"Il viaggio della tartaruga" del biologo e divulgatore Carl Safina (pubblicato in Italia da Adelphi) ci porta in giro per i tre Oceani alla scoperta della più antica tartaruga vivente, la tartaruga liuto, delle tante minacce che incombono sulla sua presenza, e dell'importanza della conservazione per salvarle dall'estinzione. Ne abbiamo parlato in questo articolo con l'autore
Una piccola tartaruga liuto avanza verso l'oceano. Foto di Max Gotts su Unsplash
Secondo una leggenda dei nativi nordamericani, il nostro pianeta era un tempo interamente coperto d’acqua. Quando un Signore del cielo sradicò un albero, la moglie si sporse curiosa a guardare le stelle, cadendo. Gli animali aiutarono la dea perché non si facesse male: strolaghe e anatre accompagnarono la sua discesa, e la posarono sul guscio di una tartaruga. Castori, lontre e topi muschiati coprirono con la terra presa dal fondo dei mari il carapace, per fare riposare la signora del cielo in modo confortevole. La terra si espanse, si formarono montagne, foreste e fiumi. La dea si svegliò e benedì il mondo, che altro non è, quindi, che una grande tartaruga che galleggia sul mare.
Esistono sette specie di tartarughe marine, fatta eccezione per una, sono tutte a rischio di estinzione. Tutte per cause umane. Alla più antica e grande di tutte, la tartaruga liuto, a chi la studia e soprattutto ai suoi tanti misteri è dedicato Il viaggio della tartaruga, avvincente saggio di Carl Safina pubblicato da Adelphi nella collana Animalia.
La tartaruga liuto deve il suo nome scientifico, Dermochelis coriacea, al fatto che l’intero corpo è ricoperto da uno spesso strato di pelle nero-bluastra punteggiata di bianco. Non ha quindi il classico carapace (quello che è volgarmente detto guscio) duro delle tartarughe, ma una serie di ossa morbide, tenute insieme da questa pelle spessa come cuoio, che formano sette creste longitudinali, che l’aiutano a essere idrodinamica e ad affrontare la sua perenne migrazione. Le liuto infatti depongono le uova su spiagge calde, ma si spingono nei freddi mari nordici per cibarsi di meduse. Le tartarughe liuto, scrive Safina, sono animali per cui “i superlativi si sprecano”: sono le tartarughe più grandi e pesanti (possono superare i due metri di lunghezza e arrivare a quasi una tonnellata di peso), nuotano velocissime, compiono migrazioni eccezionali, tollerano le acque fredde, prossime allo zero (il che per un rettile è complicato) e si immergono a profondità di oltre 1200 m, comparabili solo a quelle raggiunte dagli immensi capodogli. Ah, sono anche le tartarughe con il più ampio areale: sono presenti in tutti e tre gli Oceani: Atlantico, Pacifico e Indiano.
La conservazione funziona, se si fa
La luce, insieme allo sviluppo turistico delle spiagge è uno dei più grossi problemi delle tartarughe. Le neonate, infatti devono affrontare la spiaggia per arrivare al mare, faticando non poco e sperando di non finire nel becco di gabbiani e compagnia che si radunano alla schiusa per pasteggiare. Si spostano verso le acque faticando, spesso restando intrappolate da rifiuti plastici lasciati lì o portati a riva dalle onde. A guidarle, il chiarore del mare, naturalmente sempre più luminoso dell’entroterra…prima dell’invenzione delle luci artificiali. Luci che disorientano le minuscole tartarughine, che seguono la luce finendo su strade, piscine, parchi, o restano in spiaggia a girare su se stesse, rendendo molto facile il gioco ai loro predatori. Ma l’effetto è reversibile, come ci racconta nel suo libro Safina, la conservazione e la tutela partecipata possono davvero fare la differenza: «Sono stato a Trinidad per vedere le tartarughe liuto e come le persone proteggono i loro nidi. Un tempo uccidevano le tartarughe per la carne, e scavavano molti dei loro nidi per prendere le uova. Ma il lavoro di conservazione è stato molto, molto efficace negli ultimi 25 anni. Ora a Trinidad ci sono molte più liuto di quante ce ne fossero prima. A volte, di notte, le spiagge sono davvero affollate! Prima, se si camminava su e giù per la spiaggia, forse se ne trovavano una o due, mentre ora alcuni punti sono davvero gremiti» racconta Safina.
