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Comunità riflessive. Il ruolo delle università nel mondo di oggi

libri con lampadina accesa

Pubblichiamo il discorso di Patrizia Nanz, presidente dell’Istituto Universitario Europeo, tenuto per la Yves Mény Annual Lecture allo Robert Schuman Centre il 1° ottobre 2024 a San Domenico di Fiesole. La traduzione è a cura di Ilaria Agostini.

Tempo di lettura: 20 mins

[…] Il mio discorso di oggi verte sul ruolo delle università nelle società contemporanee. Permettetemi di iniziare con una semplice osservazione, che sono sicura sarà familiare a tutti: le università sono sotto attacco. Gli esempi abbondano, ma vale la pena ricordarne alcuni.

Nel 2021, alla conferenza del National Conservatism, J.D. Vance – l’attuale vicepresidente della lista di Trump – ha detto, citando Nixon, che “i professori sono il nemico”. Ha preso di mira le università come un campo di battaglia chiave, accusandole di preoccuparsi non della verità ma dell’ideologia. Vance ha affermato di non volere che il denaro pubblico vada all’insegnamento della teoria critica della razza, ma di quello che ha definito “un resoconto patriottico della storia americana”.

Questo non è solo un fenomeno statunitense. In Ungheria, il governo di Viktor Orbán ha sfrattato la Central Europe University – tra i nostri partner istituzionali […] – con il pretesto che le università straniere che operano in Ungheria devono avere un campus pienamente operativo nel loro paese d’origine.

Tali attacchi possono trasformarsi in pratiche. Nel 2011, il miliardario tecnologico Peter Thiel (co-fondatore di PayPal) ha lanciato un programma di borse di studio che offre sovvenzioni di $ 100.000 ai giovani “che vogliono costruire cose nuove invece di stare seduti in un’aula”. La borsa di studio viene assegnata per non frequentare le università o per smettere di farlo, in nome dell’innovazione dirompente.

In un’atmosfera del genere, non c’è da meravigliarsi che gli amministratori accademici, i docenti e gli studenti si sentano insicuri riguardo al loro ruolo, alle finalità del proprio lavoro, al loro posto e al loro futuro.

Un chiaro sintomo di questo malessere è stato il proliferare di formule che cercano di reinventare l’università. Abbiamo avuto l’Università Creativa, l’Università Ecologica, l’Università Civica, la Buona Università, l’Università Critica; potrei continuare: l’Università Morale, l’Università Abbondante, l’Università Responsabile… Con ogni nuovo espediente, diventa più difficile prendere sul serio il successivo. Le università sono costantemente sollecitate dai consulenti a reinventarsi in risposta a ogni nuova tendenza. Come se il solo fatto di essere un’università non bastasse.

Gli attacchi alle università hanno provocato risposte difensive. In un clima cupo in cui la democrazia e i valori liberali stanno perdendo terreno, le università tendono a vedersi come un baluardo di questi valori. Per molti versi, lo sono.

Dopotutto, gli “studi umanistici” sono stati un pilastro nello sviluppo dell’università moderna. La vita accademica si basa su valori che possono essere inespressi – tolleranza, inclusività, uguaglianza, pace e così via – ma che sono necessari per il progresso della conoscenza.

Le reazioni difensive sono comprensibili. Ma potrebbero avere un costo.

A volte c’è un elemento di compiacimento in queste reazioni, che tende a trasformare le università in piccole società parallele, nelle mani di un’élite, isolata dal resto della popolazione. Le università finiscono per adattarsi all’immagine che i loro avversari cercano di imporre loro: isole liberali in una marea montante di conservatorismo autoritario.

Di conseguenza, spesso appaiono come istituzioni ripiegate su se stesse, impegnate a difendere i propri interessi corporativi e sempre più in contrasto con le condizioni sociali ed economiche della maggioranza. Tutto questo finisce per alimentare attacchi anti-intellettualisti, caratteristica del “populismo”.

Come possiamo riprendere in mano l’iniziativa? Come possiamo reimmaginarci in termini che non siano semplicemente quelli di “resistenza”, e quindi non dettati da altri? Nel tentativo di rispondere a queste domande, vorrei fare un passo indietro.

