fbpx La povera innocenza della gente, calpestata dalla guerra | Scienza in rete

La povera innocenza della gente, calpestata dalla guerra

In primo piano i rottami arrugginiti di un carrarmato, con i cingoli in evidenza; sullo sfondo rovine di abitazioni devastate dalla guerra

La guerra incide in modo profondo sulla salute delle popolazioni. Non solo aumenta l’esposizione ai rischi, ma anche indebolisce, a volte sino alla distruzione, i fattori di protezione, come le reti comunitarie, l’approvvigionamento idrico sicuro, i comportamenti positivi per la ricerca della salute, la stabilità sociale. Le prime vittime sono donne e bambini. Pubblichiamo un estratto del saggio Il cronico trauma della guerra. Donne e bambini le prime vittime (Il Pensiero Scientifico Editore) di Maurizio Bonati, di prossima pubblicazione.

Crediti immagine: Freepik

Tempo di lettura: 17 mins

Una rappresentazione corale, che delle guerre descrive le terribili ricadute sulla salute, sulla vita e sul futuro delle persone e dei Paesi. E in cui ai dati, numerosi e solidi, si affiancano i vissuti, nella lettura che ne hanno dato scrittori, artisti, teatranti, filosofi, cantanti, testimoni e operatori di pace. Su Scienza in rete un’anticipazione del libro di Maurizio Bonati Il cronico trauma della guerra, dal 2 maggio in libreria.

La guerra come determinante di salute

I determinanti sociali della salute sono le condizioni in cui le persone nascono, crescono, lavorano, vivono e invecchiano, i sistemi messi in atto per affrontare la malattia e l’insieme più ampio di azioni che plasmano le condizioni della vita quotidiana. Includono politiche e sistemi economici, programmi di sviluppo, norme sociali, politiche sociali e strutture politiche. I determinanti sociali della salute sono importanti perché affrontarli non solo aiuta a prevenire le malattie, ma promuove anche una vita sana e l’equità sociale.

[…] Ci sono enormi disuguaglianze nel garantire il diritto alla salute a tutti, sia tra nazioni che all’interno dello stesso Paese. […].

Disuguaglianze che si associano all’organizzazione politico-sociale di un Paese. L’indice di democrazia è un indice sintetico (con tutti i limiti sui criteri di classificazione e l’accuratezza delle stime delle variabili considerate) che contempla il processo elettorale e il pluralismo, il funzionamento del governo, la partecipazione politica, la cultura politica e le libertà civili di un Paese; diventa quindi un potenziale indicatore da associare allo stato di salute di una popolazione. L’ampio intervallo dei valori tra la “democrazia completa” dei pochi, con a capo la Norvegia, passando alle “democrazie imperfette”, quindi ai “regimi ibridi” per arrivare alle 59 nazioni classificate come “regimi autoritari” (ultimo classificato l’Afghanistan) sottolinea quanto l’affermazione della democrazia sia ancora lontana da raggiungere per troppi Paesi. L’indice di democrazia può quindi rappresentare un utile determinante strutturale associato alla disuguale distribuzione della salute all’interno della popolazione. Non basta quindi prendere in considerazione i determinanti della salute, ma occorre esaminare anche i determinanti delle disuguaglianze nella salute.

[…] Lo scoppio di un conflitto, acuto o prolungato, crea uno shock per le persone, le comunità e l’intera società tale da sovvertire le priorità di vita e sussistenza, quindi anche il valore, seppur in termini di macro indicazioni, dei determinanti della salute. Il benessere vissuto e quello atteso sono ben diversi da quelli antecedenti il conflitto. Durante la guerra aumentano le difficoltà di gestire le condizioni di vita quotidiane e i bisogni essenziali adeguati all’età, al genere, allo stato di salute, alla resilienza fisica e psicologica e allo stato socio-economico della popolazione, in particolare per le persone vulnerabili già prima della guerra e che il conflitto rende ancora più fragili. La guerra aumenta l’esposizione ai rischi per la salute (ad esempio, lo sfollamento, che porta all’esposizione a nuove infezioni, all’aumento della violenza, in particolare quella di genere, alla contaminazione ambientale) e attenua, anche sino alla distruzione, i fattori di protezione (ad esempio, le reti comunitarie, l’approvvigionamento idrico sicuro, i comportamenti positivi per la ricerca della salute e la stabilità sociale).