In Florida, tra le spiagge zeppe di turisti e le coste industrializzate, c’è chi si batte per le tartarughe e cerca di aiutarle a riprodursi e a riguadagnare il mare. Sono tante, le ong che lavorano per le tartarughe. E tante le persone che volontariamente vanno sulle spiagge per aiutarle, mettono in sicurezza i nidi perché non vengano distrutti, sorvegliano le spiagge perché non arrivino i bracconieri, raccolgono la plastica. A Boca Raton, gli sforzi dei conservazionisti sono stati premiati: hanno ottenuto una illuminazione a led da terra, che ha permesso di azzerare gli impatti dell’inquinamento luminoso. Il libro di Safina è pieno di queste storie di ostinate lotte per la tutela delle tartarughe, e di successi ottenuti. Nella Carolina del Sud, per esempio, incontra la zoologa Sally Murphy, che per oltre vent’anni si è battuta per proteggere le tartarughe dall’annegamento nelle reti da pesca per gamberi. Scontrandosi con una lobby per niente incline al cambiamento, l’industria della pesca, la ricercatrice ha infine ottenuto l’utilizzo delle TED, turtle excluder devices, reti da pesca studiate per consentire alle tartarughe di scappare, senza però intaccare l’efficacia della pesca di crostacei.
Colonialismo e estinzioni
«I problemi delle tartarughe sono stati causati dagli occidentali, dai discendenti degli europei. Non dai nativi o dalle popolazioni indigene», spiega Safina. Le tartarughe sono animali venerati sin dagli albori delle nostre civiltà, seppur consumate e usate come ornamento. Forse i carapaci delle tartarughe sono stati tra le prime monete di scambio, nelle Americhe come nell’Oceano Indiano. Ma la loro disgrazia è stato l’arrivo dei coloni europei. Safina ci racconta che Cristoforo Colombo riportava nei suoi scritti di mari “densi di tartarughe”. Le isole che oggi si chiamano Cayman, vennero chiamate Las Tortugas, a indicare l’elevata quantità di tartarughe marine che vi nidificavano. Massacrate dai coloni, golosi delle loro carni e uova, nonché delle potenzialità commerciali. Nel 1711, ci fu un tentativo di arrestare il declino (ci si era accorti di star terminando la ricca risorsa), con una legge che ne regolamentava il prelievo, poco rispettata. Oggi le tartarughe dei Caraibi sono il 5% di quelle originarie. Se nell'Atlantico la situazione per le tartarughe è molto migliorata rispetto a una trentina di anni fa, nel Pacifico ci sono ancora grossi problemi: qui, dal 1980 ad oggi, le tartarughe liuto sono diminuite dell'80%.
«Il successo delle azioni di conservazione nell’Atlantico sta nel fatto che oggi c’è un nuovo desiderio di coesistenza. Le persone sono state efficacemente "educate", anche se non mi piace questo termine, credo che sia quello giusto. Le tartarughe gli piacciono, vogliono continuare ad averle intorno, e non vogliono far loro del male senza una buona ragione» commenta Safina. «Nel Pacifico è un po' diverso, ma è anche molto simile. Le persone che danneggiano le tartarughe nel Pacifico, nell'America Centrale, sono anche loro discendenti degli europei. Non sono i nativi. In effetti, in Messico, c'è un gruppo di nativi che, come si legge nel libro, letteralmente adora la tartaruga liuto. E, certamente, il problema non si pone in alcun modo con loro. Nel Pacifico occidentale le popolazioni asiatiche fanno ormai parte dell'economia globale. Quindi, anche lì i problemi hanno a che fare con la troppa gente, l'eccessivo sviluppo delle spiagge, l'illuminazione eccessiva e con l'escavazione dei nidi per le uova di cui cibarsi. L'idea che le tartarughe sono preziose e che devono essere protette non è stata recepita così profondamente».
