La sfida dei nostri anni è quella di sfamare in modo sano e sostenibile la popolazione mondiale, rispondendo agli obiettivi fissati dall’Agenda 2030 e ricordandoci che nel 2050 saremo circa 10 miliardi. La carne coltivata, le proteine di origine vegetale e le farine di insetti possono avere un ruolo? Facciamo il punto sullo stato delle cose, valutando pro e contro in base a quanto emerge dagli studi scientifici. Crediti immagine: Lily Banse/Unsplash
Nutrire il pianeta, recitava lo slogan di Expo 2015. L’ultimo rapporto sulla sicurezza alimentare e nutrizionale del mondo pubblicato nel 2022 dalla FAO (Food and Agricolture Organization of United Nations) ci dice che la denutrizione è in crescita. Tra 702 e 828 milioni di persone sono state colpite dalla fame nel 2021. Quasi 3,1 miliardi di persone non hanno potuto permettersi una dieta sana nel 2020: sono 112 milioni in più rispetto al 2019, come conseguenza dell'aumento dei prezzi dei prodotti alimentari di consumo. Il rapporto della FAO stima che nel 2030 l’8% della popolazione mondiale soffrirà ancora la fame.
Sconfiggere la fame nel mondo è il secondo dei 17 obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni unite. Ma non basta. L’obiettivo è farlo in modo sano e sostenibile. I sistemi alimentari contribuiscono per oltre un terzo alle emissioni mondiali di gas a effetto serra. La produzione alimentare ha un impatto significativo sull’ambiente lungo tutta la filiera. In fase produttiva, in campo, nella trasformazione, nel trasporto, nella fase di distribuzione. Produrre cibo consuma ingenti risorse energetiche, ma anche suolo, acqua, compromette la biodiversità, inquina a causa del ricorso a farmaci e pesticidi. Anche gli imballaggi consumano energia e danneggiano l’ambiente. L’impatto sull’ambiente di quanto e di cosa mangiamo è quindi significativo. Tuttavia, molto dipende dalla dieta che seguiamo, ovvero da quello che ogni giorno mettiamo nel piatto.
I prodotti di origine animale hanno un impatto ambientale mediamente superiore rispetto alle produzioni vegetali. Tra le fonti proteiche le carni rosse sono quelle con la maggiore “impronta carbonica”, il parametro che viene utilizzato per stimare le emissioni di gas serra causate da un prodotto o da un servizio.
È importante notare la coincidenza tra le indicazioni derivanti dall’attenzione agli aspetti ambientali e le linee guida di una sana alimentazione. Il Rapporto speciale "Cambiamenti climatici e territorio" del Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico IPCC del 20193 afferma: «Il consumo di diete sane e sostenibili è un’importante opportunità per ridurre le emissioni di gas serra derivanti dalla produzione alimentare e migliorare i risultati di salute (alta confidenza)». Questo significa in pratica che adottando uno stile alimentare sano, ovvero caratterizzato da una importante presenza nella dieta di prodotti vegetali (almeno cinque porzioni al giorno tra frutta e verdura), carboidrati integrali (pane, pasta, riso, cereali integrali), consumo regolare di legumi e limitando il consumo di carne rossa, apportiamo benefici sia alla nostra salute sia a quella del pianeta.
Le fonti proteiche alternative come la carne coltivata, gli alimenti proteici a base vegetale (plant-based) e la farina di insetti possono rappresentare una delle riposte per i problemi di alimentazione dell’umanità? Una review pubblicata nel 2017 su Global Food Security le ha definite “prospettive interessanti”, ma richiedono ancora diverse risposte. Servono ancora ricerche, studi, dati, soprattutto trasparenza e informazione corretta.
Cellular Meat ovvero la carne coltivata
«Sfuggiremo all'assurdità di far crescere un pollo intero, solo per mangiarne il petto o l'ala, facendo crescere queste parti separatamente in un ambiente adatto».