Saremmo miopi a interpretare l’attuale crisi dell’università esclusivamente in termini di crescente autoritarismo o di guerre culturali. Questi attacchi hanno una storia più lunga. È più produttivo vederli come l’espressione più radicale ed estrema di una sfida all’autonomia delle università che va avanti da decenni, ed ha assunto forme differenziate.

Prendiamo la borsa di studio Thiel, che si basa sull’idea che l’università non ha altro scopo se non quello di essere dispensatrice di beni produttivi e capitale umano. Al di là della cortina fumogena delle guerre culturali, per i critici più violenti dell’istruzione superiore di oggi, il problema dell’università non è tanto la “Critical Race Theory”, o la cosiddetta cultura “woke”, ma l’esistenza stessa di istituzioni che non sono pienamente flessibili alle esigenze della produzione di valore economico.

A partire dagli anni ’70, la trasformazione delle società occidentali, etichettata in vario modo (“società post-industriale“, informatisation de la société, “economia della conoscenza”), ha portato a un profondo sconvolgimento del ruolo delle università, rendendole al contempo un luogo strategico di contestazione.

I movimenti studenteschi che presero avvio nel 1967-1968 illustrano chiaramente le tensioni che ne derivarono. Hanno cercato di rendere l’università un luogo di auto-realizzazione e auto-creazione, contemporaneamente contro il suo ruolo tradizionale nella riproduzione delle gerarchie sociali e nel disciplinamento del lavoro cognitivo.

Con i successivi shock petroliferi degli anni ’70, gli sforzi per compensare la crisi di produttività hanno incluso le innovazioni tecnologiche, non diversamente da quanto viene proposto oggi nella relazione Draghi, su cui tornerò. In questa nuova configurazione, le università divennero sempre più centrali nei circuiti della produzione economica.

Sono sicura che pochi, in questa sala, hanno particolare simpatia per la “postmodernità” o, di conseguenza, per il libro pubblicato da Jean-François Lyotard nel 1979, La condition postmoderne. In origine, si trattava di un rapporto sulla “conoscenza contemporanea”, commissionato dal Consiglio universitario del governo del Québec.

Quali che fossero i suoi difetti, il libro è stato probabilmente un allarme precoce del disaccoppiamento della conoscenza da un ideale di autorealizzazione, della Bildung, che faceva parte delle “grandi narrazioni” del progresso storico e della giustizia sociale tipiche della modernità.

Un criterio generale per definire ciò che vale la pena sapere e come, era scomparso, o sembrava un desiderio ingenuo. Restavano, invece, solo forme autonome di conoscenza, disposizioni epistemiche locali, più o meno sovrapposte, ma fondamentalmente eterogenee.

Come si potrebbe stabilire il loro valore? Come potrebbero le società navigare in una tale molteplicità di forme di conoscenza e quindi di forme di vita?

Il libro segnalò inoltre l’emergere di nuovi strumenti destinati a navigare e domare questo panorama: benchmarking, metriche o indicatori chiave di prestazione. In assenza di un quadro generale che stabilisca gerarchie di conoscenza, si assiste a uno sforzo costante per rendere commensurabili le varie forme di conoscenza e per metterle in relazione tra loro.

A posteriori, Lyotard fu lungimirante. Nel 2002, un rapporto della Banca Mondiale sull’istruzione superiore intitolato Constructing Knowledge Societies [Costruire società della conoscenza] ha confermato le tendenze che Lyotard aveva identificato più di vent’anni prima. “La conoscenza“, dicevano i rapporti, “è diventata il fattore più importante nello sviluppo economico”. E le università sono luoghi cruciali per la mobilitazione dei beni produttivi e del “capitale umano”.

Ma come si mobilita al meglio la “conoscenza”? Per consentire alle università di rispondere rapidamente ai cambiamenti del mercato del lavoro e di adattarsi rapidamente ai cambiamenti tecnologici, la relazione ha chiesto regimi di maggiore flessibilità per il personale accademico e valutazione delle loro prestazioni. Ciò includeva l’abbandono del sistema di servizio civile per le università.

Ciò che più colpisce in questo tipo di letteratura è il modo in cui le implicazioni pratiche di metafore come l'”economia della conoscenza” vengono illustrate. Se si prende sul serio l’idea che la conoscenza è una risorsa economica, allora il suo valore è meglio determinato dai meccanismi di mercato: quello che viene effettivamente chiamato il “mercato delle idee”. E affinché questo mercato funzioni in modo efficiente, è necessario rimuovere rigidità, come il ruolo e il sistema delle discipline, poiché non sembrano favorire le scoperte tecnologiche.