È la storia di tutte le guerre moderne ed è ampiamente documentata anche nella letteratura scientifica. Ne sono un esempio l’incremento dei casi di malaria durante la guerra nel Darfur, in particolare dopo il genocidio e con lo sfollamento di massa della primavera del 2004; l’aumentata prevalenza di malattie croniche respiratorie e cardiovascolari dopo la guerra in Bosnia e dopo quella in Siria; la crescita della mortalità materna in Burundi, in particolare nel tragico 1972 in cui venne compiuto un massacro ricordato come ikiza (catastrofe) e lo sfollamento di oltre 400.000 persone dal Paese; l’aumento di rapimenti e di prostituzione durante la guerra in Iraq. Sino ad arrivare all’ultima invasione russa dell’Ucraina e in attesa della documentazione sugli esiti, anche a distanza, dello sfollamento da Gaza City verso il Sud della Striscia.

Poco prima dell’invasione russa la popolazione ucraina contava 42 milioni di cittadini e si è ridotta, dopo l’attacco, a 28-31 milioni di residenti, in seguito alla fuga all’estero in massa di donne e bambini. Sono partite donne giovani, delle classi medio-alte, con livelli alti di scolarizzazione. Per gli uomini di 18-65 anni il governo aveva posto il divieto all’espatrio sin dall’inizio della guerra. Migrazione diversa da quella precedente l’invasione, quando sia donne che uomini andavano all’estero in cerca di lavoro; lavori umili, temporanei. Con il perdurare della guerra la migrazione diventa protratta, molte delle donne hanno trovato lavoro, i bambini frequentano le scuole, le politiche di accoglienza nei vari Paesi ospitanti cambiano e diventano più favorevoli: la prospettiva è che molte di queste donne e bambini non torneranno più in Ucraina. Questo è un fenomeno da contemplare tra i rischi a distanza della guerra sulla generazione successiva, sulla riduzione della popolazione, sul cambiamento dei bisogni, ma anche delle risorse.

La guerra è un macro determinante della salute e delle disuguaglianze nella salute che aumenta il bisogno di cura individuale e comunitaria, in particolare attraverso i determinanti intermedi che nel corso di un conflitto sono rappresentati, in particolare, da: sfollamenti, instabilità economica, povertà e malattie.

[…] Con le sommosse del febbraio 2011 scoppia la guerra civile in Libia che termina apparentemente con la caduta e l’uccisione di Gheddafi nell’ottobre dello stesso anno. Il Paese rimane però diviso e attraversato da scontri tra milizie islamiche e milizie libiche sino alla riunificazione, del marzo 2021. Dal 2010 al 2020 l’Indice di Sviluppo Umano della Libia passa da 0,739 a 0,703, dall’80° al 105° posto di 189 nazioni; il PIL pro capite quasi si dimezza passando da 18.663 a 10.630 dollari.

L’effetto della guerra sull’economia dei Paesi coinvolti è associato alle risorse del singolo Paese, ma anche al mercato globale, alle sue regole e alla sua organizzazione, all’indotto legale e illegale che genera. La Repubblica Democratica del Congo è il Paese più vasto dell’Africa subsahariana, dove bande armate, milizie non governative, ex militari e gruppi tribali alimentano un perenne conflitto che causa centinaia di migliaia di morti ogni anno, anche per il controllo delle immense risorse minerarie: il 70% delle riserve globali del coltan usato nei telefonini, il 30% dei diamanti, il 50% del cobalto per le batterie delle auto elettriche. È un Paese dove il 60% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e 6 milioni di abitanti sono sfollati interni a causa dei conflitti. La guerra attiva il mercato delle armi, e non solo. Ad esempio, rodio, palladio e platino sono fondamentali per l’industria bellica (per i droni o le apparecchiature che guidano i missili). È quindi la guerra a spingere il mercato e il prezzo di questi “materiali preziosi”. Un mercato gestito da Russia e Cina. Materiali che valgono più dell’oro, 161 mila euro al chilo per il rodio, 32 mila euro per platino e palladio, la metà dell’oro, ma 40 volte il prezzo dell’argento. Metalli rari usati per ridurre le emissioni nei moderni catalizzatori delle vetture, incrementando i furti delle marmitte (un catalizzatore rubato vale fino a 300 euro) e alimentando un mercato illegale, con Serbia e Lituania come principali Paesi d’approdo.

