Al di là delle passerelle e delle controversie costruite ad arte per distrarre dai giochi, la partecipazione alle Olimpiadi per gli atleti che provengono da Paesi coinvolti in conflitti definiti “estremi”, ha il significato di testimonianza e di ricerca di un’identità. Avranno vinto se saranno riusciti a far parlare della loro terra e dei loro popoli. Raccontare la loro storia vuol dire prendere parte al vero spirito olimpico.
Giorgia Meloni non è Enrico di Navarra, che abiurò il calvinismo per il cattolicesimo pur di conquistare Parigi, nella quale fu incoronato re nel 1594. Né Angela Carini è Nino Benvenuti, campione olimpico dei pesi welter nel’60. Alla fine del ‘500 la Francia era devastata dalla guerra civile, oggi (luglio 2024) sono oltre 50 i conflitti in corso nel mondo, 10 dei quali definiti “estremi” per letalità, pericolo, diffusione e frammentazione del territorio e della popolazione. Con quanto sta succedendo in Medio Oriente in questi giorni il numero dei conflitti estremi rischia di aumentare.
La guerra è una presenza cronica, è un determinante della salute per un’ampia quota della popolazione mondiale, ma ha un suo ruolo e priorità nell’informazione. La drammaticità degli eventi a Teheran, in Libano, in Yemen, in Palestina non viene ignorata, ma risulta attenuata dalle imprese olimpiche e dalle manipolazioni di informazioni, in realtà, scarsamente informate e usate a supporto di una politica nazionale lontana da “quell’arte nobile e difficile” che dovrebbe essere. Una politica che ha contribuito alla costruzione del caso Khelif alimentato dalla Russia, esclusa insieme alla Bielorussia dalla partecipazione ai Giochi olimpici per l’invasione della Ucraina e quindi in contrasto con il Cio.
Tra i 203 Comitati olimpici nazionali, a Parigi con circa 10.500 atleti partecipanti sono presenti tutti i dieci Paesi in “conflitto estremo”. Per la Palestina, il primo dell’elenco, che schiera otto atleti, sette partecipano grazie a un invito da parte del Cio, mentre solo un atleta, Omar Ismail, ha ottenuto la qualificazione nel taekwondo maschile. Solo due atleti si allenano in Palestina. Portabandiera alla cerimonia di inaugurazione è stata la nuotatrice Valerie Tarazi, scelta perché proviene da una delle famiglie più antiche di Gaza. Presenza simbolica, ma importante come testimonianza per un popolo che rivendica il diritto al riconoscimento internazionale, alle prese invece con il diritto alla sopravvivenza.
L’universalità dei diritti umani è purtroppo ancora largamente disattesa e quella rappresentata dai Giochi olimpici appare spesso messa in discussione proprio a partire dall’interpretazione dei valori e principi alla base dell’armonico sviluppo di ogni realtà sociale: rispetto, fratellanza, lealtà, promozione della pace, comprensione, solidarietà, fair play. Valori che mutano nel tempo e categorizzati per importanza, così che i valori ormonali sembrano diventare quelli prioritari, come nel caso della pugile algerina dove sembrano indicare il tentativo di ridurre la molteplicità dell’essere umano riconducendo la variabilità sessuale alle sole caratteristiche sessuali biologiche, ignorando l’identità dei singoli. Un tentativo artificioso di definire una “normalità” che la manipolazione politica ha trasformato in un caso mediatico posto in termini errati e irrazionali. Era stato il caso della sudafricana Caster Semenya alle Olimpiadi di Londra del 2018, ma è il caso anche di Lin Yu Ting, atleta di Taipei, in quelle odierne a Parigi.
Casi, comunque, non abbastanza coinvolgenti per riuscire a distrarre l’attenzione a opera di alcuni politici italiani. Infatti “Parigi val ben una messa” se lo scopo implica, oltre alla costruzione di una controversia, il sacrificio di un viaggio a Parigi del presidente del Consiglio.
Eppure di casi, non per distrarre l’attenzione dagli eventi sportivi, ma per offrire sguardi e suggerire riflessioni più ampie, i Giochi olimpici di Parigi ne offrono molti. Dopo la Palestina, un altro è quello del Sud Sudan e del Sudan.