Sono parole di Winston Churchill, pronunciate durante un’intervista nel lontano 1931. La carne coltivata (chiamata anche di laboratorio, sintetica, pulita, artificiale, fake meat o cellular meat) risponde all’idea visionaria del primo ministro britannico ed è esattamente questo: una carne ottenuta in laboratorio partendo da cellule staminali dell’animale.
La prima teorizzazione della carne artificiale risale al 1864 ad opera del chimico Marcellin Barthelot. Nel 2002 viene pubblicato il primo studio scientifico, condotto da un gruppo di ricerca promosso dalla NASA. Nel 2013 nel laboratorio di Mark Post, docente di fisiologia dei tessuti all’Università di Maastricht, viene creato e presentato pubblicamente con una conferenza stampa a Londra il primo hamburger coltivato. Il costo è simbolico ed esorbitante, perché tiene conto di tutto il lavoro di ricerca: 250mila euro per 150 grammi di carne. Costi coperti da un finanziatore illustre come Sergey Brin, il fondatore di Google. In seguito nella ricerca sulla carne coltivata hanno investito altre celebrità, come Bill Gates, Richard Branson e Leonardo Di Caprio.
Singapore è stato il primo Paese al mondo, nel dicembre 2020, ad autorizzare il commercio di crocchette di pollo realizzate coltivando cellule animali. Diversa la situazione in Israele, dove la carne coltivata non è ancora stata autorizzata, ma è possibile mangiarla in un particolare ristorante nei pressi di Tel Aviv: The Chicken. Negli Sati Uniti la Food and Drug Administration ha inviato un primo sì ai nugget di carne di pollo coltivata di Upside Foods. Non si tratta di un’autorizzazione definitiva, ma di un primo passaggio relativo ai processi di produzione. Seguirà la valutazione, ad opera del Dipartimento dell’Agricoltura USDA, che dovrà approvare i siti di produzione e le lavorazioni.
Venendo a noi, la carne coltivata non è al momento autorizzata in nessun paese europeo. In Italia il ministro dell’Agricoltura e della Sovranità Alimentare, Francesco Lollobrigida, nel Consiglio dei ministri del 28 marzo 2023 ha annunciato un disegno di legge per vietare in Italia la produzione di carne sintetica, cavalcando un diffuso atteggiamento ostile verso quella che Coldiretti ha definito “carne di Frankenstein”.
È comprensibile un atteggiamento di timore dell’opinione pubblica verso un nuovo alimento. Il fatto che venga coltivata in laboratorio può provocare diffidenza. Sicuramente non aiuta il ricorso a terminologie, peraltro scorrette, come “artificiale” o “sintetica”.
In realtà la produzione di carne coltivata non è molto diversa dalla rigenerazione dei tessuti o di interi organi a partire dalle cellule staminali, che è una delle frontiere più promettenti della ricerca biomedica. Si parte da cellule staminali, ancora indifferenziate, ma potenzialmente muscolari, prelevate dalla spalla di un bovino da allevamento. L’animale è anestetizzato localmente e il prelievo avviene con un ago da biopsia. Quello che viene prelevato è un pezzo di tessuto; viene quindi effettuata una separazione con enzimi in modo da ottenere un concentrato di cellule staminali. Queste cellule vengono coltivate in laboratorio. Dal punto di vista nutrizionale la carne coltivata potrebbe essere un’alternativa interessante ai sostituti della carne a base di proteine vegetali, ma il condizionale è d’obbligo. Troppo semplicisticamente sentiamo dire che si tratta di cellule muscolari coltivate in laboratorio, quindi il valore nutrizionale è uguale. La risposta in realtà è più complessa e i dati a disposizione sono lacunosi.
Ad oggi le informazioni disponibili sui protocolli produttivi sono molto limitate (anche per una questione di riservatezza dei brevetti) e questo non consente una valutazione approfondita del valore nutrizionale e della corrispondenza con la carne tradizionale.