L’ampio mercato illegale legato alla guerra, per generi e aree di produzione, potrebbe quindi rappresentare un ulteriore determinante della salute per i produttori, per i clienti e per le vittime.

Le vittime

Alla fine del 2020, circa 630 milioni di donne, bambine e bambini vivevano in situazioni di conflitto armato (l’8% dell’intera popolazione mondiale). Secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre, in tutto il mondo oltre 23,3 milioni di bambini e bambine di età inferiore ai 18 anni erano sfollati interni, di cui quasi 13 milioni erano in età di istruzione primaria e secondaria e 10,5 milioni avevano tra i 15 e i 24 anni. Circa la metà dei 53,2 milioni di persone che vivevano in condizioni di sfollamento interno a causa di conflitti e violenze […] erano bambini. Ai bambini vanno aggiunte anche le donne costrette ad abbandonare le loro case e luoghi di residenza: circa 20 milioni. Quindi, oltre due terzi degli sfollati o dei migranti a causa di conflitti bellici sono donne e bambini. Ma donne e bambini possono essere colpiti dai conflitti anche senza essere sfollati dalle loro case, esponendosi a un rischio maggiore di morbilità e mortalità a causa della violenza diretta e del deterioramento delle condizioni locali.

Dal punto di vista di un bambino, la guerra è un tipo di catastrofe paragonabile ai terremoti, alle carestie, ai cicloni e alle pestilenze epi- demiche. Con la differenza che la guerra è un atto volontario di alcu- ni e subito da altri, non è imprevedibile, perché costruito nel tempo. Differenze sostanziali che il bambino dovrebbe apprendere durante la crescita, nel suo percorso formativo. Il principe Mishkin di Dostoevskij non sapeva rispondere alla domanda perché i bambini muoiono, ma forse succede anche perché vengono “ingannati”.

E mentre camminava per le strade e vedeva in ogni volto i segni di una fatica inutile, o alzava gli occhi verso i tetti delle case, su al cielo, per capire se c’era un senso, egli pareva trovarlo, e si rasserenava. Ma solo a una domanda, che lo investiva a ondate regolari con affanno, il principe Mishkin non sapeva rispondere: perché, Signore, i bambini muoiono? A un bambino si può dire tutto, tutto. Mi ha sempre sconcertato il pensiero di quanto poco i grandi conoscano i piccoli, persino padri e madri i loro figli. Ai bambini non bisogna nascondere niente col pretesto che sono piccoli e che per loro è troppo presto per sapere. Che idea triste e infelice! E come si rendono ben conto i bambini che i genitori li considerano troppo piccoli e non in grado di capire, mentre invece capiscono tutto. I grandi non sanno che un bambino può dare consigli estremamente importanti anche nelle questioni più difficili. Oh Dio! Eppure quando uno di questi teneri uccellini ti guarda fiducioso e contento, ti vergogni di ingannarlo. (Da L’idiota di Fëdor Dostoevskij)

Nel solo decennio 1985-1996 le vittime minorenni della guerra sono state 2 milioni di morti; 4-5 milioni di disabili; 12 milioni che hanno perso la casa, più di 1 milione rimasti orfani o separati dai genitori; circa 10 milioni psicologicamente traumatizzati (disturbo da stress post-traumatico). Con gli anni Novanta la crudeltà della guerra è ricomparsa in Europa prima nei Balcani, poi nel Donbass e nel 2022 nell’intera Ucraina.

“La guerra non risparmia mai i bambini, né quelli rapiti dalle loro case in Israele, né quelli che si nascondono dagli attacchi aerei o senza cibo e acqua a Gaza”, afferma Malala Yousafzal, nata in Pakistan nel 1997, la più giovane vincitrice del Premio Nobel per la Pace nel 2014 insieme all’attivista indiano Kailash Satyarthi, “per la loro lotta contro la sopraffazione dei bambini e dei giovani e per il diritto di tutti i bambini all’istruzione”.

