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Dopo l’alluvione dell’Emilia Romagna va ripensato tutto

Evento eccezionale ma non irripetibile, l'alluvione che ha allagato un terzo della pianura romagnola, con altissimi costi umani ed economici, sfida i luoghi comuni e i vecchi modi di agire. D’ora in poi deve essere chiaro che questi eventi estremi non saranno evitabili. Si dovrà imparare a conviverci preparandosi meglio, e soprattutto mettendo in atto misure più radicali e adatte al cambiamento climatico in atto, come ridare spazio ai fiumi allontanando case e stabilimenti dal loro alveo, e applicare soluzioni “basate sulla natura”. Immagine: tratta dal video di The Walking Nose "La mia alluvione" su Youtube.

Tempo di lettura: 25 mins

Era già tutto previsto. L’allerta meteo, idrogeologica e idraulica di lunedì 15 maggio 2023, dopo una prima sottovalutazione, aveva dato un allarme forte e chiaro. A cominciare dal giorno dopo una valanga d’acqua si sarebbe riversata sulla Romagna e un tratto dell’Emilia, con rischio altissimo di frane e inondazioni. La protezione civile, i vigili del fuoco, la guardia di finanza, gli addetti al consorzio di bonifica, i volontari. Tutti erano pronti per fronteggiare un altro allarme dopo quello dei primi giorni di maggio, dove piogge decisamente sopra la media avevano provocato molte frane e più a valle pericolose onde di piena, con numerose rotture di argini ed esondazioni ai piedi delle colline a ridosso della via Emilia, interessando il Savena, il Sillaro, il Quaderna, l’Idice, il Gaiana, il Senio e altri fiumi e torrenti. Da inizio maggio la pioggia e i primi allagamenti avevano ormai saturato i suoli d’acqua. Fino a quella allerta del 15 maggio.

In realtà non tutto era previsto. Soprattutto su monti e colline della Romagna si è scaricato infatti un diluvio durato due giorni - il 16 e il 17 maggio - che resterà a lungo impresso nei cuori e nelle menti dei romagnoli. Le piogge hanno fatto sì che moltissime nuove frane colpissero i rilievi appenninici, e che i fiumi in piena portassero tutto a valle - acqua, fango, tronchi, e radici strappate dai campi e dai boschi -, distruggendo tutto quello che trovavano sulla loro strada: auto case, stabilimenti. E uccidesse 17 persone che non avevano fatto in tempo a essere tratte in salvo da barche ed elicotteri.

Morte e distruzione. Tutt’intorno un panorama completamente trasformato: una delle pianure più produttive d’Italia era tornata a essere la palude di prima delle bonifiche iniziate secoli fa.

Figura 1. Inondazione dell'abitato di Solarolo (Ravenna) il 17 maggio 2023 (crediti immagine: autore ignoto, via pagina Facebook Emilia Romagna Meteo).

Oggi, a un anno di distanza, la peggiore alluvione degli ultimi decenni ha lasciato la sua firma di fango e macerie. E tanta rabbia e tristezza appena mitigate dal buon umore e l’operosità di quella gente, che si è messa subito all’opera per riparare i danni. Soprattuto i giovani «come risvegliati», come nota la poetessa di Cesena Mariangela Gualtieri, che in diretta televisiva in quei giorni recita «Puoi essere tu».

Dopo che l’acqua ha ristagnato per settimane nei campi e in città come Forlì, Faenza, Conselice e negli immediati dintorni di Ravenna, sanata l’emergenza puzza, sventati con screening e vaccinazioni i rischi sanitarii e spalato fino all’ultimo secchio di fango, si è messo mano ai lavori di ripristino di “somma urgenza”, come da decreto legge “Alluvioni” del 1° giugno n. 61. I molti punti in cui gli argini dei fiumi interessati sono stati sormontati o hanno ceduto sotto la furia dell’acqua sono in via di riparazione e consolidamento; le tonnellate di rifiuti, detriti e piante rimosse dagli alvei e dalle spiagge. Dal canto suo, la rete di più di 2.000 chilometri di canali e tubi collegati alle pompe idrovore del Consorzio di bonifica della Romagna, sta mettendo i cerotti ai danni da ripristinare più urgentemente, ma anche ripensando la rete stessa per contrastare in modo più efficace le piene a venire.

Ai primi 250 milioni di euro investiti per le urgenze legate all’acqua vanno poi aggiunti i tanti cantieri aperti per rifare le strade investite dalle migliaia di frane sulle colline e le montagne del tratto di Appennino più a rischio d’Italia, (a metà aprile 2024 i cantieri aperti erano in tutto 402, fra Bologna, Ravenna e Forlì-Cesena), così come la protezione dei beni culturali, la ricollocazione di case e stabilimenti situati in aree troppo pericolose, e molte altre azioni disposte dal “Piano speciale di interventi sulle situazioni di dissesto idrogeologico” introdotto dall’articolo 8 della legge 100 del luglio 2023, redatto dall’Autorità di Bacino del Po e coordinato dal Commissario straordinario Francesco Paolo Figliuolo.