Molti dei dubbi sollevati riguardano il siero vegetale che ormai ha soppiantato il ricorso al siero fetale bovino come liquido di nutrimento nel processo produttivo. La sua composizione chiaramente influenza le caratteristiche di composizione del prodotto finale. Secondo uno studio pubblicato nel 2021 il liquido usato per l’accrescimento deve includere diversi nutrienti come vitamine, sali minerali, fattori di crescita, ma anche antibiotici e antimicotici. L’ eventuale persistenza nel prodotto finale di questi ultimi deve essere valutata.
Altri punti in sospeso sono la composizione in acidi grassi degli adipociti (si può ipotizzare di guidare e migliorare la composizione), la presenza di vitamine come la B12 (si può pensare ad una aggiunta), la disponibilità di ferro (il ricorso a leghemoglobina vegetale dovrebbe risolvere questa criticità). Altro aspetto importante è la consistenza. La frollatura della carne, le trasformazioni biochimiche post-mortem, sono un passaggio essenziale per ottenere un prodotto di qualità. Ottenere un valore nutrizionale e caratteristiche sensoriali comparabili con la carne convenzionale è una delle maggiori sfide tecnologiche che andranno affrontate per ottenere un prodotto che possa raggiungere il mercato e il favore dei consumatori.
La carne coltivata dovrebbe essere di particolare interesse per la riduzione dell’impatto ambientale rispetto alla carne tradizionale. Ma ancora una volta, è d’obbligo il condizionale. Abbiamo visto che la produzione di carne, in particolare di carne rossa, ha un impatto molto elevato come emissioni di gas serra. I bovini emettono enormi quantità di metano e la produzione dei mangimi necessari alla loro crescita consuma suolo, acqua, inquina a causa dei pesticidi e distrugge la biodiversità. Tutti questi aspetti sarebbero risolti con la carne coltivata in laboratorio. Ma dobbiamo considerare, e sono pochissimi i dati attendibili su questo aspetto, l’impatto della produzione su larga scala di questo innovativo alimento. In particolare, il consumo energetico. Insomma, la convenienza dal punto di vista dell’impatto climatico della carne coltivata non è così netta o meglio lo potrebbe diventare solo a patto di utilizzare fonti energetiche rinnovabili e meno impattanti. Resta un’ultima domanda: la carne coltivata è sicura?
La carne coltivata è stata approvata nel 2020 dall’Agenzia di sicurezza alimentare di Singapore dopo un’attenta analisi condotta da una commissione di esperti, mentre la FDA ha recentemente dato un via libera all’autorizzazione negli Stati Uniti. Il 6 aprile 2023 è stato pubblicato un report FAO e OMS sulla sicurezza della carne coltivata. Le prove scientifiche disponibili attualmente sono state analizzate da un panel di 23 esperti internazionali. La conclusione è che i rischi per la salute umana connessi al consumo di questi nuovi prodotti sono in sostanza simili a quelli del cibo tradizionale. Viene aggiunto comunque che non si esclude la possibilità che si presentino in futuro criticità dettate da aspetti al momento non ancora studiati. Nel complesso FAO e OMS mostrano una posizione cauta e non si schierano né a favore né contro questa nuove tecnologie, ma ribadiscono l’urgenza di ripensare gli attuali sistemi produttivi degli alimenti.
Plant-based ovvero sostituti della carne a base vegetale
Letteralmente plant-based significa a base vegetale. Una definizione molto ampia e vaga. Oggi con questa definizione si intendono molti prodotti, più o meno innovativi, che si propongono come alternativa proteica a base vegetale rispetto ai prodotti di origine animale come carne, latte e latticini, pesce e uova.
I prodotti plant-based sono inseriti in diete attente alla salute e all’ambiente e non necessariamente vegetariane o vegane. Per intenderci in concreto, parliamo di prodotti come hamburger vegetali, polpette senza carne, latti vegetali, yogurt senza latte, simil-salumi, formaggi vegetali. Fino a pochi anni fa gli alimenti plant-based erano distribuiti in negozi specializzati, il target era molto ridotto, essenzialmente a persone vegetariane e vegane, e l’offerta era limitata a pochi prodotti: tofu, seitan, tempeh. Tutti provenienti dall’Oriente e non sempre graditi dal gusto occidentale.
