Il premio Nobel per la chimica è andato quest'anno a tre scienziati il cui lavoro si è dedicato ai punti quantici. Ma cosa sono e quali sono le loro applicazioni presenti e potenziali?
Crediti immagine: Argonne National Laboratory/Flickr. Licenza: CC BY-NC-SA 2.0 DEED
Lo scorso mercoledì 4 ottobre è stato assegnato il premio Nobel per la chimica a Moungi G. Bawendi, Alexei I. Ekimov e Louis E. Brus “per la scoperta e la sintesi dei punti quantici”. Questo tipo di tecnologia è davvero molto pervasiva nella nostra vita quotidiana, eppure non rientra fra gli argomenti più pop di cui si sente parlare spesso e persino fra gli “addetti ai lavori”, i quantum dots non sono quasi mai citati quando si parla di nanotecnologie. Questo Nobel ha avuto quindi il merito di focalizzare l’attenzione su questo specifico campo delle nanotecnologie che sfrutta le leggi della meccanica quantistica, tanto spessa relegata dall’immaginario pubblico quasi nella sfera del soprannaturale, per dare risultati molto concreti e tangibili e che utilizziamo quotidianamente, per esempio accendendo un televisore.
I nano dots sono nanoparticelle di dimensioni estremamente ridotte, circa 5 nm o meno, che quindi riescono a risentire nelle loro proprietà degli effetti quantistici. Le caratteristiche chimico-fisiche di un materiale dipendono soprattutto dalla struttura cristallina (o non cristallina) con cui si dispongono gli atomi e le molecole che lo compongono. Se parliamo di nanotecnologie, e quindi di dimensioni dell’ordine dei nanometri, le caratteristiche chimico-fisiche di un dato materiale possono differire rispetto a quelle dello stesso materiale di dimensioni maggiori, in particolare a causa del rapporto fra l’ampia superficie e il volume ridotto. Diminuendo le dimensioni e arrivando a una scala minore di 10 nm, fino a 5 nm o meno, intervengono effetti quantistici dovuti al fatto che la funzione d’onda degli elettroni delle molecole che compongono la nanoparticella ha una lunghezza d’onda paragonabile alle dimensioni della particella stessa. Questo fa sì che gli stati energetici degli elettroni dipendano dalle dimensioni, perché in un certo senso questi elettroni, che sono sia particelle che onde, vengono più o meno schiacciati man mano che le dimensioni diminuiscono. In termini pratici, si traduce nella variazione di alcune caratteristiche di questa particella, dal colore alla temperatura di fusione al potenziale di ossidoriduzione.
Questo tipo di comportamento si è rivelato estremamente utile in molti campi d’applicazione, come per esempio le telecomunicazioni, la sensoristica, la biomedicina e molto altro. Nel 2021 il mercato dei quantum dots era di 4,1 miliardi di dollari e si stima che raddoppierà, arrivando a 8,6 miliardi nel 2026, soprattutto se si investe in nanoparticelle non al cadmio, che finora ha rappresentato il principale componente delle tecnologie basate sui quantum dots, in particolare nei display, in favore di alternative più sostenibili.
Dalla teoria alla pratica: la strada verso il Nobel
Il primo a ipotizzare che le proprietà di un materiale potessero dipendere dalle dimensioni delle particelle fu Herbert Fröhlich nel 1937. Fröhlich sottolineò che il modello a elettroni liberi, un modello utilizzato nella fisica dello stato solido per studiare il comportamento degli elettroni nei metalli, dava risultati diversi a seconda che si considerassero delle particelle molto piccole o dei materiali di grandi dimensioni, e che questi cambiamenti si manifestassero sotto forma di effetti visibili. Stimò comunque che per ottenere questo si dovesse arrivare a particelle di dimensioni inferiori ai 10 nm, cosa che, a quei tempi, era possibile solo nella teoria.
Questi studi furono ritenuti interessanti e nei decenni successivi i fisici dello stato solido li approfondirono, sempre però rimanendo a un livello puramente teorico, fino agli anni 60, quando l’interesse per l’elettronica, e in particolare per micro e nano film, fece in modo che si cercasse di applicare questa teoria anche alla pratica, nell’idea di poter sviluppare nuove tecnologie. In particolare, furono osservati effetti quantistici in microfilm, tanto che negli anni 80 le osservazioni sperimentali di questi fenomeni erano ormai un dato di fatto scientifico. Per passare però alle applicazioni nelle nanotecnologie su necessario dapprima passare per un contesto diverso e cioè quello della scienza dei vetri colorati.