Quali sono state le conseguenze di tali politiche, per le università?

In primo luogo, un cambiamento radicale della struttura delle carriere accademiche e delle condizioni del lavoro accademico. L’esplosione dei contratti a tempo determinato, come la docenza a contratto, è diventata la nuova norma; la crescente scarsità di cattedre. I dottori di ricerca devono spesso passare attraverso una serie di posizioni post-dottorato, una sorta di via dolorosa dell’economia della conoscenza.

È fondamentale tenerlo a mente, e ricordarsi che i nostri studenti non stanno affrontando lo stesso futuro che abbiamo affrontato noi. E che ci stiamo impegnando con loro da posizioni che sono sempre più viste come privilegiate.

In secondo luogo, sarebbe ingenuo credere che questi drammatici cambiamenti nell’organizzazione della forza lavoro accademica non abbiano conseguenze per il tipo di conoscenza che viene prodotta.

Eppure, la sottovalutazione di questa connessione è il punto debole della maggior parte delle dichiarazioni sull’argomento.

La conoscenza non è una materia quantificabile come “informazione”, che può essere prodotta in modo più o meno efficiente senza cambiare la sua natura. Il modo in cui produciamo conoscenza modella il tipo di conoscenza che produciamo. Permettetemi di farvi un paio di esempi.

La maggior parte di voi, ne sono certa, conoscerà il libro che, nel corso della sua lunga vita, è diventato la pietra angolare degli studi sull’Olocausto: La distruzione degli ebrei europei di Raul Hilberg. Quando è stato pubblicato, nel 1985, è stato il primo tentativo di uno studio completo della Shoah.

È stato anche il risultato di un lavoro lungo e solitario. Ci sono voluti più di trent’anni per realizzarlo. Hilberg aveva iniziato a lavorarci nel 1948, in un momento in cui era presente una diffusa riluttanza ad affrontare l’argomento. Il consiglio che ricevette fu di starne alla larga. Gli accademici erano disinteressati, gli editori infastiditi. Eppure, ha insistito per decenni.

Nella sua prefazione, Hilberg è sincero su ciò che ha reso possibile questo libro: la cattedra in un’università pubblica, che gli ha dato “il sostegno che solo un’istituzione accademica può fornire”, con cui intendeva: un lavoro stabile, periodi sabbatici e fondi di ricerca occasionali.

Ora, nessuno metterebbe in dubbio che questo libro sia importante non solo come un grande risultato di erudizione, ma più in generale per la storia europea e per l’autocomprensione delle società europee. Sicuramente, questo è il genere di cose che un’università dovrebbe fare. E sfortunatamente, pensare al genocidio non è diventato meno rilevante.

Ma un libro del genere sarebbe possibile nell’attuale ecosistema della conoscenza accademica? La risposta, senza dubbio, è un sonoro “no”.

Che tipo di bando sosterrebbe un progetto del genere, avviato quando l’argomento è stato ritenuto irrilevante? Quale schema di finanziamento scommetterebbe su un’impresa che avrebbe potuto ripetutamente fallire? Quando Hilberg iniziò nel 1948, avrebbe potuto distillare la sua visione in un elenco di “prodotti” e “slot di lavoro”? Non credo.

Lasciate che vi faccia un altro esempio, più vicino a me. Il mio ex mentore e primo supervisore di dottorato, Jürgen Habermas, mi ha recentemente detto che non avrebbe mai potuto avere successo nelle università di oggi. Non ha mai fatto domanda per una borsa di ricerca in vita sua, ma ha scritto venti libri.

In Between Facts and Norms egli presenta una teoria deliberativa del diritto e della democrazia che va oltre la tradizione liberale. Questo libro di 600 pagine ha influenzato, più di qualsiasi altro documento politico, la stesura del Libro bianco sulla governance europea (che, per quanto ne so, è uno dei primi tentativi di coinvolgere i cittadini nella politica dell’UE). Questo è ciò che mi ha detto, quando ero ricercatrice, Jérôme Vignon, capo della Task Force della Cellule de perspective della Commissione, in visita all’IUE nel 2001.

