fbpx Investimenti globali: economia più democratica | Scienza in rete

L’economia globale deve diventare più democratica

Partendo da quanto indicato nel rapporto Time for Global Public Investment, percorriamo le modifiche che si dovrebbero apportare all'economia mondiale per maggiori benefici diffusi. Dall'unione fiscale globale a una tassa sui patrimoni, da una struttura più partecipata a investimenti pubblici più massicci.

Foto di Aedrian su Unsplash

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Con l’avvio della COP28, tornano sotto i riflettori i temi della finanza climatica e dell’economia globale. Esistono tra le varie cose una serie di fondi internazionali per coprire questa o quella spesa, dal Green Climate Fund al Loss and Damage e altri. Oggi spendiamo circa 1100 miliardi di dollari all’anno per il clima. Dovremmo spenderne tre volte tanto, secondo le stime internazionali, come scrive Carlo Carraro su Foresight. Che aggiunge come gran parte di questi finanziamenti siano usati nei paesi ricchi, creando una forte disomogeneità con quelli poveri, che ne hanno ancora più bisogno, sia perché tecnologicamente meno sviluppati, sia perché più esposti agli impatti della crisi climatica.

Come ci aveva spiegato Enrico Giovannini in questo podcast, lo sviluppo sostenibile, di cui la transizione ecologica è la principale protagonista, deve accelerare i suoi passi. Si pensi alla trasformazione che il mercato del lavoro deve compiere: l’Agenzia internazionale per l’energia stima una crescita netta di occupazione per la transizione, che però deve trasformare i mestieri fossili in mestieri rinnovabili, per dirla facile. Per farlo servono quindi investimenti in formazione e in tecnologia, per esempio.

Investimenti: spendere oggi per guadagnare in futuro

Un nutrito gruppo di esperti ed esperte in campo economico, tra cui Mariana Mazzucato e Thomas Piketty, ha scritto un rapporto intitolato Time for Global Public Investment, tempo per investimenti pubblici globali. Il lavoro è frutto della collaborazione tra il Global Public Investment Network e il Global Nation and Development Initiatives.

Lo slogan di fondo del rapporto è riassunto in “all benefit, all contribute, all decide”, che si traduce in un approccio di mutualità, non più top-down e senza il “paternalismo” economico tra donatore e beneficiario tipico dell’attuale sistema finanziario.

Le ricette che propongono questi studiosi partono dal presupposto che oggi siamo di fronte a problemi su scala globale, come appunto i cambiamenti climatici, ma anche la pandemia e altro, che hanno impatti diversificati su scala regionale. Di conseguenza, serve ripensare l’assetto economico globale tenendo conto di questo, con inevitabili ricadute anche sul sistema politico globale.

Innanzitutto, serve che tutti contribuiscano in funzione delle loro disponibilità e usando varie tipologie di strumenti finanziari. Tra quelli elencati, ci sono i classici contributi diretti dei singoli Paesi, le imposte transnazionali, le tasse sul patrimonio, la cancellazione del debito, le obbligazioni globali e l’uso dei diritti speciali di prelievo. Questi ultimi sono una valuta internazionale diversa dal dollaro, caratteristica della riserva globale del Fondo Monetario Internazionale, che si basa su un paniere di valute che condensa il valore del dollaro, dell’euro, del renminbi cinese, dello yen giapponese e della sterlina.

Salta all’occhio, tra questi, la cancellazione del debito. Il concetto alla base dell'uso dei debiti statali è che non sono da considerare come i debiti dei privati (individui, famiglie, aziende, …). Per fronteggiare la pandemia, evitare che si ammalassero milioni di persone in più, vaccinare e aiutare più gente possibile, in Europa è stato infatti sospeso il Patto di stabilità che imponeva il rispetto di due soglie – i rapporti deficit/pil e debito/pil – fissate più o meno arbitrariamente. Non farlo, sarebbe stato deleterio per il benessere di tutta la società. In questi mesi in cui si discute il modo in cui ripristinare il Patto, è essenziale che si modifichino certe regole troppo rigide e dare la possibilità agli Stati di indebitarsi nel caso in cui debbano fare massicci investimenti sul futuro, che garantiscono quindi anche un ritorno economico. Anche di questo avevamo parlato con Giovannini e, per altro, anche Mario Draghi lo aveva detto durante la pandemia.