Oggi i plant-based sono entrati nella grande distribuzione. Il target di riferimento sono le persone flexitariane, ovvero che seguono preferibilmente diete a base vegetale, ma non in modo esclusivo, e le persone climatariane, ovvero che scelgono cosa portare a tavola con una particolare attenzione all’impatto ambientale. È un mercato che sta crescendo e che attrae gli investitori. Solo nel 2021, il settore plant based ha raccolto investimenti per oltre 5 miliardi di dollari.
Nella maggior parte dei casi questi nuovi prodotti plant-based, spesso attraenti e gustosi, sono ultra-processati. Con questo termine si indicano gli alimenti che hanno subito numerosi processi di trasformazione nel corso del processo produttivo. Si distinguono per la lunga lista degli ingredienti, almeno cinque, che include additivi come coloranti, conservanti, emulsionanti, addizionati per rendere l’alimento più appetibile e più simile all’alternativa di origine animale. Sono frequentemente ricchi di zuccheri, di grassi e di sale e hanno spesso quindi profili nutrizionali non consigliabili. L’Organizzazione mondiale della sanità ha pubblicato nel 2021 un report nel quale fa il punto, sulla base delle prove scientifiche disponibili, sui vantaggi per la salute, la sostenibilità e l’ambiente dei prodotti a base vegetale, e mette in guardia rispetto ai nuovi alimenti plant-based ultra-processati.
Orientare in modo corretto le proprie abitudini alimentari ha effetti positivi sulla salute. Le evidenze scientifiche in merito sono ormai solide. Ben vengano quindi i prodotti plant-based come fonti proteiche alternative, a patto che non si tratti di prodotti ultra-processati. La ricerca ha dimostrato che il consumo frequente di prodotti ultra-processati può portare a impatti negativi sulla salute, tra cui sovrappeso, obesità e rischi cardio-metabolici, nonché aumento del rischio di molte forme di cancro, di diabete di tipo 2 e malattie cardiovascolari. Una corretta informazione dovrebbe aiutare i consumatori a non identificare i prodotti plant-based come un’alternativa di per sé più sana. Sostituire un hamburger di sola carne macinata con un hamburger plant-based ultra-processato con una lunga lista di ingredienti e un contenuto in sale molto elevato non è una scelta più sana, anche se può essere una scelta più sostenibile.
Uno studio neozelandese pubblicato su Lancet nel 2022 ha preso in considerazione sei modelli di consumo, di cui uno è quello corrente in Nuova Zelanda e cinque prevedono diversi tipi di sostituzione della carne rossa. Lo studio ha calcolato la diminuzione media di emissioni di gas serra dei modelli alternativi rispetto alla dieta abituale. Ecco i risultati:
- Dieta secondo le raccomandazioni della Heart Foundation rispetto alla riduzione di consumo di carne rossa: -19% (in media)
- EAT- Lancet (dieta elaborata da 37 esperti internazionali) : -25%
- Sostituzione con alternative vegetali minimamente processate, come per esempio i legumi: -34%
- Sostituzione con alternative vegetali ultra-processate: -31%
- Sostituzione con carne coltivata: -20%
Tutti i modelli mostrano una riduzione in termini di emissioni di gas a effetto serra rispetto alla dieta attuale. Il valore più basso risulta la sostituzione con alternative vegetali minimamente processate. Non tutti nel mondo scientifico concordano con questi calcoli. Un articolo pubblicato dall’Università di Cambridge nel 2021 sottolinea la scarsa attenzione normalmente data all’impatto ambientale legato ai processi di trasformazione degli alimenti e conseguentemente la insufficiente preoccupazione riguardo agli alimenti ultra-processati per questo aspetto.