Cronaca di una catastrofe

Molto resta ancora da fare. Ma cominciamo ripercorrendo cosa è successo in quei giorni di maggio. L’impatto dell’alluvione sarebbe stato meno devastante se non si fossero verificate alcune coincidenze, come si è capito già nelle ore successive del 16 di maggio, quando la pioggia ha cominciato a cadere dopo l’allerta rossa: da un lato le piogge intense in pianura, ma ancora più intense nelle zone collinari e montuose; dall’altro le frane - ben 80.000 secondo gli ultimi conti, fra grandi e piccole; infine il mare con onde molto alte nei giorni del 16 e 17 maggio che ha ostacolato il deflusso delle acque. frane.png

Figura 2. Dissesti di versante (crediti immagine: ARPAE Regione Emilia Romagna).

Tutto nasce da un vortice depressionario che si è incuneato fra due anticicloni, uno sulla penisola iberica e uno sull’Europa nord-orientale. Soprattutto quest’ultimo ha generato potenti venti di bora, cioè venti freddi contro costa che si sono scontrati con le correnti calde e umide in risalita dal Nord Africa. Il vortice rimane stazionario sopra la Romagna per due giorni consecutivi, bloccato dalla barriera degli Appennini, con piogge a impulsi il 16 e il 17 maggio. Analizzando i pluviometri dell’Arpa Emilia Romagna, ci si è accorti che in collina pioveva molto di più, anche 200 millimetri nella giornata del 16 maggio.

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Figura 3. Precipitazioni cumulate in 48 ore dalle h 21 UTC (h 23 locali) del 15 maggio 2023 alle h 21 UTC del 17: in viola, tre nuclei >200 mm sui rilievi alle spalle di Forlì e Faenza (crediti immagine: ARPAE Regione Emilia Romagna).

Se si misura la precipitazione dell’intero periodo, dal primo al 17 maggio, si vede come in collina si siano raggiunti anche i 500 millimetri, che corrispondono a circa la metà della pioggia che cade normalmente in un anno. Nel frattempo i suoli montani franano, e quelli di pianura sono a loro volta saturi, per le piogge diffuse e persistenti della prima metà del mese, quindi incapaci di assorbire altra acqua. Come se l’intera piana romagnola fosse un unico pavimento impermeabile. L’acqua così gonfia i fiumi che aumentano rapidamente i colmi di piena.

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Figura 4. Cumulata di precipitazione osservata nell’intero periodo dal 1 al 17 maggio 2023, con indicazione dei valori puntuali e dei confini dei territori comunali (crediti immagine: ARPAE Regione Emilia Romagna, Rapporto 2023/13 del 16-18 maggio 2023).

Non si fa in tempo a temere il peggio che il peggio è già arrivato. Gli idrogrammi di piena di fiumi quali il Lamone, il Ronco e il Montone indicano valori tutti bene al di sopra della soglia 3, la cosiddetta linea rossa con cui la Protezione civile lancia l’allarme alluvione.

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Figura 5. Idrogrammi di piena nelle sezioni idrometriche più significative dei fiumi Montone, Lamone e Ronco (crediti immagine: ARPAE).

A questa situazione preoccupante si somma il fatto che dal 15 al 18 maggio si sono registrate condizioni a mare ugualmente critiche, con picchi di marea di quasi 90 centimetri, e onde fino a tre metri e mezzo di altezza. In pratica un muro di 4 metri rallenta quindi il deflusso dei fiumi, peraltro ingombri di detriti scesi dalle montagne e vegetazione strappata da argini e golene.

L’acqua inizia quindi a esondare e rompere in più parti gli argini dei fiumi invadendo campi e città. È il caso del Santerno che allaga Sant’Agata, ma che rompe gli argini anche a Ca’ di Lugo, a Mordano e a Bagnara. Il Senio invece rompe a Biancanigo, e da lì le acque inondano anche Solarolo e il centro di Lugo. Il Sillaro invece allaga Conselice, mentre il Lamone straripa colpendo pesantemente Faenza e altri comuni.