Dobbiamo chiederci se nella trasformazione delle università si sta perdendo qualcosa. Se cerchiamo di misurare e controllare ogni aspetto della produzione di conoscenza, rischiamo di perdere la capacità di interagire in modo significativo con il mondo che ci circonda. Quello che una volta era il progetto della modernità – la spinta a mettere il mondo interamente a nostra disposizione – ora può far sì che il mondo ci scivoli tra le dita… Il sociologo Hartmut Rosa descrive questo come la perdita di risonanza.

Sarebbe davvero una perdita enorme se le università cessassero di essere uno spazio per il libero esercizio dell’intelligenza, libero nel senso di non essere soggetto a una logica di utilità immediata e misurabile. Uno spazio che permetta alla società di riflettere su se stessa. Uno spazio critico.

Permettetemi di aggiungere un terzo tipo di conseguenza. Se si suppone che il “mercato delle idee” elimini la cattiva conoscenza e selezioni la conoscenza buona (o “utile”), si finisce con un problema di validità epistemico. Ancor prima che ci se ne accorga, non si può più dare un valore riconosciuto alla conoscenza.

Uno scienziato formatosi per decenni, un agile auto-promotore o persino un influencer che vende l’ultima “trovata”: chi può dire che uno sia migliore dell’altro se il valore della conoscenza è determinato dalla gara di popolarità innescata dalla selezione del mercato? Si arriva così alla “crisi delle competenze”.

Il nostro punto è che, senza una qualche forma di autocomprensione riflessiva, la produzione di conoscenza e l’innovazione, oltre a non essere sufficienti, sono forse autodistruttive.

So che alcuni di voi si aspettano che io parli della relazione Draghi. Non vi deluderò.

La relazione si occupa nientemeno che del futuro dell’Europa, e in quanto tale è notevole e lodevole. Draghi invita l’Europa a un “cambiamento radicale” di fronte a un futuro incerto, se non addirittura minaccioso, non solo a causa delle turbolenze geopolitiche e del futuro del cosiddetto ordine internazionale liberale, che sono già abbastanza seri.

Tutti i valori su cui è stata costruita l’Europa sembrano infatti essere minacciati: prosperità, equità, libertà, pace, democrazia. Nella prefazione del rapporto si legge che “le fondamenta su cui siamo costruiti stanno vacillando”.

Allo stesso tempo, il susseguirsi di crisi che hanno richiesto risposte immediate (la pandemia di COVID-19, la crisi finanziaria del 2008, la guerra in Ucraina) e le tre transizioni che secondo Draghi sono essenziali per il futuro dell’Europa (in merito a tecnologia, decarbonizzazione e sicurezza) non dovrebbero oscurare la sfida più difficile del nostro tempo: la trasformazione delle nostre società verso la sostenibilità.

Per assicurare un futuro del pianeta alle generazioni future, abbiamo bisogno di una trasformazione fondamentale del nostro modo di vivere. Penso che possiamo essere tutti d’accordo su questa diagnosi. E sicuramente dovremmo prendere la pubblicazione del rapporto come un invito a riflettere su come una tale trasformazione possa avvenire. In questo, ovviamente, le università hanno un ruolo importante.

Tuttavia, le tre transizioni proposte richiedono molteplici strategie di attuazione. Richiedono immaginazione sociale, intelligenza normativa e pensiero critico. Quali modelli di società ed economia più sostenibili possiamo immaginare?

Possiamo pensare alla “sicurezza” in modi nuovi, lontano da quella che è stata chiamata la “cartolarizzazione” di tutti gli aspetti della vita? Non dovremmo pensare al futuro in termini di pace, piuttosto? Quale ipotesi di futuro sarà capace di soddisfare le aspirazioni diffuse? Possiamo fare in modo che le istituzioni democratiche siano in grado non solo di “sostenere” (come dice Draghi) ma anche di plasmare le trasformazioni sociali?

Dobbiamo non solo adattarci alle incertezze e “prepararci a un futuro in rapida evoluzione”, ma anche cercare in modo proattivo un futuro più sostenibile ed equo.

Certo, dovremmo abbracciare l’innovazione, ma non possiamo farlo senza pensare anche alla direzione generale delle trasformazioni sociali che l’innovazione determina.

Dovremmo anche diffidare della zavorra che deriva dal termine innovazione. Quasi mai definito, è decorato con immagini di scoperte di nerd e l’energia di start-up di imprenditori cool.

