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Digiuno intermittente: quanto è moda? Quanto è scienza?

Il digiuno intermittente esercita un certo fascino e periodicamente riemerge come strategia alimentare - efficace e all'apparenza semplice - per mantenersi in forma e in salute, assecondando la naturale fisiologia dell'organismo. Ma quali sono le prove scientifiche a suo favore?

In un'osteria romana. Carl Bloch, 1866, olio su tela, Staten Museum for Kunst

Tempo di lettura: 11 mins

Scottano le parole “digiuno intermittente” nelle ultime due settimane, da quando l’immunologa-celebrità Antonella Viola, nell’anticipare i contenuti del suo nuovo libro, ha dichiarato di praticare da due anni una forma di digiuno intermittente (la TRE, Time Restricted Eating) non solo per regolarizzare il proprio peso, ma soprattutto come strumento di benessere e longevità. Ma non sono solo le parole di Antonella Viola o degli esperti di nutrizione, che si sono pronunciati in merito negli ultimi giorni, a rendere il digiuno intermittente un tema tanto attuale quanto controverso. Tra libri per il pubblico e applicazioni per gli smartphone, le diverse pratiche di digiuno conquistano uno spazio sempre maggiore nella realtà delle persone alla ricerca di strategie per mantenersi in forma e in salute. Il digiuno intermittente poi, esercita un fascino particolare, perché a differenza delle diete classiche di continua restrizione calorica, sembra paradossalmente meno rigido e impositivo. “Sembra”, appunto: «Il rischio è che questi digiuni aprano la porta ad azioni dannose per lo stato di salute; le persone rischiano di intraprendere una forma di digiuno da sole, senza la guida di uno specialista, sottoponendosi a forti restrizioni caloriche per poi continuare a mangiare pasti non equilibrati o non salutari, che rimangono dannosi, nonostante il periodo di digiuno» commenta Mauro Serafini, professore di Nutrizione umana all’Università di Teramo e membro del Gruppo 2003 per la ricerca scientifica. E quando si tratta di alimentazione, protagonista indiscussa della nostra quotidianità, vi sono altri fattori da considerare, come gli effetti sociali e psicologici: i quattro direttori del corso di laurea in Medicina dell’Università di Padova allertano «Il digiuno intermittente è associato in modo scientificamente significativo, specie nelle giovani donne, a disturbi psicopatologici alimentari» e aggiungono come saltare la cena per più volte la settimana corrisponda «a deprivare una famiglia di un rito importante (...) con possibili deleterie implicazioni sui figli e sulla famiglia stessa. Non cenare insieme per aderire a diete che prevedono di saltare il pasto serale rischia di creare isolamento».  

Ma in un mondo in cui l’obesità e il sovrappeso coinvolgono il 39% della popolazione, il digiuno intermittente attira l’interesse, anche della comunità scientifica, come potenziale strategia di intervento; la domanda che sorge è: quanto  -  e “solo” - potenziale?

Digiuno intermittente: un problema di identità

Con il termine digiuno intermittente si indicano diverse tipologie di interventi nutrizionali che si ispirano “liberamente” al concetto di digiuno, ovvero la totale astensione dal cibo, e qualsivoglia assunzione calorica, protratta nel tempo. Così si distingue un digiuno vero e proprio (o prolungato) quando si superano le 48 ore di astensione, e un digiuno intermittente, quando gli intervalli sono minori. In particolare, quest’ultimo si divide in tre categorie principali: il digiuno a giorni alterni (o alternate day fasting, ADF); il digiuno per due giorni a settimana, consecutivi o meno, (anche noto come la dieta 5:2) e l’alimentazione ristretta nel tempo (o TRE, Time Restricted Eating), che implica l’assunzione dell’intero apporto calorico quotidiano in una finestra ristretta della giornata (dalle 10 ore con 14 ore di digiuno, alle più impegnative 4 ore, con 20 ore di digiuno). Ma le differenze non finiscono qui; la TRE può riferirsi ad un intervallo preciso di tempo in cui alimentarsi, come la mattina o il pomeriggio, oppure lasciare libera scelta alla persona.  Esistono poi versioni di interventi dove, nella finestra di digiuno, si prescrive comunque un minimo apporto calorico (dalle 400 alle 800 kcal). 