[…] I meccanismi attraverso i quali la guerra influenza la mortalità infantile sono molteplici, sebbene necessitino ancora di essere valutati in modo appropriato nei diversi contesti sociali, economici e politici di guerra. I determinanti più prossimi della mortalità infantile sono la salute materna e infantile, e quest’ultima può essere influenzata dai comportamenti materni. La salute materna può, ovviamente, essere compromessa durante la guerra a causa del ridotto accesso all’assistenza sanitaria, ma anche dei numerosi rischi cui una giovane donna in età fertile è esposta durante una guerra (tra i tanti rischi: violenza sessuale, compreso l’uso dello stupro come arma di guerra,2 quindi stress post-traumatico, gravidanze non pianificate e indesiderate; infezioni a trasmissione sessuale), oltre ovviamente delle condizioni sanitarie e sociali comuni all’intera popolazione prima e nel corso del conflitto.

“Una volta mi hanno stuprata a turno in 12. Pensavo di morire. Mi hanno sbattuta talmente forte a terra che in parte ho perso l’udito. Da allora ogni notte ho gli incubi, mi sento una nullità. Ricordo ancora addosso il loro peso, porto i segni di quella violenza, come cicatrici indelebili, e a volte vorrei strapparmi via la pelle”.
Grace, oggi trentenne, viene rapita dai ribelli nella Repubblica Democratica del Congo quando ha 10 anni e sta andando a scuola con i libri sottobraccio. È una delle testimonianze raccolte nel libro La luce oltre il buio di Antonella Napoli.

[…] “Gli uomini fanno la guerra, le donne e i bambini ne pagano il prezzo” scriveva Juliet Dobson, editor del British Medical Journal, pochi giorni dopo l’invasione dell’Ucraina.

I bambini soldato

In alcune situazioni belliche i bambini sono direttamente coinvolti nella violenza tra forze combattenti opposte. Ad esempio sono stati anche vittime prescelte nelle guerre civili genocide in Africa, quando a centinaia di migliaia sono stati uccisi e mutilati nel contesto di assalti corpo a corpo di grande ferocia. Il reclutamento o l’utilizzo di bambini nelle forze armate e nei gruppi armati è la coscrizione obbligatoria, che ha come fine l’arruolamento forzato di bambini in qualsiasi tipo di forza armata o gruppo armato. L’utilizzo di ragazzi e ragazze da parte di forze armate o gruppi armati può avvenire a qualsiasi titolo: come combattenti, cuochi, facchini, messaggeri, spie o anche oggetti di sfruttamento sessuale.

La Convenzione dell’ONU sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, all’articolo 38 afferma che “gli Stati parti si impegnano a rispettare e a far rispettare le regole del diritto umanitario internazionale loro applicabili in caso di conflitto armato, la cui protezione si estende anche ai fanciulli, e adottano ogni misura possibile a livello pratico per vigilare che le persone che non hanno raggiunto l’età di quindici anni non partecipino direttamente alle ostilità”. La Corte penale internazionale ha dichiarato illegale come crimine di guerra l’arruolamento di minori di 15 anni. Tuttavia, si stima siano 300.000 i bambini soldato coinvolti direttamente nella violenza della guerra nel mondo. Il profilo tipico di un bambino soldato è quello di un ragazzo di età compresa tra gli 8 e i 18 anni, legato a un gruppo di coetanei armati, quasi sempre orfano, tossicodipendente o alcolista, spietato, analfabeta e pericoloso.

[…] I tipi estremi di violenza che i bambini subiscono durante il loro arruolamento nelle forze o gruppi armati comprendono l’essere costretti a guardare e prendere parte a omicidi, cannibalismo, stupri, matrimoni forzati e schiavitù sessuale, come risulta dalla documentazione su Sierra Leone, Repubblica Democratica del Congo ed El Salvador. Tra le adolescenti costrette ad arruolarsi è notevolmente aumentato il rischio di gravidanze indesiderate, problemi ginecologici e malattie sessualmente trasmissibili. Il processo di indottrinamento dei bambini e i metodi utilizzati per controllarli e isolarli prevedono abusi fisici e psicologici regolari, torture e la normalizzazione della violenza.

[…] Ci sono anche altre forme di violenza nei confronti dei bambini imputabili alla guerra. Una è quella dell’uso dei civili, e in particolare i bambini, come scudi umani. […] È, ad esempio, una delle accuse del governo ucraino contro l’esercito russo quella di aver usato bambini e intere famiglie come scudi umani in diverse località del Donbass a protezione di carri armati o di installazioni militari. Allo stesso modo il governo israeliano ha accusato Hamas di inviare gruppi di donne e bambini a fungere da scudi umani contro le truppe israeliane in occasione di attacchi nella Striscia di Gaza.