Eppure, direi che semplicemente non sappiamo e non possiamo sapere come realizzare l’innovazione. Possiamo coltivare solo ambienti in cui essa può avvenire. La sociologia e la storia hanno dimostrato che la scoperta non è mai il risultato dell’intelligenza individuale. È sempre il prodotto di una collaborazione diffusa, di conoscenze accumulate e di un’infrastruttura cruciale e ricca di risorse come quella delle università pubbliche. Solo la combinazione di università e imprenditorialità finanziate con fondi pubblici ha portato alla creazione di Google.

Nessuna delle principali conquiste tecnologiche degli ultimi decenni – da Google all’intelligenza artificiale – sarebbe stata possibile senza i massicci investimenti nei beni comuni intellettuali delle università che hanno caratterizzato i decenni del dopoguerra del XX secolo. Non c’è dubbio che attingere a questi beni pubblici e collettivi abbia dato a molte aziende un vantaggio – che è solo un altro modo per dire che hanno beneficiato del capitale cognitivo e del lavoro gratuito.

O, per dirla in altro modo, l’“innovazione” è stata spesso una questione di appropriazione dei beni comuni intellettuali. E, come dice giustamente Draghi, potrebbe non andare avanti all’infinito in assenza di rinnovati investimenti in questi beni comuni intellettuali.

Ma l’innovazione è anche relativa. Risponde a specifiche esigenze sociali. Il rapporto Draghi è esplicitamente indicizzato a una specifica configurazione geopolitica. Ma in tempi di incertezza come i nostri, è difficile dire come sarà il domani. E quali circostanze impreviste richiederanno un insieme completamente nuovo di competenze, politiche, soluzioni e tecnologie.

Resilienza significa anche promuovere conoscenze e competenze, la cui utilità non può essere determinata oggi, ma che potrebbero rivelarsi fondamentali domani. In altre parole, se vogliamo promuovere l’innovazione, come suggerisce Draghi, dobbiamo garantire che il ruolo delle università come beni comuni intellettuali non solo sia protetto, ma sia anche coltivato.

Non riesco a pensare a un luogo migliore per riflettere su questi temi del Robert Schuman Centre, perché è una di quelle rare istituzioni chiamate Institute for Advanced Study. L’idea di base di un istituto per gli studi avanzati è stata formulata a Princeton, in un saggio del suo direttore fondatore, Abraham Flexner, il cui titolo è L’utilità della conoscenza inutile.

Potrebbe essere rilevante oggi come lo era nel 1939, quando fu pubblicato per la prima volta. Flexner dimostrò che porre domande profonde, motivato dalla curiosità e senza preoccuparsi dell’applicazione, spesso portava non solo a importanti scoperte scientifiche, ma anche alle scoperte tecnologiche più rivoluzionarie. In breve: niente meccanica quantistica, niente chip per computer.

Le società possono raggiungere una comprensione più profonda e un progresso pratico incoraggiando – e finanziando – la ricerca di base, libera, in un ambiente in cui gli studiosi (come dice Flexner) “godono di condizioni favorevoli alla riflessione” e “non si tengono riunioni di facoltà; non esistono comitati”.

Nel mondo frenetico di oggi, gli Istituti di Studi Avanzati sono ancora spazi per processi lenti, spesso non lineari, di maturazione della conoscenza. Sono collettivi di pensiero che apprezzano la qualità rispetto alla quantità in termini di risultati della ricerca. E non soffocano gli aspetti intuitivi che spesso sono legati all’esperienza vissuta e alle scoperte inaspettate.

Il modello di successo di Princeton di un Institute for Advanced Study ha un forte sostegno, non da ultimo dal suo consiglio di amministrazione. E Mario Draghi ne è membro…

Tutto ciò riguarda il ruolo delle scienze sociali e umanistiche oggi. Dalla stampa all’intelligenza artificiale, l’innovazione tecnologica è un motore per il cambiamento sociale. Attualmente manca un quadro teorico e concettuale che ci permetta di comprendere adeguatamente le interconnessioni tra le dimensioni materiali, tecnologiche, sociali e politiche della trasformazione.

Comprendere queste dimensioni e le loro complesse dinamiche, valutarne normativamente i valori e gli obiettivi contrastanti, è oggi più necessario che mai.