Appare evidente dunque, come in tutte queste diverse declinazioni, il termine “digiuno intermittente” si perda e si confonda nei significati. Questa varietà ricalca una caratteristica insita nella letteratura sull’argomento: in un campo scientifico ancora “adolescenziale”, i trial sull’essere umano che supportano o confutano gli effetti benefici del digiuno raramente concordano sulla terminologia, restituendo per ogni “digiuno intermittente” una collezione di dati piuttosto scarsa e contraddittoria, che fatica a essere valutata collettivamente.

Le promesse dal mondo animale

Dopo quasi un secolo di ricerca su modelli animali, la restrizione calorica, intesa come la riduzione del 20-30% del fabbisogno quotidiano, viene definitivamente associata a un miglioramento dello stato di salute complessivo, dal topo ai primati non umani. Il ridotto apporto calorico nel tempo riduce i maggiori fattori di rischio e l’incidenza di malattie cardiovascolari, metaboliche, neurodegenerative e determinate patologie oncologiche. Per quanto riguarda le diverse forme di digiuno intermittente, i risultati positivi, anche se più “giovani”, sono simili: il digiuno a giorni alterni, la 5:2 e la TRE riportano risultati evidenti e coerenti per quanto riguarda la perdita di peso, la riduzione di fattori di rischio e il miglioramento del profilo glicemico, lipidico e infiammatorio.

E non solo: un’alimentazione ristretta in 8h (con 16 ore di digiuno) e allineata con il periodo di maggiore attività dell’animale, sembra avere effetti positivi e protettivi nei topi a prescindere dalla perdita di peso. I risultati sono in linea con la logica dei ritmi circadiani: gli organismi si sono evoluti sviluppando un orologio interno che organizza le risposte fisiologiche, metaboliche e ormonali in modo che ogni processo venga attuato nell’intervallo di tempo ottimale; c’è quindi un tempo per mangiare, muoversi e concentrarsi e un tempo per riparare e riposarsi. Allineare l’apporto calorico con il momento di attività, in cui la risposta metabolica è più efficiente, sembra una logica sensata per ottenere il meglio dai nutrienti, e i dati lo dimostrano. Eppure, con l’essere umano la storia - e la fisiologia dell’organismo- si complica. 

E nell’essere umano? Dati discordanti

Visti i risultati promettenti nei modelli animali, la ricerca scientifica si è spostata sull’essere umano, conducendo dei trial per verificare l’efficacia degli interventi sia sulla perdita di peso, che rispetto al miglioramento di fattori di rischio cardiometabolici. Diverse review e meta-analisi della letteratura scientifica condotte negli ultimi anni, eseguite prendendo in considerazione solo trial randomizzati controllati (il gold standard della ricerca scientifica) riportano tutte lo stesso risultato: i dati non sono sufficienti; i soggetti sono pochi e il periodo di intervento è troppo corto (spesso coinvolge da uno a tre mesi, raramente arriva a sei o dodici). «Il numero di libri di diete che incoraggiano a incorporare il digiuno nelle nostre vite è maggiore di vari ordini di grandezza al numero di trial che esaminano se il digiuno dovrebbe essere incoraggiato in generale” scrivono, nel 2020, gli autori di una review sugli effetti del digiuno intermittente sulla salute metabolica. 

La letteratura scientifica attuale, da parte sua, riporta risultati contrastanti. Nella maggior parte dei trial, ma non in tutti, le diverse strategie di digiuno determinano una riduzione del peso corporeo, visto che spesso sono associati a una conseguente restrizione calorica, ma al contrario, in condizioni isocaloriche, ovvero se i soggetti sottoposti a digiuno intermittente (a giorni alterni, 5:2 o TRE) consumano la stessa quantità di calorie di un gruppo di controllo, nella maggior parte dei casi gli effetti sul peso sembrano scomparire.  Anche per quanto riguarda i marker di rischio cardiovascolare o metabolico (come trigliceridi, colesterolo, insulina o glicemia) i risultati differiscono: «Secondo alcuni studi vi sarebbe un miglioramento significativo rispetto a gruppi di controllo, mentre altri non riscontrano differenze o individuano solo alcuni effetti» spiega Mauro Serafini, che commenta: «Questa variabilità potrebbe essere legata alle categorie di intervento: quando i soggetti sono normopeso e hanno valori nella norma, il digiuno non ha effetti degni di nota, mentre se la popolazione presenta valori di base alterati e un peso corporeo eccessivo, gli interventi portano a risultati significativi». 