L’alluvione mette fuori gioco la rete di canali del Consorzio della bonifica della Romagna,  così come alcune stazioni di pompaggio, normalmente usate per sollevare l’acqua dalle molte aree soggette a subsidenza, come racconta in una conferenza post evento Andrea Cicchetti, direttore tecnico del Consorzio. Gli argini franano un po’ ovunque sotto la piena. Squadre di tecnici cercano di rialzare alcuni argini, provvedere con sacchettature, chiudere i fontanazzi che si aprono come buchi di groviera. Alle potenti idrovore ancora funzionanti del Consorzio di bonifica si aggiungono pompe mobili anche da 1.500 metri cubi al secondo arrivate da diversi Paesi, fra cui Slovenia, Slovacchia, e Francia. Ci si concentra per esempio sul canale Canala, che difende Ravenna. Si pompa fuori l’acqua, e a un certo punto si taglia anche l’argine per deviare l’acqua verso i campi, “sacrificati” dagli agricoltori per scongiurare l’allagamento di centri urbani.

Figura 6. Sintesi delle criticità idrauliche occorse sui corsi d’acqua, e immagine satellitare dei territori allagati a seguito delle piene dal 17 al 21 maggio 2023 (fonte Agenzia Regionale per la Sicurezza Territoriale e la Protezione Civile su dati Programma UE Copernicus Emergency Management Service) (crediti immagine: ARPAE Regione Emilia Romagna).

La visione dall’alto è impressionante. Laghi di fango occupano circa 800 chilometri quadrati, un terzo della pianura romagnola, mettendo in ginocchio città e campagne. Sotto emergenza si ha tempo giusto per salvare il salvabile, issare con i verricelli degli elicotteri le persone imprigionate negli ultimi piani delle case. Alcune vengono salvate con l’acqua appena sotto la bocca, altre non ce la faranno, trascinati via dall’onda, o annegati in cantina. Lo spiegamento di forze di soccorso e volontari è impressionante, commovente. Ma non può che tallonare la catastrofe.

Figura 7. Operazioni di salvataggio (crediti immagine: Wikipedia).

La componente del rischio climatico

Nelle tante interviste fatte in quei giorni la gente menziona spesso il cambiamento climatico, quasi fosse il nume d’un sventura inevitabile. Si fa anche un po’ d’accademia se sia corretto attribuire questo evento al clima che cambia. A ridosso dell’alluvione esce infatti un articolo scientifico, ma non ancora vagliato dai revisori, che ridimensiona la cosiddetta attribuzione climatica dell’alluvione di maggio. Articolo poi smontato dalla rivista Climalteranti.

Per non farsi mancare niente, le polemiche rimbalzano sui giornali. Ma se non si è in malafede, bisogna ammettere che qualcosa è cambiato, e che il cambiamento climatico fa sentire i suoi effetti. È vero che i modelli climatici utilizzati dai ricercatori colgono bene l’aumento della temperatura, ma con meno precisione l’umidità e il regime delle piogge. Tuttavia le serie storiche delle precipitazioni in Italia (alcune delle quali risalgono, come nel caso di Padova, al diciottesimo secolo) mostrano un deciso aumento di probabilità di piogge via via più intense.

Come fa notare Marco Marani, che dirige il Centro Studi sugli Impatti dei Cambiamenti Climatici dell’Università di Padova a Rovigo, fra gli autori del Rapporto regionale sull’alluvione del 2023 e tra i coordinatori del progetto sui rischi antropici e naturali “Return”, la progettazione di opere come ponti, argini o dighe deve prevedere eventi estremi sempre più frequenti e intensi. Marani fa un esempio: supponiamo di essere nel 1919, anno di piogge record fino a quel momento, alle prese con la costruzione di un’opera, come un ponte o un argine, e avessimo a disposizione 30 anni di osservazioni. Queste ci indicano un’altezza massima di pioggia di circa 126 mm (cerchio verde in figura). Tuttavia, l’opera, nella sua vita utile, supponiamo di 100 anni, avrebbe sperimentato degli eventi estremi tra il 1919 e il 2022 accresciuti fino al 20% (cerchio rosso nella figura) rispetto al valore di progetto per cui era stata dimensionata l’opera.

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Figura 8. Altezza di pioggia con probabilità annuale 1/100 mm (crediti immagine: Marco Marani, comunicazione personale).

Lo stesso potrebbe accadere se dovessimo progettare una diga, un ponte o un argine oggi,  dopo l’alluvione del 2023. Questo perché tutte queste opere hanno una vita utile piuttosto lunga, che le espone a estremi in un clima cambiato, nel quale il rischio di insufficienza dell’opera cresce.