Le scienze sociali e umanistiche hanno un altro importante contributo da dare. E va oltre la lungimiranza strategica: non si tratta di proiettare nel futuro traiettorie passate o presenti e valutarne le diverse conseguenze. Si tratta di usare la nostra immaginazione sociale al di là dell’esistente e di rimanere aperti a futuri alternativi.

Abbiamo tutta la conoscenza del mondo a portata di mano. Ciò di cui abbiamo bisogno più che mai è la creatività umana che le macchine non hanno. Soprattutto quando la politica sembra aver abbandonato la sua ambizione di pensare al futuro in termini trasformativi – si pensi allo slogan “la fine della storia”, che non è tanto un’affermazione sul mondo quanto un’affermazione sulla stanchezza della nostra immaginazione politica – le università possono essere il terreno fertile della nostra capacità di auto-invenzione.

Permettetemi di riassumere brevemente l’essenza della nostra argomentazione fino ad ora, prima di passare all’ultima parte della lezione.

Abbiamo sostenuto che le università sono vittime di pressioni politiche, sociali ed economiche che, negli ultimi decenni, hanno cercato di trasformarle in catene di montaggio nell’economia della conoscenza.

Troppo spesso, la reazione del mondo accademico, soprattutto nelle scienze sociali e umanistiche, si è manifestata nella rinuncia alle tradizionali rivendicazioni di autonomia e nell’ulteriore isolamento dal mondo sociale – la famosa immagine della torre d’avorio.

Possiamo seguire una rotta che eviti questi pericoli? Possiamo immaginare università che siano aperte alla società e impegnate con essa, pur mantenendo la loro autonomia?

Non c’è dubbio che le università non abbiano più il monopolio della produzione di conoscenza. Sono nodi – probabilmente nodi principali – nelle reti di conoscenza che permeano la società. Ma quali sono le loro specificità?

Innanzitutto, la riflessività.

La riflessività è la capacità di esaminare le proprie convinzioni, giudizi e pratiche. Significa non solo pensare al mondo, ma anche esaminare criticamente il modo in cui lo pensiamo. In un momento in cui siamo bombardati da dati, la necessità di interpretare in modo significativo le informazioni è più che mai pressante. La riflessività non è un’esclusiva degli accademici, ma le università hanno fornito e dovrebbero continuare a fornire un ambiente favorevole alla riflessione critica.

Generando significato, le università modellano il modo in cui vediamo il mondo, il modo in cui gli diamo un senso e, in ultima analisi, il modo in cui agiamo in esso. Sono coinvolte in ciò che Hannah Arendt chiama il “politico”. Contribuiscono a definire i termini con cui viviamo insieme. Partecipano alla costruzione del “mondo che condividiamo”.

Questo è ciò che distingue le università dalle scuole, dalle agenzie di esperti, dalla formazione professionale, dalla ricerca e sviluppo aziendale. Ma è anche ciò che le mette in grado di fornire competenze, formazione manageriale o persino innovazione commerciale con il valore aggiunto della riflessività. Prendiamo l’esempio della formazione manageriale: le università offrono spazi che incoraggiano i professionisti attuali e futuri a riflettere sulla loro pratica.

La riflessività mette in evidenza anche un aspetto della conoscenza che troppo spesso manca nei dibattiti attuali: la conoscenza non è qualcosa di disincarnato e astratto, qualcosa di quantificabile che assomiglia più a “informazione”.

Non esiste conoscenza al di fuori degli individui che conoscono. Le università sono luoghi di scoperta di sé, di conoscenza di sé e di auto-creazione (quella che una volta si chiamava Bildung). E dovrebbero rimanere tali. Producono non solo conoscenza, ma persone, legami, cittadini, sistemi politici: cose che sono enormemente importanti per la salute generale delle società, ma che non possono essere completamente quantificate e misurate.

A questo proposito, permettetemi di condividere con voi alcune informazioni personali. Negli ultimi giorni e settimane, ho ricevuto diversi messaggi da studenti e ricercatori che si sono sentiti distrutti dagli eventi che si stanno svolgendo a Gaza, in Cisgiordania e in Libano. Molti di questi messaggi si riducevano a questo: alla sensazione angosciante di dover registrare privatamente una sofferenza a cui il mondo sembra incapace di rispondere.

Dobbiamo chiederci se, come università, stiamo riuscendo a fornire alle giovani generazioni il tempo, lo spazio, l’empatia e gli strumenti per elaborare questi sentimenti.

