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Karikó e Weissman: un Nobel al servizio dell’umanità

Il premio Nobel 2023 è stato assegnato a Karikó e Weissman per il contributo alla messa a punto dei vaccini a mRNA contro il Covid. Oltre che la qualità della loro ricerca scientifica, premia anche la loro tenacia, nonostante posizioni lavorative precarie e scarsi finanziamenti. Ma soprattutto premia la capacità di arrivare ad un prodotto utilizzabile su larga scala, che effettivamente ha cambiato l’impatto della pandemia da Covid-19.

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Quando nel 1895 Alfred Nobel decise di istituire quello che ai nostri giorni è il più prestigioso riconoscimento scientifico indicò che i premi annuali sarebbero stati assegnati a coloro che avevano reso i “maggiori servizi all'umanità" e in effetti ogni assegnazione nel campo della medicina, della fisica e della chimica ha marcato pietre miliari nell’avanzamento delle conoscenze scientifiche. Nella maggior parte dei casi tra l’acquisizione di nuove conoscenze e la verifica del “servizio all’umanità” passano molti anni, durante i quali solo gli specialisti dello specifico settore sono in grado di conoscere e apprezzare l’importanza delle nuove acquisizioni e ai più (cioè a noi pubblico generale) va invece spiegato il motivo dell’assegnazione.  Invece quest’anno quando è stato annunciato che l’assegnazione è stata fatta alla biochimica Katalin Karikó e all’immunologo Drew Weissman per il contributo alla messa a punto dei vaccini a RNA messaggero (mRNA) contro Covid-19, non è stato necessario spiegare quale fosse il “servizio all’umanità” di cui tutti noi abbiamo goduto nell’ultimo paio di anni.

La ricerca sui potenziali utilizzi delle molecole di RNA (acido ribonucleico) parte dalla loro scoperta negli anni ’60, nel periodo in cui fu chiarito il meraviglioso processo di sintesi delle proteine guidata dal codice genetico. In particolare fu scoperto che uno specifico filamento di mRNA, costituito da una sequenza di 5 diversi nucleosidi, porta le istruzioni, presenti in un gene nel DNA, per l’assemblaggio di una specifica proteina e viene letto dalle strutture (i ribosomi) che fungono da “officina” per la produzione delle proteine.   Da questa scoperta molti ricercatori hanno effettuato esperimenti e ricerche per capire se, utilizzando particolari mRNA si potessero indurre le nostre cellule a sintetizzare specifiche proteine. I campi di potenziale utilizzo immaginati nel corso degli anni erano la produzione di proteine mancanti o difettose in malattie genetiche, la cura di tumori con la produzione delle proteine espresse dalle cellule tumorali contro cui far scatenare una risposta immune specifica e la produzione di vaccini contro malattie infettive.  Tuttavia le difficoltà oggettive della manipolazione di mRNA e i risultati non soddisfacenti delle sperimentazioni animali indussero molti ricercatori ad abbandonare questo filone e ai finanziatori di minimizzare gli investimenti. La storia dello sviluppo dei vaccini a mRNA si snoda per almeno 50 anni ed è ricca di personaggi e avvenimenti che seguono percorsi non lineari, fatti di battute di arresto e deviazioni spesso finite in un punto morto.

Il premio Nobel 2023 è stato assegnato a Karikó e Weissman , oltre che per la qualità della loro ricerca scientifica, anche per la loro tenacia, nonostante posizioni lavorative precarie e scarsi finanziamenti, e soprattutto per la capacità di arrivare ad un prodotto utilizzabile su larga scala, che effettivamente ha cambiato l’impatto della pandemia da Covid-19.  