«Dovendo ora ricostruire dopo l’alluvione dobbiamo fare attenzione al fatto che il pericolo, vale a dire la probabilità di eventi estremi come le precipitazioni, ma anche come le ondate di calore, la siccità, gli incendi, sta aumentando» spiega la climatologa del CMCC Paola Mercogliano, fra gli autori del Rapporto regionale sull’alluvione del 2023. «Gli impatti del cambiamento climatico andrebbero considerati insieme - per esempio l’effetto dirompente dell’essere passati dalla siccità record del 2022 alle piogge record del 2023, che a più impulsi hanno prima saturato i suoli e quindi fatto esondare i fiumi. E dobbiamo considerare come anche l’altra fondamentale componente del rischio climatico, vale a dire la vulnerabilità del territorio, stia aumentando. Per questo è così importante, accingendoci ad affrontare i postumi di questa alluvione, dare la massima urgenza alla mitigazione e lavorare per ridurre il più possibile la vulnerabilità di questi territori». Proprio per progredire nella conoscenza di eventi così complessi e imparare a gestirli al meglio, il CMCC sta conducendo da alcuni anni per conto della Regione Emilia-Romagna una Scuola - la Future Earth Research School (FERS) - per giovani ricercatori provenienti da tutto il mondo su diverse tematiche attinenti alle scienze del clima e dei suoi ormai inevitabili impatti.

La mutata situazione climatica sembra suggerire di essere più lungimiranti nel pensare alla nuove infrastrutture. Non è un caso che, per il corretto dimensionamento delle opere future, la Commissione europea oggi raccomandi agli stati membri di fare riferimento ai modelli climatici dell’IPCC, in particolare agli scenari ad alte emissioni come l’SSP3-7.0. Alcuni paesi si sono dotati di proprie indicazioni, anche più cautelative. L’Italia ancora non ha una regolamentazione del genere, ma sulla base di alcuni modelli sviluppati dal Centro studi impatti cambiamenti climatici dell’Università di Padova e Rovigo le nuove opere dovrebbero tener conto di un incremento dell’intensità di circa il 40% per gli eventi estremi con tempi di ritorno di vent’anni.

«Il cosiddetto “tempo di ritorno”, di cui si è molto parlato a seguito dell’alluvione, è un modo diverso per indicare la probabilità, ed è importante non travisarne il significato» spiega Marco Marani: «dire che un evento ha un tempo di ritorno di 100 anni non significa che possiamo stare tranquilli per un secolo prima che torni, ma che ogni anno si ha una probabilità su cento che si manifesti. Che moltiplicato per 100 anni di vita di una persona porta la probabilità di incontrare un evento simile al 63%». Infatti componendo la probabilità annuale dell'1% che un evento si verifichi (0,01) con la lunghezza di una vita umana (poniamo 100 anni) si ha la formula: 1 - (1-0,01)100= 0,63 (cioè 63%).

La pioggia che è scesa in Emilia Romagna nel maggio 2023 ha pochi precedenti storici. L’insieme di questi eventi, soprattutto nelle aree appenniniche più colpite, hanno tempi di ritorno superiori ai 500 anni, quindi una probabilità molto bassa. Ma come fa notare Mercogliano, se ricalcoliamo la probabilità comprendendo l’evento stesso, ci si accorge che quello che può apparire una evenienza molto rara, non lo è forse più tanto in un futuro in rapida trasformazione climatica (Il CMCC ha pubblicato sul sito Dataclime le serie temporali storiche e future, basate su modelli, delle precipitazioni sull'Emilia Romagna).

L’anno 2023 è per i meteorologi e climatologi un anno record, che ha registrato un aumento di temperatura media globale che non si riscontra negli ultimi 100mila anni, e che eccede di circa 0,2°C gli aumenti annuali a cui ormai ci stiamo abituando. Certo nel 2023 si è avuto El Niño, che è associato ad anni più caldi. Anche l’attività solare è andata crescendo in quell’anno. Ma come ha spiegato recentemente su Nature il climatologo Gavin Schmidt, un aumento di temperatura del genere non trova facili spiegazioni. E ha aggiunto: «Quando ho assunto la direzione del Goddard Institute for Space Studies della NASA, ho ereditato un progetto che traccia le variazioni di temperatura dal 1880. Utilizzando questo patrimonio di dati, ho fatto previsioni sul clima all'inizio di ogni anno dal 2016. È umiliante e un po' preoccupante ammettere che nessun anno ha confuso le capacità di previsione degli scienziati del clima più del 2023».

L’altalena di siccità e alluvioni

Non è affatto facile capire dove il riscaldamento globale porterà ondate di calore, siccità, o piogge torrenziali. Di solito porta le une e le altre, in una altalena capricciosa e mortifera. Il 2022 per esempio è stato dominato in tutta Europa dalla siccità, che ha portato il 63% dei fiumi a secche che hanno spesso limitato la navigazione e l’attività delle centrali elettriche.  Un anno preoccupante, anche il 2022, in cui il caldo record, in cui è tornata in atmosfera sotto forma di vapore il 70% delle precipitazioni, anziché la metà come avviene di solito. Nel 2022, il Po in particolare ha avuto la siccità peggiore degli ultimi due secoli, come ha spiegato in un articolo su Science Advances Alberto Montanari dell’Università di Bologna. Ma in quell’anno, a metà settembre, le Marche e l'Umbria sono andate inaspettatamente sott’acqua (13 morti), come l’Emilia Romagna a maggio 2023 e la Toscana settentrionale a novembre (8 morti). Il caldo, così come l’aumento della temperature dei mari, ha un andamento lento e più prevedibile delle piogge, che invece sono estremamente variabili e localizzate. Possono essere previste qualche giorno prima, ma i modelli climatici difficilmente riescono a dirci con esattezza quanto e dove pioverà su tempi più lunghi.