Abbiamo parlato di riflessività. Passiamo ora alla seconda specificità che le università hanno, per poter contribuire alla società, che è la loro struttura comunitaria.

Le università esistono grazie alle relazioni tra persone prima di esistere in quanto edifici e campus. L’esistenza di queste comunità dipende da un certo grado di chiusura (non tutti sono liberi di aderire), ma anche dall’apertura verso altre università, verso il loro ambiente locale, verso il loro pubblico così come verso gli attori politici o economici.

Le comunità universitarie intrattengono diverse relazioni con il loro ambiente. Tra cui le attività editoriali, la comunicazione dei risultati della ricerca, gli interventi nel dibattito pubblico, le transazioni economiche, l’occupazione, il patrimonio edilizio, le partnership ecc. Tutte queste relazioni sono i modi in cui le università sono ancorate al mondo. Tutte queste relazioni devono essere esaminate attentamente per determinare se promuovono o minano la riflessività.

Quindi: cos’è un’università concepita come una comunità riflessiva? È un’università che si impegna con la società, con le sue varie istituzioni e attori, ma che lo fa alle sue condizioni. I termini del suo impegno non possono essere dettati dall’esterno. I vari aspetti di questo impegno – finanziario, politico, sociale – dovrebbero essere costantemente esplicitati ed elaborati come oggetto di riflessione.

Oggi, le università dovrebbero garantire che la loro riflessività sia salvaguardata e che ci siano le condizioni per prosperare come comunità vivaci e impegnate. Quali sono queste condizioni?

In primo luogo, la libertà accademica: la licenza di non lasciare nulla di intatto e indiscusso.

In secondo luogo, uno spazio sicuro, uno spazio per confrontarsi con diversi punti di vista. Permettetemi di sottolinearlo: le università forniscono uno spazio sicuro, ma nel senso che è uno spazio in cui ci si può trovare in modo sicuro. Uno spazio sicuro ha senso solo se ci permette di uscire dalla nostra zona di comfort.

Non siamo qui per confermare le valute e le identità sociali, le convenzioni o le tendenze. Siamo qui per riflettere su di essi.

In terzo luogo, non saremo in grado di esercitare questa libertà e godere di questa sicurezza a meno che non ci venga dato il tempo di farlo. Questo significa un momento per leggere, scrivere, dare un senso al mondo, esplorare, sondare e impegnarsi.

Che tipo di impegno con la società potremmo desiderare?

Oggi più che mai, le università devono fornire spazi di riflessione per la società in generale. Poiché le tecnologie intelligenti e i social network continuano a erodere gli spazi pubblici a favore di silos informativi, c’è un urgente bisogno di mantenere spazi in cui è possibile sviluppare comprensione condivisa. Spazi per chiarire cosa significa trasformazione per le nostre società.

Nell’ultimo decennio, le fondazioni e alcune istituzioni governative hanno creato molti spazi per nuovi modi di guardare il mondo, per co-creare il futuro.

Per citarne solo un paio: il Center for Public Impact, che opera in tutto il mondo, e il Danish Design Center.

Tutti coinvolgono attori sociali e, nella maggior parte dei casi, ricercatori. Spesso attingono all’esperienza nell’immaginazione sociale e nella costruzione di mondi dall’arte, dalla letteratura e dal design. A volte questi spazi coinvolgono anche i cittadini. Ampliano la loro comprensione di ciò che è stato possibile in altri luoghi e in tempi diversi, utilizzando esempi da tutto il mondo ed espandono il loro senso di azione e di azione civica.

Eppure, solo pochi di questi spazi sono offerti dalle università, alle loro condizioni, nella loro condizione di riflessività. Possiamo pensare, ad esempio, ai Media Lab del MIT o a Sciences Po.

Traendo ispirazione da queste e da molte altre iniziative, noi dell’EUI abbiamo avviato un gruppo di lavoro per applicare la riflessività all’università stessa. Ci siamo posti l’obiettivo di continuare a esplorare l’impegno delle università nei confronti della società e di promuovere un dibattito costruttivo su questo tema con il grande pubblico.

Quando le università sono aperte alla società, nel senso che la accolgono tra le loro mura e offrono spazi per riflettere su se stessa, anche questa è innovazione. E forse del tipo più fondamentale per il nostro futuro.

 


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