Nel documento gli esperti scrivono, per l’appunto, che è proprio l’attuale «colonialismo economico» a produrre disparità finanziare tra paesi, anche per quanto riguarda i debiti pubblici.

Nell'ultimo decennio il debito è più che raddoppiato, raggiungendo gli 11.300 miliardi di dollari. Nel 2022, i Paesi in via di sviluppo spendevano il 19,3% delle entrate statali per servire il debito. Il nostro indebitamento non è casuale: siamo stati creati dal sistema per essere indebitati. La cancellazione del debito è necessaria per correggere le ingiustizie storiche del colonialismo, che hanno portato allo sfruttamento economico, alla disuguaglianza e all'accumulo di debito nei Paesi in via di sviluppo.

Degan Ali, dal rapporto Time for GPI

Il rapporto scrive che il denaro usato per fare investimenti globali deve essere pubblico, non che privato non serva, serve eccome, ma non si deve rinunciare ai fondi pubblici. Perché? Perché gli investimenti privati hanno per natura lo scopo primario di un ritorno economico immediato, quelli pubblici no. Si pensi alla spesa in ricerca di base, che serve innanzitutto a produrre nuova conoscenza, e che dà frutti solo dopo molti anni e in settori di cui neanche immaginavamo l’esistenza, come tutto quello che è stato alla base della scienza dei transistor per gli attuali dispositivi elettronici. O si pensi a settori come la sanità pubblica e la scuola: «entrambi tendono ad avere elevate "esternalità" positive che vanno a beneficio della società più che del singolo investitore o beneficiario». Entrambe fanno parte dei cosiddetti public goods o merit goods, beni pubblici e beni di merito: «gran parte degli investimenti necessari per raggiungere gli SDG rientra in una di queste due categorie», ecco perché i governi devono spendere di più di quanto facciano oggi.

Gli autori fanno notare, da questo punto di vista, che la campagna vaccinale durante Covid-19 avrebbe potuto essere organizzata ancora meglio dal punto di vista politico-economico. Lo scopo doveva essere più incentrato sul “vaccinare il mondo” piuttosto che sul “produrre vaccini”. Non è un gioco di parole, ma la differenza tra una dimensione sociale e una più aziendale.

È stata prestata troppa poca attenzione all'incorporazione di un obiettivo comune - la vaccinazione globale - nella progettazione della collaborazione e dell'innovazione tra operatori pubblici e privati. Se l'obiettivo fosse stato la vaccinazione globale, sarebbe stato necessario prestare molta più attenzione alla progettazione di diritti di proprietà intellettuale che fossero meno estrattivi e alla garanzia che i fondi pubblici forniti nella fase iniziale fossero condizionati alla condivisione delle conoscenze e all'accesso equo.

Unione fiscale

Tra gli strumenti economici proposti dal rapporto, abbiamo elencato anche una tassa sui patrimoni.

Una tassa globale e progressiva sui patrimoni, fissata al 2% al di sopra dei 10 milioni, al 3% al di sopra dei 100 milioni e al 5% al di sopra di 1 miliardo, raccoglierebbe ogni anno quasi il 2% del PIL mondiale (2000 miliardi).

Secondo gli autori, serve una tassa come questa perché la ricchezza dei singoli dipende anche dal contesto in cui sono inseriti nel sistema economico mondiale, non solo dal loro merito individuale. Attualmente il sistema produce una crescita economica non equilibrata, con picchi e cadute, e non equamente diffusa a livello geografico e a livello di classe sociale, come affermava Keynes tempo fa.