L’Emilia Romagna si trova più spesso ad avere a che fare con siccità che con piogge torrenziali. Come spiega il direttore scientifico del CMCC Giulio Boccaletti nel suo recente libro Siccità, «Il Reno, che nasce nei pressi di Pistoia, in Toscana, attraversa la provincia di Bologna e sfocia nell’Adriatico vicino a Ravenna, è un fiume torrentizio stagionale. Da solo non accumula abbastanza acqua per sostenere l’agricoltura della bassa Emilia-Romagna. Inoltre, la Romagna tende a essere arida, con precipitazioni sotto la media per l’Italia settentrionale. Fin dal dopoguerra, però, l’agricoltura di questa zona sfrutta il Po grazie al Canale emiliano romagnolo (CER), una delle infrastrutture idrauliche più importanti d’Italia, che sposta verso Ravenna circa duecentocinquanta milioni di metri cubi d’acqua all’anno, prelevati a Salvatonica, frazione del comune di Bondeno».

Nel 2022, il CER non portava abbastanza acqua per l’agricoltura della bassa, che infatti è andata in crisi, cercando di salvare (e solo in parte riuscendoci) le risaie del Nord Ovest. Mentre nel 2023 l’alluvione ha messo in ginocchio allevatori e agricoltori per motivi opposti, senza che le diverse autorità preposte alla sicurezza idrica del territorio potessero fare altro che gestire la catastrofe. E i rilievi satellitari di Copernicus testimoniano come il 2023 abbia messo in crisi molti fiumi, per le piogge più abbondanti del solito.

Le tante facce della vulnerabilità

Come per tutti gli eventi estremi, i danni provocati dalle alluvioni non dipendono solo dalla quantità d’acqua che cade, ma anche dalla nostra capacità di risposta, in ultima analisi dalla nostra capacità di governo e di preparazione della popolazione a mettersi al riparo. L’entità del cosiddetto rischio climatico si misura infatti considerando la probabilità dell’evento estremo moltiplicato per la vulnerabilità dei territori esposti.

In cosa l’Emilia Romagna è vulnerabile alle alluvioni? Da un punto di vista fisico, molte aree in Romagna sono sotto il livello del mare, a causa del fenomeno della subsidenza, vale a dire l’abbassamento del suolo che va da mezzo centimetro a 4 centimetri all’anno, per esempio nella zona di Ravenna. Cosa che ovviamente non ha aiutato lo spedito deflusso delle acque alluvionali.

Distribuzione della subsidenza nella pianura emiliano romagnola nel periodo 1973/93-1999

Figura 9. Distribuzione della subsidenza nella pianura emiliano romagnola nel periodo 1973/93-1999 (crediti immagine: ARPAE Regione Emilia Romagna).

Un altro aspetto molto problematico è l’altissimo consumo di suolo che si è registrato negli ultimi 70 anni, e che pone l’’Emilia Romagna nelle posizioni di testa della classifica nazionale, appena dietro a Lombardia, Veneto, e più recentemente Puglia. Ogni anno il territorio viene sigillato per decine di chilometri quadrati (nel 2022 secondo i dati ISPRA per 77 kmq), i fiumi hanno sempre meno spazio dove esondare liberamente, costretti come sono fra infrastrutture, poli urbani, stabilimenti e strutture di logistica.

«L’Emilia Romagna ha una percentuale di copertura del 9%, superiore quindi alla media nazionale che è intorno al 7%, e soprattutto registra una crescita anche negli ultimi anni delle superfici artificiali, fra costruzioni e infrastrutture, che nel 2022 è stata di circa 650 ettari» spiega Michele Munafò, responsabile del report annuale sul consumo di suolo dell’ISPRA. «La cosa preoccupante è che di questi 650 ettari, circa 400 ettari di nuovo suolo “sigillati” si sono riscontrati proprio nelle aree di pericolosità idraulica media della regione, aumentando dunque l’esposizione e il rischio rispetto a questi fenomeni».

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Figura 10. Percentuale di territorio regionale interessato da aree allagabili per i tre scenari di probabilità di alluvione e valori calcolati a scala nazionale - Mosaicatura ISPRA, 2020.

 

Percentuali aree allagabili per regione

Figura 11. A sinistra mappatura delle aree a pericolosità idraulica media (aree P2, allagabili per eventi con tempo di ritorno tra 100 e 200 anni). A destra la mappa evidenzia come nella Regione Emilia Romagna si concentri una forte connessione tra consumo di suolo e rischio idraulico (crediti immagine: ISPRA).