Il puro valore dell’esistenza
Insomma, in questo mondo così alterato dall’azione antropica, sperare di ritornare a quei mari pullulanti di tartarughe, è un’utopia. Ma molto possiamo fare perché non spariscano tra i flutti, falciate dall’elica di una nave, annegate tra le reti o soffocate da un sacchetto di plastica scambiato per una medusa. I libri di Safina trasmettono l’immenso amore e fascinazione che l’autore prova per il mondo animale, le sue parole ti trascinano nei luoghi che visita e ti portano a sperare di poter cambiare le cose. Può l’empatia per gli altri viventi aiutarci a invertire la sesta estinzione di massa, quella che stiamo causando? Risponde Safina: «ci sono molte persone che dimostrano che è possibile dare valore all’esistenza di tartarughe e altri esseri viventi di ogni tipo, lasciargli i loro spazi, e rendersi conto che la loro rilevanza non è determinata dalle opinioni della gente. E siamo in molti a pensarla così. Il problema è che, in questo momento, la maggior parte delle persone non sa o non si preoccupa di queste cose e non è un grande argomento di conversazione. Non sembra urgente per la maggior parte della gente. Quindi l’empatia aiuta a tutelare gli animali? Credo che molti di noi dimostrino che è possibile. È sufficiente? In questo momento non è chiaramente abbastanza per molte specie. Ma come ho detto, per la tartaruga liuto, in particolare nell'Atlantico, è sufficiente perché si sta riprendendo. Ci sono molte più tartarughe marine nell'Atlantico, molte più di quante ce ne fossero trent’anni fa, perché un numero sufficiente di persone si è preoccupato di apportare i cambiamenti necessari perché ciò accadesse».
Preoccuparci di quello che sta succedendo alle tante specie che vivono il pianeta e che stanno scomparendo per nostra mano, o che per un soffio non sono scomparse è dunque fondamentale. Se ci interessiamo davvero a un problema, se siamo massa critica, possiamo fare la differenza. «Più le persone hanno ottenuto e fatto ciò che volevano, più gli animali sono diminuiti di numero e si sono estinti. Io penso che tutto ciò sia lontano dall'idea che noi abbiamo bisogno di loro» commenta Carl Safina. «La maggior parte di ciò che vogliamo, in realtà è un male per le altre specie. E questo non importa alle persone. Allora in realtà il punto sta nel fatto che non abbiamo bisogno della maggior parte delle specie di uccelli selvatici. Non abbiamo bisogno della maggior parte delle specie di mammiferi selvatici, o degli anfibi, o dei rettili, e così via. Ma a questo punto della storia, loro hanno bisogno di noi o non esisteranno. E quello di cui hanno bisogno è che ci prendiamo cura di loro e che lasciamo loro spazio per vivere. Non è una questione pratica. È una questione di principi morali. Non credo che spetti a noi dire che le creature che sono nate su questo pianeta abbiano un determinato valore o meno. Penso che la loro esistenza le renda a prescindere preziose e che quindi dovremmo dare valore a questa esistenza. E penso che, nella misura in cui non lo facciamo, ciò dimostra che siamo una specie intellettualmente immatura ed emotivamente impoverita, e che se fossimo più saggi, se pensassimo più profondamente, se comprendessimo meglio le nostre connessioni spirituali e la nostra relazione organica con il resto della vita sulla terra, non ci sarebbe da chiedersi se vorremmo assicurarci che tutto ciò che è sulla terra abbia spazio per rimanere sulla terra e esistere».