L’idea di una tassa simile, nei confronti dei paradisi fiscali e delle società multinazionali, è stata presa in considerazione dall'OCSE e prevede un'aliquota minima del 15%. Non sarebbe però sufficientemente equa per il Sud del mondo, che avrebbe benefici solo per il 5% delle attuali proposte. Si segnala al proposito il commento critico di luglio di Joseph Stiglitz con Tommaso Faccio.

Al riguardo, molto importante è stata la recente risoluzione Promotion of inclusive and effective international tax cooperation at the United Nations della Commissione economia e finanza delle Nazioni Unite che prevede la creazione di un’unione fiscale globale. Si legge nel testo – approvato con 125 favorevoli, 48 contrari e 9 astensioni – che questa unione aiuterebbe a rafforzare la cooperazione internazionale e aiuterebbe la realizzazione dell’Agenda 2030. Si prevede di «istituire un comitato intergovernativo ad hoc aperto, guidato dagli Stati membri, allo scopo di redigere i termini di riferimento per una convenzione quadro delle Nazioni Unite sulla cooperazione fiscale internazionale». Il lavoro deve finalizzarsi entro agosto 2024. L’impegno vuole anche che, durante l’elaborazione della convezione quadro, si sviluppino già i primi protocolli «su questioni prioritarie specifiche, come le misure contro i flussi finanziari illeciti di natura fiscale e la tassazione dei redditi derivanti dalla fornitura di servizi transfrontalieri in un'economia sempre più digitalizzata e globalizzata».

La proposta è partita dall’Unione Africana. Tra i contrari il grosso dei membri dell’OCSE – cioè Stati Uniti, Giappone, Canada e Regno Unito – e quindi dell’Unione Europea tra cui l’Italia. Quando il gruppo dei paesi africani ha presentato la bozza, il rappresentante della Nigeria ha detto come questa sia un «faro di speranza» per l’attuazione dell’Agenda 2063 dell’Unione Africana e dell’Agenda 2030.

La contrarietà dell’Europa è in contraddizione con quanto detto dal Parlamento Europeo in due risoluzioni sul tema. Una è quella del giugno 2023 sulle «lezioni apprese dai Pandora Papers», in cui si afferma che l’Europarlamento

invita l'UE a sostenere l'istituzione di una convenzione quadro delle Nazioni Unite in materia fiscale, con l'obiettivo di rafforzare la cooperazione e la governance internazionale in materia di flussi finanziari illeciti di natura fiscale e commerciale; sottolinea la necessità di introdurre un processo decisionale trasparente e inclusivo, in cui tutti i Paesi possano negoziare da pari a pari.

L’altra è quella di luglio 2022 in cui l’Eurooparlamento

Rileva con grande preoccupazione la frammentazione delle aliquote nazionali dell'imposta sulle società all'interno dell'UE, che può avere un effetto distorsivo sul mercato unico e danneggiare l'economia dell'UE.

[…]

Afferma che le attuali norme fiscali internazionali sono in gran parte obsolete e non sono in grado di affrontare la crescente digitalizzazione dell'economia e di frenare efficacemente l'evasione e l'elusione fiscale; sottolinea l'urgente necessità di riformare le norme attraverso l'adozione dell'accordo fiscale globale OCSE/G20, per garantire che i sistemi fiscali internazionali, dell'UE e nazionali siano adatti alle nuove sfide economiche, sociali e tecnologiche del XXI secolo.

Come segnala l’International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ), prima dell’approvazione alle Nazioni Unite, un gruppo di ministri delle finanze europei ha detto che quella convenzione fiscale avrebbe rischiato di duplicare gli sforzi condotti dall'OCSE. Però sono proprio quattro paesi OCSE, Regno Unito, Paesi Bassi, Lussemburgo e Svizzera, secondo le indagini dell’ICIJ, a essere tra i maggiori responsabili di perdita di denaro pubblico grazie all’elusione fiscale. I Paradise Papers hanno rivelato «le manovre fiscali di oltre 100 società, tra cui Nike e Apple, che hanno spostato i profitti in tutto il mondo per accumulare 252 miliardi di dollari offshore». A causa dell’elusione fiscale si potranno perdere fino a 4800 miliardi di dollari di gettito fiscale nei prossimi dieci anni.