Il Sud Sudan partecipa con 14 atleti, una squadra di basket. Stato del centro-est africano, senza sbocchi sul mare. Popolazione di 11 milioni di residenti, come la Lombardia, e un territorio doppio di quello italiano nella maggior parte coperto da foreste tropicali, paludi e prati. Stato indipendente dal 2011, sebbene il conflitto tra le due etnie maggioritarie (la Dinka del presidente in carica e quella Nuer) continui. Nel 2014 si contarono oltre 50.000 vittime del conflitto (complessivamente si stima siano state oltre 400.000). Crimini di guerra perpetrati da decenni anche dall’esercito sudanese con la complicità delle multinazionali petrolifere per lo sfruttamento dei giacimenti soprattutto nella zona nord di Abyei al confine con il Sudan. Tra i Paesi più poveri e martoriati del mondo: oltre l’80% della popolazione necessita di assistenza in una situazione umanitaria caratterizzata da prolungati sfollamenti (2,02 milioni di sfollati interni e 2,3 milioni di rifugiati sud sudanesi nei paesi vicini di Uganda, Kenya, Etiopia, Sudan e Repubblica Democratica del Congo), conflitti localizzati, ricorrenti inondazioni e siccità, epidemie, svalutazione della valuta, insicurezza alimentare, malnutrizione, disuguaglianza ed esclusione sociale. Il Sud Sudan è a Parigi con una squadra di basket costruita da Luol Deng, un ex rifugiato diventato una stella della Nba (una delle leghe professionali del basket americano), con il progetto di creare una delle migliori squadre in Africa, così come il Kenya o l'Etiopia fanno per l'atletica leggera o come fa la Giamaica nello sprint.
In un Paese dove non esiste ancora un palazzetto o un campo coperto, prevalgono la volontà e il sogno (e le risorse economiche) di Deng e dei giocatori raccolti in squadre sparse per il mondo, là dove sono approdati come richiedenti asilo dopo essere passati da campi profughi. Come Numi Omot, che ora gioca in G League a New York, o come Bol Bol, che gioca negli Orlando Magic, ed è il figlio di Manute Bol, alto 2 metri e 31 cm, che giocò nella Nba negli anni ’90 dopo essere partito come pastore di pecore da un villaggio di Turalei. Una storia di riscatto famigliare. Una storia, anche, della distrazione storica, politica, culturale, umanitaria quella esemplificata dagli organizzatori che alla presentazione delle squadre alla prima partita del Sud Sudan hanno mandato in onda l’inno del Sudan invece di quello del Sud Sudan (!).
Essere a Parigi, gareggiare alla pari con team blasonati del basket può sembrare una distorsione del reale, un’inappropriata scelta rispetto alle priorità che minacciano la sopravvivenza di un intero Paese. Eppure, questa partecipazione è segno di speranza, è un’indicazione della forza dell’aggregazione e condivisione di volontà e valori. In un Paese dove 10 bambini ogni 100 nati non arrivano al compimento dei 5 anni d’età (in Sudan 6 ogni 100, in Italia 3 ogni 1000), dove il 31% dei bambini con un’età inferiore ai 4 anni soffre di malnutrizione medio-grave (il 34% in Sudan), le priorità sono altre.
Eppure la partecipazione ai Giochi olimpici è testimonianza di esistenza e la rivendicazione di diritti e di attenzione. È la testimonianza e la rivendicazione dei sette palestinesi per un popolo vittima di guerra e che a Gaza si trova ad affrontare condizioni di emergenza di insicurezza alimentare caratterizzate da malnutrizione acuta. È la testimonianza dei tre atleti del Sudan, un Paese in perenne conflitto sin dalla sua indipendenza del 1956, dove oltre i tre quarti dei 42 milioni di abitanti sono a rischio di morte per fame e se il conflitto continua a intensificarsi, gran parte del Sudan potrebbe precipitare in una carestia conclamata.
L’obiettivo n. 2 dall’Agenda per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni unite prevede di porre fine alla fame entro il 2030, ma in questo contesto mondiale sembra proprio un obiettivo impossibile da raggiungere. Un Paese, il Sudan, dove l’aspettativa di vita delle donne è di 68 anni (57 in Sud Sudan e 85 anni in Italia), dove la violenza sessuale, così come i matrimoni forzati di donne e bambini sono diffusi. Tra l’aprile 2023 e il febbraio 2024 sono state 262 le donne sopravvissute a violenza sessuale di età compresa tra 9 e 60 anni.
La maggioranza degli atleti giunti a Parigi, il podio nemmeno lo sogna. Per molti però è il viaggio della vita, da realtà dove non ci sono palestre, divise, attrezzature, risorse, dedicate allo sport perché le necessità sono altre. Eppure partecipano per sé e per gli altri connazionali. Possono vincere la loro Olimpiade se qualcuno si accorge di loro, racconta la loro storia, la situazione di vita del loro popolo. I Giochi olimpici sono esperienze di divertimento e di formazione anche per chi si limita a seguirli in TV: dipende dai valori di riferimento.