Un’altra forma di violenza, a distanza dall’evento bellico, è quella subita dai bambini i cui genitori sono stati testimoni o hanno partecipato a conflitti armati e di conseguenza sono esposti a un rischio maggiore di abusi e abbandono come è stato dimostrato dopo i conflitti a Timor-Est, in Uganda, in Siria e in Libano, ma anche tra i figli dei veterani americani. La violenza è multidimensionale nelle sue manifestazioni, unidimensionale per le vittime che la subiscono.

Raccontare la guerra

[…] Mazen Kerbaj, un artista multidisciplinare libanese, ha raccontato in disegni, fumetti e prosa un diario della guerra in Libano del 2006 (Beirut don’t cry). Ma essendo anche un apprezzato trombettista jazz il 16 luglio del 2006 si è registrato mentre suonava un duetto improvvisato alla tromba al suono delle bombe israeliane che cadevano vicino a dove viveva per comunicare nella sua interezza la spaventosa realtà di una sinfonia (Starry Night) fatta dal suono delle bombe, dagli allarmi innescati dall’attacco e da una tromba.

[…] Ci sono i libri di Storia, i saggi, i musei, i filmati, le canzoni e le composizioni varie, ma questo, per quanto importante ed essenziale, oggettivamente non basta. Anche la musica classica e operistica ha contrappuntato con ampia variabilità le guerre nei secoli. Una dimensione dell’informazione e della conoscenza meno partecipata e meno critica per celebrare o deplorare conflitti e inneggiare alla libertà.

C’è anche altro materiale, c’è il romanzare della letteratura formale in tema di guerra. Il contributo del romanzo storico, della biofiction, testimonianza, memoir, autobiografia e altro ancora di tutto ciò che “è frutto di immaginazione avvinghiata alle notizie storiche” (con Savina Dolores Massa). […] Ci sono poi, quei giochi di guerra dopo le ore di scuola, fra le strade di Budapest all’inizio della primavera, fatti dai ragazzi (solo maschi) della Via Pál. Adolescenti, “ragazzini”, tutti ancora incoscienti nell’inseguire con slancio le intricate trame dell’infanzia con la potenzialità di cambiare il mondo.

Nell’inventare storie, i bambini impiegano l’intera personalità, quindi anche il pensiero logico e le facoltà di osservazione del reale e perciò portano al reale e non fuori da esso. Una parola, gettata nella mente a caso, provoca una serie infinta di reazioni a catena coinvolgendo suoni, immagini, analogie, ricordi, significati e sogni, in un movimento che interessa la memoria e l’esperienza, la fantasia e l’inconscio. La stessa mente interviene continuamente per respingere, ricordare, collegare, distruggere”
Gianni Rodàri, Grammatica della fantasia.

[…] “Per il proprio giudizio bisogna esserci” era il motto di Ryszard Kapuscinski, forse il più grande giornalista-scrittore che ha vissuto e raccontato i conflitti nel mondo di mezzo secolo a partire dagli anni Sessanta. Riferimento professionale di molti inviati nelle zone calde, che “frequentano le guerre”, testimoni diretti che scrivono quello che vedono e conoscono al servizio del lettore. Ettore Mo è stato uno di questi. Un mestiere difficile e rischioso se non si vuole essere condizionati da veti, regolamenti e censure dei belligeranti.

L’antinomia del romanzare della letteratura è la narrativa non-fiction un percorso produttivo chiamato reportage o cronaca; la non-fiction è strumento e forma di narrazione di una guerra. Con María Sonia Cristoff lontano da una guerra “apro il quaderno di appunti su cui annoto idee, ipotesi, analogie, polemiche, appendici, inquietudini, riferimenti bibliografici, citazioni probabili e improbabili, e rileggo gli appunti come chi a un certo punto fa una pausa per ricontrollare una mappa.”

Clarissa Ward, principale corrispondente internazionale della CNN, da sempre presente nelle aree di conflitto, parlando del suo lavoro dice: “Il prezzo da pagare nel nostro lavoro è quello di testimoniare il dolore degli altri.” A volte il prezzo da pagare per questa testimonianza, per mostrare ad altri cosa è successo e cosa continua a succedere, per contagiare il maggior numero di persone sulla situazione in modo oggettivo, affinché contagino altri è molto alto e definitivo come è stato per la premiata scrittrice e poetessa ucraina Victoria Amelina vittima del bombardamento russo di un ristorante a Kramators’k nell’Ucraina orientale il 27 giugno 2023.