Storicamente, era risaputo dai produttori di vetro che droganti come oro, argento, cadmio, zolfo e selenio potevano essere utilizzati per modificare le proprietà ottiche del vetro. Nel 1979 Alexei Ekimov iniziò a lavorare sui vetri drogati per poterne studiare approfonditamente la struttura e in particolare la struttura colloidale caratteristica dei vetri colorati, così come il meccanismo di crescita di queste particelle. Con i suoi collaboratori si accorse che le proprietà ottiche di questi vetri silicei addizionati con rame e cloro subivano delle variazioni in base alla temperatura in seguito alla formazione di sottili film di cloruro di rame e che inoltre sempre controllando la temperatura erano in grado di formare piccoli cristalli della stessa sostanza la cui grandezza variava in base alla temperatura. Ekimov attribuì queste proprietà agli effetti quantistici di cui si era teorizzato nei decenni precedenti.
Fu solo successivamente, nel 1983, però, che prove dello stesso tipo furono rilevate in nanoparticelle colloidali al di fuori dei vetri colorati, proprio da Louis Brus, che entra così nella storia dei quantum dots, il quale aggiunse alla lista degli effetti quantistici oltre al colore anche il potenziale redox.
Il problema principale per far sì che si potesse passare da un fenomeno puramente di laboratorio a una tecnologia che potesse effettivamente essere usata su larga scala era la difficoltà nel sintetizzare nanoparticelle delle dimensioni giuste e che fossero sufficientemente omogenee per poter osservare queste proprietà. Infine, fu il terzo dei Nobel, Moungi Bawendi, a implementare negli anni 90 una sintesi che fosse non solo efficace ma anche riproducibile su larga scala, utilizzando solventi opportuni e uno stretto controllo delle condizioni di reazione, in particolare la temperatura, di modo che regolando questo parametro si potesse ottenere nanoparticelle delle dimensioni desiderate. Il metodo di sintesi messo a punto da Bawendi ha aperto le porte a un utilizzo esteso della tecnologia basata sui quantum dots.
Applicazioni presenti e future
Sicuramente fra le proprietà più utilizzate per le tecnologie basate qui quantum dots c’è la loro possibilità di cambiare colore variando la dimensione della particella. Questo è alla base del loro utilizzo, per esempio, nei dispositivi elettronici e nei display, come i televisori QLED (dove Q sta appunto per quantum) e negli schermi di tablet e smartphone. Per lo stesso motivo sono largamente utilizzati come biosensori e biomarcatori in campo medico e diagnostico, in particolare per tecniche di imaging. Modificando la particella con particolari molecole compatibili con un certo target, come per esempio una specifica proteina, si riesce infatti a ottenere un’immagine di fluorescenza molto vivida, grazie alla capacità di assorbimento particolarmente ampia che hanno queste tecnologie.
Materiali di questo tipo a base di grafene, inoltre, si stanno rivelando molto utili nel campo della biomedicina, e nello specifico come delivery di farmaci. Sono solubili in acqua e inoltre le dimensioni ridotte permettono loro di attraversare le principali barriere biologiche e, opportunamente modificati, sono in grado di penetrare anche la barriera ematoencefalica, rivelandosi quindi particolarmente utili come nanocarrier di farmaci specifici, ad esempio, per malattie neurodegenerative come l’Alzheimer. Altre possibili applicazioni dei quantum dots a base di grafene si ritrovano nelle terapie contro il diabete mellito, nella radioterapia, nella lotta alla resistenza multifarmaco e altre ancora.
Il loro potenziale accumulo di energia elettrochimica grazie alla loro ampia area superficiale specifica, dimensione regolabile, breve percorso di trasporto di ioni/elettroni, non tossicità, basso costo, fotoluminescenza regolabile e facile funzionalizzazione della superficie ha inoltre aperto la strada al possibile utilizzo dei nano dots nel campo delle energie rinnovabili e in particolare nello stoccaggio e nella conversione di energia solare. Le dimensioni ridotte e l’ampia area superficiale li rendono adatti come materiali utilizzabili negli elettrodi delle batterie Litio-Zolfo, mentre la capacità di accumulare grandi quantità di carica fa si che siano interessanti da utilizzare nei super condensatori o ancora nel processo fotocatalitico di conversione dell’acqua in idrogeno tramite l’energia solare.
Insomma, le applicazioni, presenti o future, già accertate o forse possibili, dei quantum dots sono molteplici e spaziano in campi anche molto diversi fra loro, dalla medicina pura ai dispositivi che quotidianamente utilizziamo per guardare una serie tv o un film. Quando si parla di meccanica quantistica, troppo spesso si tralasciano gli aspetti più pratici per entrare nel campo del teorico, persino del filosofico, ma i quantum dots sono la dimostrazione che anche aspetti della scienza apparentemente senza alcun fine pratico possono invece essere determinanti nello sviluppo di nuove tecnologie all’avanguardia. E valere un Nobel.