fbpx Ostacolare la scienza senza giovare agli animali: i divieti italiani alla sperimentazione

Ostacolare la scienza senza giovare agli animali: i divieti italiani alla sperimentazione

sagoma di macaco e cane

Divieto di usare gli animali per studi su xenotrapianti e sostanze d’abuso, divieto di allevare cani e primati per la sperimentazione. Sono norme aggiuntive rispetto a quanto previsto dalla Direttiva UE per la protezione degli animali usati a fini scientifici, inserite nella legge italiana ormai dieci anni fa. La recente proposta di abolizione di questi divieti, penalizzanti per la ricerca italiana, è stata ritirata dopo le proteste degli attivisti per i diritti degli animali, lasciando in sospeso un dibattito che tocca tanto l'avanzamento scientifico quanto i principi etici e che poco sembra avere a che fare con il benessere animale.

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Da dieci anni, ormai, tre divieti pesano sul mondo della ricerca scientifica italiana. Divieti che non sembrano avere ragioni scientifiche, né etiche, e che la scorsa settimana avrebbero potuto essere definitivamente eliminati. Ma così non è stato: alla vigilia della votazione dell’emendamento, inserito del decreto Salva infrazioni, che ne avrebbe determinato l’abolizione, l’emendamento stesso è stato ritirato. La ragione? Questi divieti riguardano la sperimentazione animale, e i gruppi di attivisti per i diritti degli animali hanno reagito in modo coordinato, con la pubblicazione di un comunicato stampa e una fitta azione sui social media, per protestare contro la proposta di emendamento. Un’azione che per il vero non dovrebbe stupire, anzi avrebbe dovuto essere considerata preventivabile, ma che è stata sufficiente a far fare una rapida retromarcia a Luciano Ciocchetti, il deputato di Fratelli d’Italia che aveva proposto l’emendamento. Ma la questione non è solo di colore politico, dal momento che un emendamento identico era stato proposto anche dall’opposizione che, pur non essendo stata oggetto delle proteste degli attivisti, lo ha comunque anch’essa ritirato.

I tre divieti in questione riguardano l’uso degli animali per gli studi sugli xenotrapianti d’organo (cioè tra specie diverse); per quelli sulle sostanze d’abuso; e la possibilità di allevare alcune specie (cani, gatti e primati non umani) per destinarle alla sperimentazione. Come fa notare sul suo sito Research4Life, piattaforma dedicata all’informazione e alla comunicazione sulla sperimentazione animale, questi divieti non sono giustificabili. Non è solo un problema di ingiustificabilità scientifica ma anche, a ben guardare, di etica – quella stessa etica chiamata in causa proprio per giustificare i divieti stessi.

Prendiamo i primi due casi, quello della ricerca sugli xenotrapianti d’organo e sulle sostanze d’abuso. Entrambi sono campi per i quali evitare il ricorso agli animali è oggi impossibile. Certo, i modelli in vitro possono dare un contributo in alcuni tipi di test (per una prima scrematura dell’efficacia di un farmaco pensato per il trattamento del disturbo da uso di alcol, tanto per fare un esempio), ma come si può pensare di studiare la pratica degli xenotrapianti, che per loro definizione richiedono un organismo di una specie diversa dalla nostra, senza far ricorso a questo organismo? Nessun organoide, per quanto avanzato, assomiglia a sufficienza a un organo reale. Discorso simile per quanto riguarda lo studio delle dipendenze: i disturbi da uso di sostanze, come sono più precisamente classificati, hanno basi complesse, in cui fattori genetici e ambientali si intrecciano. Come può una coltura cellulare replicare l’effetto dell’esperienza e dei legami sociali? O l’individualità di ciascun organismo, che lo rende più o meno a rischio di sviluppare questi disturbi?

Il divieto di usare gli animali per gli studi sulle sostanze d’abuso pone anche un altro problema: per legge, tutte le sostanze in grado di attraversare la barriera ematoencefalica e raggiungere il cervello devono essere testate per il loro potenziale d’abuso. Tra queste ci sono, per esempio, i farmaci per il trattamento di disturbi neurologici, come la malattia di Alzheimer. Quelli per il trattamento del dolore, per esempio in campo oncologico. Quelli per malattie psichiatriche come i disturbi d’ansia o la depressione. Senza animali, e quindi nell’impossibilità di rispettare la normativa internazionale, in Italia tutti questi test non potrebbero più essere eseguiti.

Insomma, in entrambi i casi i divieti di usare gli animali implicano di fatto l'arrestare la ricerca in questi campi; al momento, la loro applicazione è per il momento rimandata a luglio 2025 (le proroghe vanno avanti, con cadenza quasi annuale, fin dal 2014), ma se entrassero definitivamente in vigore, opzione tutt’altro che impossibile, in Italia ogni gruppo di ricerca che lavora in questi contesti dovrebbe trovarsi qualcos’altro da studiare. Se questo è il problema più strettamente scientifico, quello etico non è meno significativo. Arrestare la ricerca in questo ambiti specifici e non negli altri significa che per alcune malattie e necessità mediche si può continuare a lavorare, per altre no. In pratica, significa discriminare alcuni gruppi di persone malate.

Punto cruciale della contestazione degli attivisti è stato però il terzo divieto, quello di allevamento di cani, gatti e primati per la sperimentazione. L’accusa è quella di voler «riaprire i canili lager», la memoria quella del caso di Green Hill. Eppure, evidenzia Research4Life, la possibilità di allevare sul territorio nazionale queste specie avrebbe proprio l’obiettivo opposto: garantire maggior tutela agli animali.

I cani e la stragrande maggioranza dei primati sono usati in Italia per quello indicato come “scopo regolatorio”, ossia i test previsti per legge per l’immissione e in mantenimento di alcune sostanze sul mercato (non si parla solo di farmaci, ma anche, per esempio, di mangimi e alimenti). Non potendo essere allevati, a oggi devono essere importati dall’estero, elemento che già da solo è controproducente in termini di benessere animale, perché implica la necessità di farli viaggiare, facilmente più a lungo di quanto avverrebbe sul territorio nazionale, causando un inevitabile stress.

Ma c’è anche un altro elemento da considerare. Se i cani possono essere importati da allevamenti europei, nei quali devono essere garantiti standard precisi per gli animali, per i primati questo è pressocché impossibile, perché gli allevamenti UE non sono sufficienti a rispondere alle necessità attuali della ricerca. Così, i primati arrivano prevalentemente da allevamenti situati in Africa o in Asia, nei quali però il controllo sulle condizioni di vita e di benessere fisico e psicologico è sostanzialmente impossibile, così come lo sono i controlli per evitare i prelievi in natura. Certo, questo è un problema condiviso a livello europeo: ancora Research4Life, analizzando i dati rilasciati ogni anno dalla Commissione europea, segnala che in tutta l’UE circa il 50% dei primati è ancora di origine africana. Certo anche, però, che vietare gli allevamenti in Italia è ostacolare la risoluzione del problema, non certo contribuire a risolverlo. E a pagarne le conseguenze sono intanto gli animali.

 


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