Tuttavia, quando si va a paragonare il digiuno a giorni alterni, la 5:2 e la TRE con una classica restrizione calorica del 20-25%, i dati diventano ancora più discordanti. Secondo una meta-analisi pubblicata nel 2022 su Frontiers in Nutrition, che analizza 43 studi randomizzati, per un totale di 2483 partecipanti, le diverse forme di digiuno intermittente determinano un miglioramento nel peso corporeo e nella risposta insulinica rispetto a un gruppo di controllo senza intervento, mentre non mostrano differenze se paragonati a una restrizione calorica. Per quanto riguarda il calo ponderale in soggetti obesi invece, una meta-analisi pubblicata sempre nel 2022, riporta come sia digiuno a giorni alterni sia dieta 5:2 si siano dimostrati più efficaci della classica restrizione calorica nel far diminuire il peso dei partecipanti, ma senza influenzare dislipidemie o risposta glicemica. Nelle sue conclusioni, una recente meta-analisi di Nature Endocrinology rispetto agli affetti delle diverse forme di digiuno intermittente dichiara: «Il grado di perdita di peso è pari a quello ottenuto con gli approcci di restrizione calorica tradizionali. L’impatto sui parametri di rischio cardiovascolare e metabolico è ancora incerto. Mentre alcuni studi hanno dimostrato miglioramenti nella pressione sanguigna, LDL, colesterolo, trigliceridi e resistenza insulinica, altri hanno mostrato che questi effetti positivi non ci sono».

Anche considerando solo la TRE (Time Restricted Eating), i dati rimangono ugualmente contrastanti: una meta-analisi del 2023 che comprende solo studi randomizzati di intervento TRE con digiuno di 16, 14 e 12 ore, in partecipanti in sovrappeso, ha riportato come le uniche differenze tra il gruppo di intervento e il controllo (che assumevano lo stesso apporto calorico) siano state una maggiore perdita di peso e una migliore pressione diastolica, senza effetti sui fattori di rischio metabolici o riduzione delle dislipidemie, mentre il New England Journal of Medicine l’anno scorso scriveva come, dopo una TRE con 16h di digiuno, nessun parametro, neanche la perdita di peso, fosse migliore di una restrizione calorica continuata. Inoltre, se l’intervento di TRE, anche più estremo con 20 o 18 ore di digiuno, viene effettuato su persone normopeso, non sembra portare ad alcun miglioramento significativo, né rispetto al peso, né rispetto alla salute, soprattutto se l’alimentazione avviene di sera.  Gli unici risultati, piuttosto recenti, che sembrano essere coerenti tra loro, riguardano un intervento di TRE in cui la finestra di alimentazione mattutina, associata a una restrizione calorica, in pazienti maschi in condizioni di prediabete, sembra migliorare la risposta glicemica e la resistenza insulinica rispetto alla semplice restrizione calorica.

Una questione emerge chiaramente: le tanto millantate evidenze scientifiche non sono così solide, non ancora almeno. Sia per il digiuno a giorni alterni, che per la 5:2 e la Time Restricted Eating, le prove scientifiche sull’essere umano sembrano in alcuni casi molto promettenti ma ancora non conclusive. In tutte le meta-analisi gli autori sottolineano la necessità di trial condotti per periodi più lunghi (almeno un anno), secondo protocolli di intervento ben delineati e condivisi, e su determinate categorie di pazienti (normopeso o obesi, prediabetici o sani, uomini o donne - perché sembra esserci un’influenza del sesso nella risposta al digiuno) in modo da poter trarre dati realmente indicativi. 

