fbpx L'abolizione del termine "razza" dai documenti pubblici e dalla Costituzione italiana | Scienza in rete

Abolito il termine "razza" da tutti i documenti pubblici grazie a un appello uscito su Scienza in rete

Pagine della costituzione italiana

Il 30 maggio, le Commissioni Affari Costituzionali e Lavoro della Camera hanno votato all'unanimità per l'abolizione del termine “razza” da ogni documento amministrativo della Repubblica italiana, sostituendolo con il termine “nazionalità”. L'emendamento, proposto dal deputato del Partito democratico Arturo Scotto, nasce da un appello pubblicato su Scienza in rete nel 2014, a firma degli antropologi Olga Rickards e Gianfranco Biondi. Come ricorda lo stesso Scotto in un'intervista su Radio Radicale, il lavoro sul testo di legge si deve alla collaborazione con Pietro Greco, giornalista scientifico e condirettore di Scienza in rete, scomparso nel dicembre 2020. Proprio su queste pagine, Greco ha firmato anche un articolo dedicato all'abolizione del termine “razza” dalla Costituzione italiana. Riportiamo il capitolo introduttivo del documento, firmato dagli antropologi Olga Rickards e Gianfranco Biondi, nel quale sono raccolte tutte le iniziative volte all'eliminazione del termine “razza” dalla Costituzione italiana. Qui è disponibile il documento completo.

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Fino a tutta la prima metà del secolo scorso, il concetto di razza umana è stato un paradigma dell’antropologia. E conseguentemente si riteneva che i caratteri morfologici delle popolazioni esprimessero le loro diverse storie evolutive: vale a dire che le popolazioni che non presentavano il medesimo colore della pelle o la stessa forma dei capelli o del cranio non avessero condiviso antenati comuni, mentre quelle simili nel sembiante esteriore avessero partecipato alla medesima linea filogenetica, discendendo dallo stesso avo. In realtà, la morfologia è plasmata dagli ambienti geografici in cui le comunità umane hanno speso le loro esistenze e non fornisce indicazioni sulle loro ascendenze o discendenze.

La prima critica scientifica al concetto di razza umana è stata avanzata a metà degli anni sessanta del Novecento da Luigi Luca Cavalli-Sforza e Anthony William Fairbank Edwards. I due studiosi hanno confrontato i rapporti di parentela tra le popolazioni dell’Africa, dell’Asia, dell’Australia e dell’Europa e hanno trovato che la filogenesi definita dall’antropologia classica e basata sui tratti morfologici era del tutto diversa da quella costruita sui caratteri genetici da loro proposta. Nel primo caso l’albero filogenetico risultava diviso in due rami principali: formati l’uno dagli africani e dagli australiani e l’altro dagli asiatici e dagli europei; mentre la genetica ha evidenziato un diverso rapporto di somiglianza: africani ed europei da una parte e asiatici e australiani dall’altra (Cavalli-Sforza L.L., Edwards A.W.F., Analysis of Human Evolution, in S.J. Geert (ed.), Genetics Today, Vol. 3, Proceedings of the XI International Congres of Genetics, Pergamon Press, New York, pp. 923-33, 1963). E solo quest’ultimo rapporto di parentela è risultato corretto perché in accordo con i tempi delle divergenze, dato che i gruppi che hanno colonizzato il continente europeo sono usciti dall’Africa successivamente a quelli che si sono diretti in Oriente. Per un tempo più lungo cioè gli africani e gli europei sono stati un’unica popolazione e hanno condiviso le stesse mutazioni geniche; i gruppi orientali al contrario sono andati accumulando altre mutazioni adattative a quegli ambienti che li hanno diversificati rispetto al blocco afro-europeo. Solo pochi anni dopo, Richard Lewontin ha dimostrato empiricamente che l’Homo sapiens non può essere suddiviso in categorie sottospecifiche rigide, cioè in razze, dato che ben oltre il 90% della variazione genetica totale della specie si riscontra all’interno di ogni singola popolazione e solo la rimanente frazione permette di differenziare un gruppo dall’altro (Lewontin R.C., The Apportionment of Human Diversity, Evolutionary Biology, 6, pp. 381-98, 1972; Idd., The Genetic Basis of Evolutionary Change, Columbia University Press, New York, 1974.). La falsificazione finale del concetto di razza umana è stata fornita dalla scoperta dell’origine unica, africana e recente dell’Homo sapiens, perché i circa 200.000 anni trascorsi dalla sua nascita non sono stati sufficienti per accumulare una variazione genetica tale da consentire la suddivisione della specie in razze (Cann R.L., Stoneking M., Wilson A., Mitochondrial DNA and Human Evolution, Nature, 325, pp. 31-6, 1987).

La confutazione del concetto di razza umana non vuole misconoscere che le popolazioni siano tra loro diverse morfologicamente – e spesso anche molto differenti – quanto che i raggruppamenti razziali definiti dall’antropologia classica non permettano la ricostruzione della loro storia filogenetica, vale a dire le relazioni antenato-discendente. Ecco il punto di fondo: la suddivisione dei viventi in classi tassonomiche serve per risalire ai loro rapporti di parentela, cioè chi siano i progenitori e chi i discendenti, e proprio in ciò il concetto di razza si è dimostrato inadeguato per la nostra specie. La nozione di razza in biologia umana è stata connessa alla storia ecologica dell’umanità, non certo alla sua storia di ascendenze e discendenze: quindi è tassonomicamente errata. Questo è il senso dell’affermazione: le razze umane non esistono. L’unità degli uomini moderni, così come l’abbiamo ricavata dall’analisi del nostro genoma, è una realtà biologica – la cui radice è prossima nel tempo e affondata nel continente africano – e non già un’astrazione ideologica costruita da pensatori politicamente corretti. Essa appartiene all’ordine dei fatti scientifici che ci consente di affermare la non esistenza delle razze umane. O, capovolgendo il ragionamento, che parlare di razze umane non ha valore alcuno nel campo delle scienze sperimentali (Biondi G., Rickards O., L’errore della razza, Carocci editore, Roma, 2011).

 

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