L’alluvione ha messo a nudo questa situazione, spingendo il presidente della Regione Stefano Bonaccini a dichiarare: «Nelle zone alluvionate non si costruirà più. Non si tratta di una scelta da eroi ma di una lezione che abbiamo imparato dalla tragedia di maggio». Un segnale molto importante, anche se non sarà una passeggiata far recedere interessi consolidati.

Nel quadro di una progressiva artificializzazione di queste zone, anche l’agricoltura intensiva della pianura ha un ruolo, sfruttando ogni centimetro utile per coltivare, riducendo le reti minute di scolo che dovrebbero veicolare l’acqua verso i canali più grandi e farla defluire più speditamente. L’agricoltura, essenziale per la nostra alimentazione ed economia, può entrare in conflitto con le esigenze della sicurezza idrica, così come con la preservazione della biodiversità. Basti pensare alla difficoltà di avanzamento del progetto PNRR sulla rinaturalizzazione di alcuni tratti del Po, dove si scontrano le esigenze di forestazione, di creazione di corridoi per la fauna, e quelle molto forti della pioppicoltura che storicamente ha connotato le aree golenali del fiume. La Pianura Padana, peraltro, è la zona più priva di alberi d’Europa, con indici ecologici e di qualità dell’acqua bassissimi.

Ma anche distogliendo la sguardo dai campi della pianura romagnola per rivolgerlo alle colline e alle pendici dell’Appennino, da cui l’alluvione ha preso il via,  le cose non vanno meglio. A prima vista ci si potrebbe compiacere di quanto sono aumentati i boschi nei rilievi dell’Appennino emiliano-romagnolo. Ma come spiega il Rapporto della Commissione tecnico-scientifica istituita dalla Regione in seguito alla alluvione del maggio 2023, quei boschi spesso sono coperture vegetali non gestite che hanno rimpiazzato campi agricoli abbandonati, terrazzamenti e muri a secco crollati, canaline di scolo interrate. Spiega Giorgio Vacchiano, ricercatore forestale dell’Università degli studi di Milano. «Quando noi pensiamo al bosco ci immaginiamo qualcosa che ci aiuta nei confronti del rischio alluvionale: le foglie trattengono l’acqua, il suolo può fare da spugna, le radici consolidano i pendii. Questo funziona con piogge moderate, ma possono venir meno con piogge molto intense e improvvise. Nel caso di questa alluvione aveva piovuto molto anche nelle settimane precedenti, saturando i suoli. Boschi gestiti fino a ieri e ora in transizione verso condizioni più naturali attraversano fasi di possibile instabilità, con grandi ceppaie che in alcuni casi (soprattutto i castagni) possono crollare e innescare piccoli dissesti. Qualcosa di simile può accadere con rimboschimenti mai diradati, dove la competizione genera alti tassi di mortalità degli alberi che, se vicini agli alvei dei torrenti, crollano e aumentano il materiale solido trasportato da eventuali piene». Con il rischio che vadano a ostruire ponti o altre infrastrutture che si trovano a valle.

 

Uno spartiacque fra gli interventi del passato e del futuro

L’alluvione, conclude il Rapporto regionale, rappresenta «uno spartiacque fra passato e futuro nel settore della difesa idraulica e idrogeologica del territorio». Non è pensabile di costruire e ricostruire come si è fatto finora. I cambiamenti climatici e gli eventi sempre più estremi che ne conseguono impongono forme di monitoraggio del territorio molto più ambiziose. Idealmente sarebbe importante realizzare per esempio un “gemello digitale idrogeologico” della regione, da far girare sui supercomputer presenti per esempio nei poli di calcolo di Bologna, in modo da prevedere con precisione molto maggiore del passato gli effetti degli eventi meteo. Una risorsa di questo genere sarebbe utile anche per studiare le interazioni fra la rete dei canali di bonifica della regione e gli eventi alluvionali, e gestirla al meglio in caso di nuove alluvioni.

Ma non si tratta solo di migliorare i sistemi di monitoraggio idrometeorologico. Gli esperti non si nascondono che per prevenire disastri futuri bisognerà metter mano anche a una pianificazione diversa di città e campagne: costruire di meno, risparmiare suolo, soprattutto lasciare mobilità agli alvei dei fiumi, dove possibile arretrando, anziché alzando argini già pericolosamente pensili. E, dove le condizioni lo consentono, realizzare casse di espansione in pianura per dare sfogo alle piene. Ma serve anche una paziente opera di rammendo ecologico, da monte a valle. E servirebbe anche una pianificazione territoriale con una forte regia pubblica.

