stress, proprio e degli altri individui, e dunque ritenute indici di una capacità significativa a processare le emozioni. Inoltre, si sono notate differenze a livello di circuiti neurali coinvolti nell’inibizione dell’aggressività. Globalmente, queste differenze possono spiegare la maggior propensione dei bonobo per comportamenti pacifici e giocosi per affrontare la tensione sociale ed evitare i conflitti.

Vale anche la pena chiedersi: che ruolo può avere l’esperienza nell’influenzare la propensione al gioco? In effetti, uno studio del 1993 suggerisce come l’esperienza sia un fattore anch’esso importante. Facendo crescere piccoli di macaco reso, una specie dispotica, insieme a piccoli di macaco orsino, una specie tollerante, i ricercatori avevano notato che i primi diventavano molto più propensi a riconciliarsi dopo un conflitto rispetto alla condizione di controllo, così come aumentavano le vocalizzazioni associate al gioco e ai comportamenti affiliativi. Nell’età immatura, dunque, sembra esservi una certa plasticità, basata sugli input sociali che i piccoli ricevono.

Gioco di squadra

Nel frattempo, però, i ricercatori avevano osservato che anche in molte altre specie, pur dispotiche, il gioco si presenta anche in età adulta. Vale per la iena, per il licaone, per il cuon alpino, per i lupi, nelle quali la struttura sociale è caratterizzata da una rigida gerarchia. «Tutte specie dispotiche e gerarchiche, sì, ma accomunate anche da un’altra caratteristica: si tratta di società in cui i dominanti hanno una forte necessità di cooperare con i subordinati per la caccia, la cura dei piccoli, la difesa del territorio… Ciò significa che aumenta, in questi casi, la tolleranza del gruppo, che permette poi la cooperazione e porta a registrare un elevato comportamento di gioco tra gli adulti. Il gioco porta anche, in molti casi, alla sincronizzazione del gruppo, essenziale perché si attui il comportamento cooperativo. Per esempio, osservazioni sui licaoni (sebbene datate) riportano che due adulti iniziano a giocare prima della caccia, coinvolgendo pian piano tutto il gruppo. Solo dopo che tutti i soggetti del gruppo sono stati reclutati nella sessione ludica inizia la battuta di caccia vera e propria. Schemi simili si ripropongono anche in altri carnivori sociali», spiega Palagi.

D’altronde, scrive la ricercatrice nella sua review, la correlazione tra la presenza del gioco negli adulti e le società tolleranti e cooperative si possono notare anche nella nostra specie. «In una struttura molto gerarchica come il clero o la milizia, difficilmente si trova il gioco libero… Ma l’esempio migliore viene dalle società di cacciatori-raccoglitori, caratterizzate da un sistema sociale egualitario, nelle quali giocare insieme porta a ridurre le tendenze aggressive e ad agire in modo cooperativo. In questo senso, viene meno anche il ruolo della cultura nei confronti del gioco, dal punto di vista evolutivo. Ed evidenzia anche come, per capire davvero il ruolo del gioco nell’evoluzione di società tolleranti e cooperative, sia importante studiarlo, con approcci metodologici comparabili, sia nella nostra che in altre specie», conclude la ricercatrice. «Questa ricerca mi sembra molto stimolante: il gioco ha un’origine polifiletica, e il suo mantenimento in gruppi così distanti filogeneticamente significa che le storie da raccontare sono molte, ma anche che il gioco offre basi di conoscenza che altri domini comportamentali non possono offrire».

 


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