1.I tre livelli dell’adattamento
La disciplina italiana dell’adattamento al cambiamento climatico posta da PNACC si può considerare il terzo livello della regolamentazione di quello che è il secondo pilastro del contenimento del cambiamento climatico.
Il primo è il livello internazionale, dove il riconoscimento dell’adattamento come secondo pilastro della strategia per contenere il cambiamento climatico è giunto a compimento con l’Accordo di Parigi.
Il secondo è il livello dell’Unione europea che si avvia con la comunicazione della Commissione del 2021 “Plasmare un'Europa resiliente ai cambiamenti climatici – La nuova strategia dell'UE di adattamento ai cambiamenti climatici”.
Il terzo livello è costituito dai piani e dalle strategie adottate a livello nazionale, rappresentato, per l’Italia, dal PNACC.
2. Il livello internazionale: cenni storici.
Inizialmente a livello internazionale per affrontare il cambiamento climatico fu prescelta un’unica strategia, la mitigazione, consistente in interventi di riduzione dei gas serra immessi nell’atmosfera o di rimozione dei gas serra già presenti, in modo da stabilizzarne la concentrazione a un livello considerato accettabile per evitare l’aumento di temperatura globale. Fu trascurata la strategia di adattamento, cioè l’adozione di politiche idonee a ridurre gli effetti e le conseguenze negative del cambiamento climatico e, se possibile, a sfruttare le conseguenze positive, limitando i danni in attesa dell’eliminazione delle sue cause mediante gli interventi di mitigazione. Per molto tempo l’adattamento era considerato “un’idea inaccettabile e politicamente scorretta”, in quanto espressione di un rifiuto di impegnarsi per limitare le emissioni o, ancor peggio, di un sostegno alle ragioni dei produttori di petrolio. Era presente in queste valutazioni anche una forte componente etica, in base alla quale la responsabilità del contenimento del cambiamento doveva gravare su chi aveva ampiamente sfruttato i benefici e i vantaggi che ora avevano condotto all’emergenza.
I costi sociali e economici del ritardo dovuto alla scelta iniziale di attuare esclusivamente una strategia di mitigazione sono stati elevati, anche se nel giro di pochi anni si è avviato il processo che ha condotto a considerare l’adattamento come il secondo pilastro della lotta contro il cambiamento climatico.
Il mutamento di prospettiva è segnalato dai rapporti dell’IPCC.
Nel primo Rapporto del 1990 l’adattamento è preso molto succintamente in considerazione nel terzo volume, The IPCC Response Strategies.
Passano dieci anni e il terzo Rapporto del 2001 dedica all’adattamento l’intero secondo volume (denominato Impacts, Adaptation and Vulnerability), mentre la mitigazione è trattata nel terzo volume. Il Rapporto avverte che le strategie di adattamento devono divenire complementari a quelle di mitigazione e saranno necessarie per molti decenni, e forse secoli: “l’adattamento è necessario sia nel breve che nel lungo periodo per contenere l’impatto del riscaldamento globale che si verificherà anche negli scenari più ottimistici. Inoltre, esso può avere benefici immediati per i sistemi sociali e ecologici, riducendo la vulnerabilità a fronte di futuri cambiamenti e di rischi climatici e aumentando le capacità degli uomini e dei sistemi ecologici di adeguarsi”.
Il mutamento di rotta è confermato nel 4° Rapporto del 2007 ove si chiarisce che “il processo di adattamento è necessario nel breve e nel lungo periodo per il surriscaldamento che si produrrà anche nella migliore ipotesi di mitigazione del cambiamento” sicché “l’adattamento deve divenire una strategia parallela agli sforzi di mitigazione in quanto i rischi derivanti dal cambiamento climatico potrebbero aumentare in modo consistente se essa non venga posta in essere.
Si giunge così all’Accordo di Parigi del 2015 che avvia una nuova strategia per affrontare il cambiamento climatico basata sui due pilastri della mitigazione e dell’adattamento. Così l’adattamento passa da presenza sospetta e indesiderata a componente essenziale del contrasto al cambiamento climatico.
L’Accordo indica i principi fondamentali delle azioni di adattamento, specificando gli obiettivi, ponendo particolare attenzione a gruppi, comunità, ecosistemi particolarmente vulnerabili e la necessità di risolvere problemi di carattere giuridico, economico e sociale soprattutto nei paesi in via di sviluppo e in quelli particolarmente esposti agli impatti del cambiamento. Inoltre, l’accordo invita tutti gli Stati a presentare e aggiornare periodicamente una specifica comunicazione sull’adattamento.