Tra pasti e digiuno: cosa accade 

Per quanto diversamente declinato, il digiuno intermittente nelle sue varianti si rifà a un concetto fondamentale: ristabilire un equilibrio metabolico perduto. Se da una parte ogni essere vivente è alla ricerca di cibo per la sopravvivenza, allo stesso modo il corpo si è evoluto per adattarsi e sfruttare al meglio i non voluti periodi di digiuno, creando un alternarsi naturale di fasi anaboliche, in cui l’organismo, sazio e arricchito di nutrienti, si dedica alla sintesi, alla crescita cellulare e all’immagazzinamento; e fasi cataboliche, dove la mancanza di nutrienti lascia il tempo all’organismo di tornare in uno stato basale e lo spinge a utilizzare le riserve di energia messe da parte.  Se la mancanza di risorse si protrae, il corpo risponde e si adatta: così attiva meccanismi di difesa che rendono le cellule più resistenti agli stress metabolici e ossidativi, rallenta il metabolismo, si dedica maggiormente al riparo o alla rimozione delle componenti danneggiate, aumenta il controllo della qualità dei processi di sintesi e innesca l’autofagia, ovvero una morte cellulare controllata, un suicidio altruistico, in cui le componenti delle cellule vecchie diventano materiali disponibili per nuove strutture. Nonostante basti poco per interrompere questo processo di difesa, non è chiaro invece quante ore di digiuno servano per innescarlo, se le 16 ore della TRE sono sufficienti o se ne servano almeno 24 del digiuno a giorni alterni; anche lo switch metabolico, quindi il passaggio dal glucosio ai grassi, come fonte di energia per il corpo, può variare, richiedendo dalle 12 alle 36 ore di digiuno per innescarsi.

Ma senza andare a disturbare l’autofagia, il problema si presenta anche per la prima fase catabolica: «Il pasto, soprattutto se sbilanciato e ad alto contenuto energetico, rappresenta un evento stressante per il corpo, che deve digerire, assorbire, controllare i livelli di glucosio nel sangue e immagazzinare le risorse in eccesso negli acidi grassi, processi che si accompagnano a un tipico stato infiammatorio postprandiale» spiega Mauro Serafini. «Se la risposta glicemica e lipidica di un pasto si risolve in poche ore, l’ingestione di un pasto successivo altrettanto stressante, senza un intervallo adeguato di tempo di digiuno, allunga il processo, sovraccaricando il sistema. Così in una giornata di alimentazione continua e altamente calorica, passiamo la maggior parte delle 24 ore in uno stato post-prandiale lipogenico e cronicamente infiammato». La situazione peggiora poi se il carico calorico viene assunto la sera (più tardi è, peggio è) quando, in linea con i ritmi circadiani umani, la sensibilità insulinica diminuisce, peggiorando il controllo della glicemia e la reazione postprandiale infiammatoria incrementa, segnali di un corpo che si prepara per il riposo e il riparo. Questi risultati sono in linea con i dati che dimostrano, ormai da tempo, che il night shift ovvero l’inversione tra notte e giorno delle attività quotidiane, è associato a un aumento dell’infiammazione, dei fattori di rischio per patologie cardiovascolari, metaboliche e diabete e una maggior tendenza all’obesità.  

Tamponare questa situazione è fondamentale, ma non per forza è necessaria una forma di digiuno intermittente, che imponendo il salto dei pasti ha più di un’implicazione, sia sul piano sociale che psicologico.  Forti di robuste prove scientifiche, l'esercizio fisico e un’alimentazione che non esagera nelle calorie, evita i continui spuntini ed è povera di cibi processati e ricca di vegetali, grassi insaturi e carboidrati integrali complessi, sono in grado di mantenere uno stato benefico, anche se ogni tanto si “sgarra”. Questa alimentazione, volta alla riduzione della risposta infiammatoria post-prandiale e al rispetto dei ritmi circadiani umani è il cuore del dossier Immunonutrizione, stili di vita e benessere, pubblicato a luglio dell’anno scorso dal Gruppo 2003 per la ricerca scientifica e i cui concetti fondamentali ci vengono raccontati da Mauro Serafini nel podcast dedicato all’immuno- e crononutrizione. 

Per quanto tali pratiche possano sembrare allettanti quindi, potrebbero non rivelarsi efficaci come speriamo, soprattutto in termini di salute generale, soprattutto se digiuniamo le 16 ore sbagliate (diurne) ma nelle 8 rimanenti assumiamo pasti non equilibrati o ad alto contenuto calorico. È indubbio però che con l’epidemia di obesità che la società attuale sta affrontando e che sembra prospettarsi in continuo aumento, ridurre il peso corporeo e migliorare i relativi parametri cardiovascolari e metabolici diventa una necessità reale. Le vie della scienza sono infinite, basta farsi aiutare da medici o nutrizionisti a trovare la propria. 


 

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