Un altro aspetto da non sottovalutare è l’imballaggio: stiamo parlando di piatti pronti, che necessitano di un imballaggio per questioni di sicurezza alimentare. Il contributo totale degli imballaggi alle emissioni di gas serra all'interno del sistema alimentare è ridotto (circa il 5%), ma il tipo di imballaggio è importante, l’uso eccessivo di plastica deve essere evitato.
Farine di insetti, nutrienti e sostenibili
Gli insetti sono già una realtà. Ci sono due miliardi di persone in 113 paesi che inseriscono abitualmente insetti nella loro dieta. La prospettiva provoca in gran parte di noi occidentali un certo disgusto, anche se il formaggio con i vermi, il Casu marzu sardo, letteralmente "formaggio marcio", di cui per motivi igienici è stata vietata la produzione, è considerato una prelibatezza.
In realtà si parla da tempo degli insetti come fonte proteica alternativa di particolare interesse per il contenuto nutrizionale degli insetti, non solo in termini proteici, e per il ridotto impatto ambientale. Dal punto di vista normativo rientrano nella definizione di Novel Foods, ovvero prodotti e sostanze alimentari privi di una storia di consumo significativo in UE (al 15 maggio 1997) e che quindi devono sottostare a un’autorizzazione, per valutarne la loro sicurezza, prima dell’immissione in commercio.
L’EFSA, l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare, ha dato a oggi parere favorevole per quattro specie di insetti, che sono state autorizzate per l’immissione in commercio da parte della Commissione europea con appositi regolamenti. Al momento i paesi più avanti nella produzione e utilizzo di insetti in Europa sono la Gran Bretagna, la Germania e il Belgio.
L’Italia è rimasta un po’ indietro rispetto a questo vivace scenario e sono poche le realtà che si stanno muovendo e le startup che scommettono sul tema. Sul mercato è comunque possibile acquistare alcuni prodotti con insetti tra gli ingredienti, tra cui patatine, biscotti e pasta.
Nel nostro paese prevale una certa ostilità nei confronti di questi nuovi prodotti, per motivi che ben poco hanno a che vedere con le evidenze scientifiche sulla loro sicurezza e le caratteristiche nutrizionali. A marzo 2023 sono stati firmati quattro decreti sulla vendita di farina di insetti, che verranno notificati all’Unione europea. Prevedono un’etichettatura precisa sulla provenienza del prodotto, sui quantitativi di farine di insetti presenti e sugli allergeni (anche se questo è già previsto in realtà dalle norme europee sull’etichettatura), oltre che una scaffalatura apposita nei negozi. Chiariamo subito due punti. In primo luogo, non parliamo di insetti selvatici, ma di allevamenti intensivi, controllati e regolamentati. In secondo luogo, le specie di insetti considerate commestibili sono 1.900 e sono tra loro molto diverse, il che significa che il loro metodo di allevamento è diverso e le loro caratteristiche, per esempio nutrizionali, sono diverse.
In generale, gli insetti dal punto di vista nutrizionale sono interessanti: possono essere definiti come concentratori di nutrienti, in grado di crescere con una dieta anche di bassa qualità, producendo proteine di alta qualità e altri nutrienti. Il loro componente principale sono le proteine, seguite dai grassi. La quantità di proteine può variare in maniera significativa, con un contenuto di proteine grezze compreso tra il 23% e il 76%. Sono valori confrontabili con quelli delle fonti proteiche tradizionali, come farina di soia e farina di pesce. Va sottolineato che una parte delle proteine sono legate chimicamente all'interno dell'esoscheletro e potrebbero per questo non essere biodisponibili. L'esoscheletro, inoltre, contiene chitina, che a sua volta contiene azoto, il che significa che il contenuto proteico totale degli insetti è potenzialmente sovrastimato se misurato in base al contenuto di azoto.