3. Che cos’è l’adattamento? La ricerca di una definizione
Il concetto di adattamento è restato per un lungo periodo sfuggente ed è tuttora utilizzato con vari significati nella letteratura scientifica, economica e giuridica. La ragione è data anche dall’ambivalenza dell’espressione che si riferisce sia alle attività poste in essere, sia al risultato che viene conseguito, sia alle finalità perseguite.
È certamente superata la concezione iniziale che riconduceva l’adattamento alla resilienza, alla capacità di un sistema naturale o sociale di assorbire i mutamenti conservando la propria modalità di funzionamento, un processo spontaneo che non aveva bisogno di interventi a livello internazionale.
Attualmente, restano molte incertezze sul contenuto e i limiti degli interventi riconducibili a questa strategia: se debba essere limitato a opere di adeguamento dei sistemi naturali o umani in risposta agli stimoli climatici attuali o attesi o ai loro effetti (quarto rapporto dell’IPCC), oppure se l’adeguamento sia finalizzato anche a far fronte a nuove condizioni determinate dal cambiamento climatico (Commissione dell’Unione europea), oppure ancora, secondo l’ampia definizione dell’UNDP, sia il “processo strutturato per lo sviluppo di strategie, politiche e misure finalizzate ad accrescere ed assicurare lo sviluppo umano di fronte al cambiamento climatico, inclusa la variabilità del clima”.
La concezione più semplice concepisce l’adattamento come una azione di riduzione della vulnerabilità o dell’esposizione ai cambiamenti del clima, incrementando le capacità di farvi fronte. Una seconda concezione inserisce anche azioni di correzione di situazioni esistenti, in modo da migliorare le modalità con le quali si possono affrontare gli effetti del cambiamento del clima. La terza concezione, indicata generalmente come adattamento trasformativo, consiste nel preparare l’assetto economico e sociale esistente per un futuro clima diverso da quello presente in modo da sfruttarne le potenzialità, limitando i danni. L’adattamento non è quindi limitato solo a prevenire gli effetti negativi del cambiamento, ma diviene anche un’opportunità per operare riforme politiche, economiche e sociali che modifichino le disuguaglianze esistenti e limitino comportamenti ambientalmente o climaticamente insostenibili: è quindi un’opportunità di creare un futuro diverso.1
4. La finanza dell’adattamento
Per realizzare interventi di adattamento servono risorse finanziarie e piani di lungo periodo. A livello internazionale, l’attenzione è stata rivolta all’assistenza dei paesi più esposti agli effetti del cambiamento climatico (Most vulnerable developing countries): i paesi poveri (Least developed countries LDCs), le piccole isole (riunite nell’associazione AOSIS) e molti paesi africani colpiti da siccità, desertificazione e inondazioni, mediante la costituzione di appositi fondi.
Gli interventi finanziati dai Fondi per l’adattamento comportano la soluzione di enormi problemi per gli scienziati che si occupano dell’ambiente, dei sistemi naturali, della flora e della fauna. Altrettanto enormi sono i compiti che attendono i giuristi, gli economisti e gli scienziati sociali. Devono infatti affrontare gli aspetti di sicurezza e di sanità delle collettività interessate, i piani di sviluppo economico e produttivo delle aree nelle quali saranno effettuati gli interventi, la pianificazione della produzione e la riorganizzazione delle fonti energetiche, la dislocazione delle infrastrutture; infine, i problemi di riconversione agricola e in generale della produzione alimentare. Tutto ciò, nel quadro di un insieme coerente e efficace di risposte a cambiamenti imprevedibili e magari irreversibili che lacerano l’involucro della stazionarietà, la stabilità complessiva alla quale siamo abituati da secoli: ha osservato un noto giurista dell’ambiente che sarà il più grande esercizio di futurismo legale mai in precedenza concepito. I giuristi debbono cominciare a esaminare gli scenari dei futuri impatti del cambiamento climatico e domandarsi quali risposte darà il sistema legale ai problemi di adattamento: come dovrà modificarsi il diritto di proprietà, il diritto delle assicurazioni, i rapporti tra diritto pubblico e diritto privato e come dovranno cambiare gli accordi internazionali che governano oggi le migrazioni.
Note
1. Su questo argomento: M. PELLING, Adaptation to Climate Change: From resilience to transformation, Routledge 2013; A. Patt, Should adaptation be a distinct field of science? in Climate and development 2013, 3, pp. 187-188; M. D. ZINN, Adapting to Climate Change: Environmental Law in a Warmer World, in Ecology Law Quarterly, Quarterly, Vol. 34, 2007, pp. 61-105.