Un capitolo importante del ripristino in corso riguarda la minuziosa opera di stabilizzazione dei versanti montani, la regimazione della rete idrografica minore e l’avvio di buone pratiche agricole e forestali capaci di rendere l’Appennino e le colline di Forlì, Cesena, Ravenna e Bologna meno soggette a frane e dissesti. Percorrendo la bellissima strada statale 67 da Forlì verso Firenze a un anno dall’evento, si possono ancora notare - fermi ai semafori che alternano il traffico nei due sensi di marcia - i segni di decine di frane sui fianchi delle montagne. Molto c’è ancora da studiare delle difesa idrogeologica della regione, se addirittura il 70% delle circa 80mila frane verificatesi in maggio, che hanno distrutto 311 edifici e 1950 tratti stradali, cade al di fuori delle aree a rischio frana della cartografia esistente.

Le alluvioni - dicono gli esperti - spesso non si possono evitare, ma si può ridurre il danno che infliggono a cose e persone. Per esempio provocando tracimazioni controllate, come si è fatto sotto emergenza anche in questa alluvione, anziché permettere che le acque sbriciolino gli argini riversando quantità molto superiore d’acqua su campi e città.

Largo alle "nature based solution"

Sotto lo schiaffo di eventi sempre più estremi non tutto si potrà prevenire e controllare. È meglio che ce ne facciamo una ragione e ci mettiamo di buona lena alle opere di adattamento necessarie. Ed è appunto quello che si prefigge di fare il Piano speciale di interventi sul dissesto idrogeologico, che si compone di molte misure e del lavoro dei più importanti centri di ricerca e università italiane per mettere a frutto tutte le competenze necessarie alla ricostruzione, sugli argini, ponti, tombinature, l’abbassamento delle golene, e più in generale quelle che oggi si chiamano “soluzioni basate sulla natura” (nature based solution).

Figura 12. Misure verdi e misure grigie di contrasto alle piene (crediti immagine: Andrea Colombo, slide presentata alla Green week, Parma 2024).

«Più che imparare a difenderci, dobbiamo imparare a convivere con le alluvioni» afferma Barbara Lastoria, idrologa dell’ISPRA coinvolta nel Piano speciale. Fra le misure più importanti ci sono anche quelle di rinaturalizzazione di fiumi e versanti. «Le nature based solution comprendono diversi interventi che da un lato vanno a beneficio e tutela degli ecosistemi e della biodiversità, e dall’altro possono aumentare la resilienza verso eventi estremi come le alluvioni. Va chiarito che la vegetazione in alcuni casi può costituire un problema e in altri un vantaggio; molto dipende dal contesto e da come la si gestisce. Gli interventi quindi verranno valutati, per esempio per far sì che una gestione adeguata della vegetazione aiuti a ridurre l’impatto delle piene, anche rispetto alle sollecitazioni a cui possono essere soggetti gli argini, mentre gli interventi prioritari sulla vegetazione dovranno concentrarsi per esempio sulla rimozione di piante vetuste, deperienti o instabili che verrebbero facilmente portate via dall’acqua andando a intralciare il suo corso specie in prossimità di ponti e attraversamenti. Un’altra criticità da gestire è l’impatto dei cosiddetti animali fossori (nutria, istrice, volpe, tasso) che con le loro tane scavate nei corpi arginali ne possono compromettere la stabilità. In generale» prosegue Barbara Lastoria, «le nature based solution rappresentano spesso un approccio più efficace e sostenibile rispetto agli interventi strutturali privilegiati nel passato, che hanno alti costi di realizzazione e manutenzione e, a differenza di queste, non sono altrettanto adeguati in un quadro reso non più stazionario dal cambiamento climatico in corso».

I lavori quindi stanno procedendo, anche se ci vorrà tempo perché l’Emilia Romagna rimargini tutte le sue ferite. Nella tragedia, l’alluvione del maggio 2023 ha avuto quanto meno la funzione di mettere in moto, almeno per ora, una risposta politica, oltre che tecnica, sul dissesto idrogeologico che si aspettava da anni. C’è sempre tempo per dimenticarsi anche di questa. Tuttavia, come ha osservato maliziosamente in una recente lectio magistralis al Politecnico di Milano l’idrologo veneziano Andrea Rinaldo, «le piene fra un po’ avranno un tempo di ritorno di quattro anni, come il ciclo elettorale», e quindi sarà difficile scordarsele.