Ancora Clarissa Ward al quinto mese di gravidanza, intervistata in Ucraina da Francesca Mannocchi ebbe a dire: “Noi inviate siamo esposte ai rischi, come tutte le donne che lavorano. La maternità non è un atto singolo, ma un progetto di famiglia... Da quando sono madre, sono emotivamente più esposta e più sensibile alle sofferenze degli altri, tendo ad essere più fisica, ad abbracciare di più le persone, ad essere più coinvolta dalle storie di sofferenza delle persone normali”.

[…] La guerra è fatta anche di propaganda e di fake news da cui chi racconta la guerra deve difendersi nell’interesse suo e del lettore o ascoltatore. Il lavoro di verifica delle informazioni è spesso laborioso, difficoltoso, può mettere a repentaglio la sicurezza personale, necessita di tempo e di cambiamenti politici e individuali di chi è coinvolto. È ad esempio il caso degli arsenali di armi di distruzione di massa detenuti da Saddam Hussein: il grande falso che diede inizio alla guerra in Iraq nel 2003. Nonostante le certezze dell’amministrazione americana di George W. Bush sostenute anche dall’allora segretario di Stato Colin Powell davanti al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite agitando una fiala contenente un liquido giallo, mai furono trovate armi di distruzione di massa in Iraq (se non alcuni vecchi depositi con avanzi di armi chimiche desuete). Solo nel 2015 si acquisisce la prova della menzogna (la post-verità quella che non turba) con l’intervista di France 5 ad Ahmad Chalabi, l’uomo politico scelto da Washington per guidare l’Iraq dopo Saddam Hussein e che nel 2001- 2002 fornì agli americani riferimenti e indicò persone utili a costruire il dossier menzognero sulle armi irachene di distruzione di massa.

“La menzogna di guerra è uno degli aspetti più odiosi della propaganda di guerra, e la peggior menzogna è quella di attribuire al nemico i propri crimini” afferma Edgar Morin in Di guerra in guerra.

[…] Raccontare “anche dopo” affinché non prevalga l’indifferenza, il silenzio, la disinformazione, l’impunità è il vissuto comune di molti inviati di guerra. Se durante la tragedia, mentre si è sul campo, la domanda di molti è: “Che cosa posso raccontare di più, oltre ai morti, ai cecchini, al dolore, alla fame?” dopo il dilemma, per chi vuole continuare a riferire ciò che ha visto a qualsiasi costo, è raccontare storie (apparentemente) non più attuali di testimoni e vittime e ancor più come farsi leggere o ascoltare.

Sono alcuni dei temi di Reporters de guerre, spettacolo teatrale messo in scena nel 2022 da Sébastien Foucault. Dopo sei anni di interviste e documentazione Foucault porta sul palcoscenico vittime e giornalisti che hanno vissuto il conflitto in Bosnia (1992-1995). Un’operazione fatta anche da Moravia: portare il giornalismo in teatro affinché informazione e conoscenza si manifestassero come componenti di un’unica essenzialità... contro l’indifferenza, anche verso la guerra, in particolare a distanza di anni. Alla fine di una guerra tra le macerie (simili a tutte le guerre) resta solo la parola (nelle sue varie espressioni) a salvare la memoria.

Maurizio Bonati, Il cronico trauma della guerra. Donne e bambini le prime vittime. 256 pagine, 22 euro, Il Pensiero Scientifico Editore (in libreria dal 2 maggio)

 

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Why science cannot prove the existence of God

The demonstration of God's existence on scientific and mathematical grounds is a topic that, after captivating thinkers like Anselm and Gödel, reappears in the recent book by Bolloré and Bonnassies. However, the book makes a completely inadequate use of science and falls into the logical error common to all arguments in support of so-called "intelligent design."

In the image: detail from *The Creation of Adam* by Michelangelo. Credits: Wikimedia Commons. License: public domain

The demonstration of God's existence on rational grounds is a subject tackled by intellectual giants, from Anselm of Canterbury to Gödel, including Thomas Aquinas, Descartes, Leibniz, and Kant. However, as is well known, these arguments are not conclusive. It is not surprising, then, that this old problem, evidently poorly posed, periodically resurfaces.