Fin dall’inizio degli anni ’90, Katalin Karikó (immigrata ungherese negli USA) si è dedicata al progetto di utilizzare mRNA per istruire le nostre cellule a produrre ciò di cui abbiamo bisogno. Per arrivare a questo traguardo era necessario, tra le altre difficoltà, trovare come costruire le molecole di mRNA e come farle entrare nelle cellule per farle leggere. A proposito di tenacia, viene riportato che nel 1995 l’Università della Pennsylvania, a fronte di numerose domande di finanziamento respinte, le propose di lasciare l’università oppure rimanere con un ruolo demansionato ed uno stipendio ridotto.  Katalin decise di rimanere alle nuove condizioni pur di continuare la sua ricerca.  La biografia di Katalin Karikó descrive le molte difficoltà affrontate (passando da un laboratorio all’altro e alla continua ricerca di finanziamenti per sostenere il suo lavoro) e purtroppo richiama alla mente analoghe situazioni di precariato e frustrazione sperimentate anche in Italia da molti ricercatori nel settore pubblico.  

Nel 1997 iniziò a collaborare con Weissman, anche lui nella stessa università, sul progetto di sviluppare un vaccino contro HIV/AIDS, obiettivo ancora non raggiunto.  I due ricercatori riuscirono a sintetizzare molecole di mRNA, ma negli esperimenti animali l’iniezione provocava una forte reazione immunitaria innata. L’osservazione che altre forme di RNA non inducevano la stessa reazione portò alla differenziazione delle diverse componenti e all’identificazione di cosa potesse essere modificato.

La vera svolta fu la pubblicazione nel 2005 in cui i due ricercatori riportano l’osservazione che la modifica del nucleoside uridina in pseudouridina, nel mRNA dei mammiferi, sopprime la reazione immunitaria innata. In effetti gran parte dei vari tipi di RNA presenti nei mammiferi è modificata, mentre non lo è l’RNA dei batteri, che vengono quindi riconosciuti come estranei e inducono risposte immuni innate.

Nonostante l’importante scoperta che mRNA modificato sfugge all’immunità innata, (motivo che poi è valso il premio Nobel), l’articolo non ebbe particolare risonanza e i finanziamenti pubblici non arrivarono o furono esigui. 

Ad ogni buon conto nel 2007 Karikó e Weissman fondarono la start-up RNARx e la tecnica di modifica del mRNA fu brevettata.  Cercando di promuovere le loro ricerche anche presso aziende farmaceutiche furono notati da due aziende di biotecnologia: Moderna (il cui nome deriva proprio da modified RNA) negli USA e BioNTech in Germania.  Pfizer fece un accordo con BioNTech per finanziare il laboratorio di Weissman. 

Il concetto alla base dello sviluppo di vaccini era che invece di iniettare proteine estratte da un virus, un batterio o un parassita si sarebbe potuto fornire al nostro organismo le istruzioni per produrre noi stessi le proteine contro cui indurre la nostra risposta immunitaria protettiva. 

Le ricerche furono avviate per vaccini contro influenza, citomegalovirus, virus Zika e poi arrivò SARS-CoV-2.

La messa a disposizione in tempi record della sequenza genetica del nuovo virus permise di concentrarsi sul gene virale che codifica per la proteina di superficie Spike. Da quello fu sintetizzato l’mRNA corrispondente, modificato per non attivare le risposte immunitarie innate e per far produrre una proteina stabilizzata nella conformazione di fusione con le cellule del tratto respiratorio umano, cioè nella conformazione utilizzata dal virus per avviare l’infezione.  

Il passo successivo per costruire un vaccino è stato quello di racchiudere il fragile e prezioso mRNA in un involucro lipidico, studiato per veicolarlo dentro le cellule. Sebbene questo passaggio sembri meno rilevante, in realtà la messa a punto delle nanoparticelle lipidiche si è basata su almeno 25 anni di altre ricerche.

I vaccini contro Covid-19 sono arrivati a tempo record e tale tempestività ha sollevato tra i più diffidenti diversi dubbi sul fatto che fossero stati prodotti troppo rapidamente, senza i dovuti approfondimenti. Invece il cammino per arrivare alle fiale a disposizione è stato lungo e complesso, in un percorso in cui si sono sommati i contributi di centinaia di ricercatori.

Il resto della storia è noto: circa 13 miliardi di dosi di vaccini a mRNA somministrate nel mondo e milioni di vite salvate.  In effetti il criterio voluto da Nobel del servizio reso all’umanità questa volta sembra proprio rispettato. 


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