Gli insetti sono generalmente considerati una buona fonte di amminoacidi essenziali, con valori del tutto confrontabili con le fonti proteiche di alta qualità consumate tradizionalmente dall'uomo, come carne, latticini e pesce. Contengono inoltre acidi grassi saturi, monoinsaturi e PUFA (polinsaturi), in proporzione simile a quella di altre specie animali. Il principale acido grasso saturo è l'acido palmitico, con quantità più variabili di acido stearico. L'acido oleico è il principale acido grasso monoinsaturo. In generale, gli insetti sono relativamente ricchi di acido linoleico, con quantità minori di acido n-3 alfa-linolenico. Sia la quantità totale di grassi che la composizione di acidi grassi di varie specie di insetti possono essere modificate cambiando la loro dieta.
Il contenuto in sali minerali e in vitamine può differire notevolmente. Gli insetti possono fornire quantità significative di calcio, magnesio, manganese, fosforo e selenio con livelli di ferro e zinco notevolmente elevati. Gli insetti contengono anche alti livelli di vitamine del gruppo B, riboflavina (B2), acido pantotenico (B5) e biotina, mentre mancano di vitamina A, vitamina C, niacina, tiamina e vitamina D. I livelli di vitamina B12 sono particolarmente elevati nei vermi della farina gialla. Gli insetti possono contenere fino al 10% di fibre. Particolarmente elevato il contenuto in chitina, il cui effetto in merito all’utilizzo come alimenti o come mangimi, positivo o negativo, non è del tutto chiaro. Alcuni studi suggeriscono benefiche proprietà antiossidanti, antitumorali e antinfiammatorie. Tuttavia, la chitina può anche avere effetti anti-nutrizionali perché può legare varie macromolecole, rendendole potenzialmente inaccessibili per la digestione nell’intestino.
Alcuni studi, ancora pochi, presi in esame da una review del 2022 si sono focalizzati sugli effetti sulla salute umana. Si ipotizzano effetti positivi sulla composizione del microbiota: la polvere di grillo ha sostenuto la crescita del batterio probiotico, Bifidobacterium animalis, che è aumentato di 5,7 volte. Promettenti risultati sono stati ottenuti come integratori della massa muscolare in giovani atleti.
L’impatto ambientale dell’allevamento di insetti è particolarmente interessante. Globalmente per gli insetti gli indicatori ambientali, sia per utilizzo umano che come mangimi per animali, sono risultati inferiori del 40-60% rispetto ai valori relativi all’allevamento tradizionale. Diminuiscono le emissioni di gas serra, diminuisce il consumo di acqua, di terreno, aumenta la quantità di animale commestibile, diminuiscono fortemente le richieste in termini di mangimi. L'efficienza di conversione (quantità di mangime/anno per kg di proteina) del cibo ingerito è stata stimata inferiore del 58-85% negli insetti commestibili rispetto a carne di maiale e manzo e inferiore del 17% rispetto al pollame.
E il rischio di allergie? Gli insetti e le preparazioni a base di insetti sono caratterizzati da un elevato contenuto proteico e sappiamo che la maggior parte delle allergie sono connesse alle proteine. Sappiamo anche che le allergie possono essere causate dalla sensibilità individuale e dalla reattività crociata con altri allergeni. Si tratta di un aspetto all’attenzione delle valutazioni e autorizzazioni in corso da parte dell’EFSA. Tutti e quattro i regolamenti di esecuzione che a oggi hanno autorizzato l’immissione sul mercato di insetti prevedono l’obbligo di riportare in etichetta la relativa dicitura. Riportiamo un esempio per il grillo domestico: L'etichetta dei prodotti alimentari contenenti polvere parzialmente sgrassata di Acheta domesticus (grillo domestico) indica che tale ingrediente può provocare reazioni allergiche nei consumatori con allergie note ai crostacei e ai prodotti a base di crostacei, ai molluschi e ai prodotti a base di molluschi e agli acari della polvere. Questa indicazione figura accanto all'elenco degli ingredienti.