Demoliamo le case a rischio e ricostruiamole con criteri anti-piena

Piene, inondazioni, siccità interessano in effetti sempre più di frequente parti diverse del Paese, e ci fanno capire come il nodo non sia tanto scientifico, quanto di natura politica. Spiega Francesco Comiti, esperto di gestione dei bacini idrografici, Università di Padova e progetto Return: «L’efficacia e la sostenibilità economico-ambientale degli interventi per mitigare il rischio idraulico è quasi sempre inversamente proporzionale alla loro accettabilità sociale e quindi alla loro desiderabilità politica» spiega. «Si continuano a privilegiare soluzioni di tipo strutturale da realizzarsi su aree pubbliche, spesso di pregio ambientale. Questo perché la politica vuole evitare conflitti con associazioni di categoria potenti (quali quelle del mondo agricolo), e spesso per favorire le filiere economiche legate all’edilizia (estrazione inerti, progettazione e realizzazione costruttiva). Invece misure non strutturali importanti come la delocalizzazione degli insediamenti a maggior rischio e l’avvio di piani assicurativi obbligatori misti pubblico-privati - strumenti virtuosi utilizzati da anni in molto Stati - vengono scartati a priori per non urtare la “sensibilità” dei cittadini, chiaramente per non perdere consensi».

Molto si può fare anche con interventi a scala urbana e di singolo caseggiato con le cosiddette case anti-piena. Spiega Comiti: «Questi interventi “flood proofing” di solito riguardano sia le parti sotterranee degli edifici (impermeabilizzazione delle fondazioni e delle cantine, installazione di valvole per prevenire la risalita dalla rete fognaria) sia quelle fuori terra, solitamente fino al primo piano (impermeabilizzazione dei muri perimetrali, paratoie e schermi mobili alle porte e alle finestre, rinforzi strutturali sui muri più esposti alla corrente). Per i nuovi edifici o le ristrutturazioni, vanno evitate porte e finestre sui lati esposti ai flussi idrici. Possono servire anche muretti esterni per deviare il flusso principale della corrente, fino a creare “isole” asciutte attorno alle case avendo cura di impermeabilizzare i cancelli di ingresso».

Costruire il consenso e un'educazione pubblica al rischio

Un'altra’ingegneria che ci sarà molto utile nei prossimi anni per far fronte alla messa in sicurezza del nostro territorio sarà soprattutto quella istituzionale e del consenso sociale. Scrive infatti Giulio Boccaletti nel libro Siccità: «I prossimi anni saranno una sequenza continua di aggiustamenti territoriali, investimenti infrastrutturali - dighe, bacini, argini, protezioni costiere, gestione forestale, scelte agricole - scommesse esistenziali per interi settori dell’economia (…) Per poter giustificare decisioni economiche e giustificare scelte impopolari, i tecnici dovranno guadagnarsi la fiducia di una cittadinanza abituata a non sapere della loro esistenza e a dubitare della legittimità delle loro posizioni». Ma soprattutto «serviranno una sintesi politica che descriva il paesaggio nazionale e una forte sussidiarietà che nella gestione assicuri la centralità dell’esperienza locale (l’acqua è sempre locale). E servirà che istituzioni preposte a coordinare, come le autorità di bacino, abbiano le risorse e il potere di negoziare».

Infine si impone un ampio programma di educazione pubblica per affrontare questo genere di rischi.  Commenta Pierluigi Claps, del Dipartimento di ingegneria dell’ambiente al Politecnico di Torino e del progetto Return: «Bisogna fare i conti con il fatto che le difese possano essere superate, ma non ci devono essere vittime. È molto grave che a causa di un evento previsto con tanto dettaglio ci siano stati così tanti morti. Bisogna utilizzare la descrizione di ciò che è accaduto per spiegare alle persone che certi comportamenti vanno evitati. Per esempio, quando gli allarmi vengono diramati non bisogna mettersi in macchina e non bisogna utilizzare locali sotto il livello stradale, perché gli allagamenti dei piani interrati sono rapidissimi e la spinta dell’acqua non lascia scampo. Sul breve periodo intensificando l’azione della Protezione civile ed educando i cittadini a seguire le norme di auto-protezione indicate nei piani comunali di emergenza».

 

Letture consigliate
Giulio Boccaletti, Siccità. Un paese alla frontiera del clima, Mondadori, 2023.
Giulio Boccaletti, Acqua. Una biografia, Mondadori, 2024.
Guido Caroselli, Fiumi. Le arterie della vita sulla terra, Il Sole 24Ore, 2021.
Silvia Avallone, Matteo Cavezzali, Cristiano Cavina, Lorenza Ghinelli, Gianni Gozzoli, Mariangela Gualtieri, Carlo Lucarelli, Mario Missiroli, Simona Vinci, Francesco Zani, Riemersi - Romagna 2023, storie per un’alluvione, Solferino, 2023.
Ecoscienza, Arpae, n.5/2023.
Rapporto della Commissione tecnico-scientifica, Regione Emilia Romagna, 2023.
Rapporto sulle condizioni di pericolosità da alluvione in Italia e indicatori di rischio associati, ISPRA, 2021.
Piano di gestione del rischio di alluvioni, Regione Emilia-Romagna, 2021.

 


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