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L'inquinamento dell'aria aumenta incidenza e mortalità per Covid-19

La ricerca Epicovair ha dimostrato il nesso tra inquinamento atmosferico e Covid-19. L'esposizione a polveri e ossidi di azoto incrementa l'incidenza, i ricoveri e la mortalità da Covid-19. In particolare, l'esposizione all'inquinamento avrebbe causato l'8% dei decessi totali tra febbraio 2020 e giugno 2021. I risultati sottolineano l'importanza di migliorare la qualità dell'aria per ridurre il rischio infettivo. Immagine: courtesy Epicovair.

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L’inquinamento dell’aria contribuisce all’incidenza, ai ricoveri e alla mortalità di Covid-19. Fra i cofattori di quella che alcuni hanno definito una sindemia mettiamoci quindi pure l’aria inquinata e i suoi effetti infiammatori sistemici che evidentemente predispongono a contrarre l’infezione e a patirne le conseguenze in ragione dell’esposizione a polveri e ossidi di azoto. Sono questi i primi risultati dell’iniziativa di ricerca Epicovair che l’Istituto superiore di sanità ha condotto con il meglio dell’epidemiologia ambientale italiana coordinata da Ivano Iavarone, in collaborazione con ISPRA, l’SNPA e il progetto Rias. 

In particolare i due articoli scientifici che hanno suggellato questo sforzo durato un paio d’anni sono stati coordinati rispettivamente da Andrea Ranzi (Arpa Emilia Romagna) per i risultati sull’incidenza e da Massimo Stafoggia (Dep Lazio) per ricoveri e mortalità (qui articolo incidenza e qui articolo mortalità). 

Sul nesso fra inquinamento e Covid-19  esiste già una discreta letteratura, che nelle prime fasi della pandemia ha generato anche polemiche in merito a ipotesi che vedevano gli inquinanti atmosferici come possibili vettori dei virus. Questi risultati si concentrano invece sull’ipotesi più ragionevole dell’effetto booster dell’esposizione agli inquinanti e ci lasciano una caratterizzazione molto robusta e affidabile da un punto di vista statistico, avendo potuto basarsi sulla ricca banca dati della pandemia costituita dall’ISS e sui principali dati ambientali, demografici, socioeconomici, sanitari in capo alle altre agenzie e, per quanto riguarda la mobilità individuale, a Enel X. Tali dati hanno consentito di generare una mappa delle concentrazioni di PM10, PM2,5 e NO2 su scala 1 km x1 km e la relativa esposizione media pesata sulla popolazione.

Il risultato più suggestivo è che nei sedici mesi che comprendono le prime tre ondate pandemiche (febbraio 2020-giugno 2021) l’esposizione pregressa all’inquinamento atmosferico eccedente le soglie precauzionali stabilite nel 2021 dall’Organizzazione mondiale della sanità sarebbe responsabile di circa 10mila morti dei 124.346 di quel periodo, vale a dire l’8% del totale, e di una quota ben più consistente di casi di infezione sul totale dei 4 milioni di casi del periodo considerato. 

Più nel dettaglio, lo studio sull’incidenza dei casi di Covid-19 ha stimato un effetto pari al 3% per l’incremento di 10 microgrammi/m3 di PM2,5 e PM10, e pari al 9% per l’incremento di 10 microgrammi/m3 di NO2. Ulteriori analisi hanno evidenziato un effetto maggiore in relazione all’età e un ruolo più chiaro degli ossidi di azoto, confermando altri risultati che hanno spinto l’Organizzazione mondiale della sanità a focalizzare l’attenzione in particolare su questo inquinante. I risultati grezzi, che indicavano effetti molto superiori a questi, sono stati ridimensionati dopo aver controllato per un set molto ampio di possibili variabili confondenti relative alla mobilità, le caratteristiche demografiche e territoriali dei 7.903 comuni italiani, il profilo economico-sociale, l’offerta sanitaria e la mobilità locale.

L’analisi della mortalità da Covid-19 in relazione ai livelli di esposizione cronica all’inquinamento ha rilevato effetti molto più marcati nella prima ondata rispetto alle altre due, del 7%, 3% e 6% rispettivamente per ogni incremento di 10 microgrammi di PM2,5, PM10 e NO2. Simili gli effetti sui ricoveri ospedalieri, che - come per la mortalità - vedono una relazione quasi lineare con il crescere dell’esposizione all’inquinamento atmosferico.

Epicovair lancia quindi un segnale di attenzione verso la qualità dell’aria anche in relazione al rischio infettivo, che va ad aggiungersi alla già pesante contabilità sanitaria di polveri e biossido di azoto, responsabili di circa 50mila morti in Italia e 400mila in Europa. Alla presentazione dei risultati tenutasi il 20 giugno all’Istituto superiore di sanità, il presidente Silvio Brusaferro ha sottolineato l’importanza di questo studio anche pensando alla necessità di approcci sempre più integrati nello studio delle pandemie. La presidente dell’Associazione italiana di epidemiologia Carla Ancona ha concluso osservando la coincidenza di questi risultati con la revisione in corso della direttiva europea per la qualità dell’aria, che ha visto la resistenza delle regioni italiane più inquinate ai nuovi limiti proposti dalla Commissione Europea, perché giudicati di difficile raggiungimento per le aree più critiche (ne abbiamo parlato qui). 

Certo fa riflettere che in pieno lockdown, a motori spenti e uffici vuoti, la qualità dell’aria soprattutto in Pianura Padana abbia mantenuto livelli di particolato secondario quasi inalterati a causa dell’inquinamento da ammoniaca degli allevamenti zootecnici, come ha rilevato pochi giorni prima un altro convegno su agricoltura e inquinamento. Bisogna agire su più fronti contemporaneamente per minimizzare il fardello sanitario della mal'aria.

 

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