Più democrazia

Il sistema di investimenti globali proposto dagli esperti prevede il superamento “dei confini” nazionali e una rappresentanza più equa della società civile per «una maggiore legittimità ed efficacia nella determinazione delle priorità e delle strategie di investimento e una migliore responsabilità».

Nella finanza pubblica, lo Stato tassa, spende e prende a prestito per garantire i risultati che i mercati non riescono a raggiungere, soggetto al vincolo di bilancio imposto dalla geografia su cui è sovrano.

[…]

I vincoli svaniscono se si eliminano i confini nazionali. Non ci sarebbe commercio "esterno" e un approccio globale fornirebbe risultati di pubblica utilità superiori a quelli di un approccio limitato dai confini geografici.

Potrebbe sembrare una provocazione ma rafforzare gli organismi sovranazionali è un tema non nuovo, a partire dalla necessaria riforma del Consiglio di Sicurezza ONU che, tra i vari limiti, vede una sovra rappresentazione dei paesi occidentali. Il dibattito è emerso soprattutto in relazione all’apparente incapacità di intervento nelle guerre in Ucraina e Israelo-Palestinese. A tal proposito ricordiamo ancora una volta dell’esistenza della petizione per istituire un’assemblea parlamentare globale eletta da tutti e con potere legislativo, come avevamo scritto in questo articolo. I modelli sono i già citati Parlamenti dell’Unione Africana e Europeo.

A tal proposito, il documento, pur scritto da esperti di tutto il mondo, pone l’attenzione sulle prossime elezioni europee del 2024, che «rappresentano un'opportunità e una necessità di aprire nuove strade per il resto di questo decennio». Si riconosce anche che

L’Unione Europea offre un esempio regionale di policymaking credibile e legittimo, adottando una visione paneuropea che può superare sfide politiche radicate, altrimenti non affrontabili dai singoli Stati membri. L'UE è quindi adatta a catalizzare il potenziale del Global Public Investment per superare l'arretratezza delle riforme di un sistema multilaterale che è intrappolato in rigide dipendenze dal percorso di riforme incrementali, come le istituzioni di Bretton Woods o il sistema delle Nazioni Unite.

Il Parlamento Europeo detiene il potere legislativo dell’Unione, assieme al Consiglio dei ministri europeo (Consiglio dell’Unione Europea), ma, come noto, non ha iniziativa legislativa. È infatti solo la Commissione a poter proporre nuovi atti legislativi che poi gli altri organi modificano e approvano.

È notizia di fine novembre 2023 l’approvazione della proposta del Parlamento al Consiglio di modifica dei Trattati per una riforma che lo doti di piena iniziativa legislativa e di più strumenti di democrazia partecipativa per i cittadini europei. Quindi, propone di trasformare il sistema in senso più bicamerale superando il voto per unanimità del Consiglio, usando di più la maggioranza semplice e qualificata. In aggiunta, chiede di modificare la composizione della Commissione a soli quindici commissari, rinominandola “Esecutivo europeo” e con Presidente di nomina del Parlamento e non del Consiglio.

La proposta di modifica dei Trattati europei va sicuramente nella direzione indicata dal rapporto Time for Global Public Investment, in quanto a maggiore partecipazione e democrazia. Può essere utile sapere che il testo è stato approvato con 360 voti favorevoli, 229 contrari e 22 astenuti; i gruppi favorevoli sono tutti quelli progressisti – Renew, S&D, The Left, Verdi – mentre i contrari i conservatori – ECR e ID – con il Partito Popolare spaccato in due, con una prevalenza di contrari.

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