
Un incontro per presentare il libro "Ripensare l'Antropocene" è stato occasione per riflettere sulla crisi ambientale e la responsabilità di università e comunicatrici e comunicatori scientifici in un'epoca in cui la scienza è sotto attacco, e persino le parole per descrivere il cambiamento climatico vengono messe al bando.
La platea che a inizio mese ha assistito all’incontro organizzato dall’Università di Tor Vergata e da Res viva - Centro interuniversitario di ricerche epistemologiche e storiche sulle scienze del vivente, era spaesata. Se avete un po’ di pazienza, fra poco vi diremo perché, ma intanto occorre una premessa.
L’occasione del ritrovarsi è stata la presentazione del libro Ripensare l’Antropocene. Oltre natura e cultura (Carocci editore, pp.198, euro 23,00), di Paola Govoni, Maria Giovanna Belcastro, Alessandra Bonoli e Giovanna Guerzoni. Il libro, come è ben spiegato nell’introduzione, nasce da un'esperienza traumatica (la pandemia) e da un progetto (TerraFranca). Tutte e quattro le autrici insegnano all’Università di Bologna, occupandosi di settori disciplinari diversi: Govoni è storica delle interazioni scienza-società, Belcastro è biologa e antropologa, Bonoli è ingegnera delle materie prime, Guerzoni è antropologa dell’educazione, esperta di contesti multiculturali. Durante il confinamento, le quattro autrici, legate anche da amicizia, hanno cominciato a incontrarsi online e a interrogarsi su alcune questioni, certamente non nuove, ma che la pandemia ha messo in evidenza: perché distruggiamo l’ambiente? Quali strumenti abbiamo per affrontare la realtà del cambiamento climatico? Come possiamo dare un contributo?
Nella discussione poi sono stati coinvolti studentesse e studenti, dando così vita al progetto TerraFranca. Il risultato è un libro molto interessante, in cui alle voci delle autrici, a ognuna delle quali si deve la stesura di un capitolo, si alternano le voci di giovani allieve e allievi che hanno risposto a un questionario a risposte aperte.
Il tentativo di superare gli steccati interni a un sistema universitario che si è ingabbiato in una pletora di settori scientifico-disciplinari (oggi sono ben 383, come scrivono le autrici), è riuscito: nel libro si discute da prospettive diverse di temi come il mito di una crescita senza sviluppo, la (presunta) dicotomia natura-cultura, lo sfruttamento delle risorse e l’assenza di una cultura dei limiti, il legame tra lo sfruttamento delle risorse e il patriarcato, la tecnologia e i suoi legami col colonialismo.
Insomma, di quello che ci ha portati dritti dritti nella nostra era, l’Antropocene, l’era in cui l’impatto delle attività degli esseri umani ha plasmato l’ambiente e il clima a livello planetario. Un’era che viene chiamata anche Capitalocene, Chthulucene, Wasteocene, a seconda se si vuole enfatizzare il ruolo del capitalismo nella crisi ecologica, quello delle interconnessioni sotterranee o quello dei rifiuti. Ma che comunque ha connotati tali da destare preoccupazione per la nostra stessa sopravvivenza. Ogni autrice (e vorremmo dire anche ogni studentessa e ogni studente) porta un pezzetto di conoscenza che compone il quadro complessivo del libro e che ci suggerisce come potremo adattarci all’Antropocene che abbiamo scatenato.
Fin qui tutto bene. Un libro interessante, due autrici presenti a discuterne con altri docenti. Perché allora il senso di spaesamento di cui parlavamo? La risposta è semplice: Trump. Il libro è stato chiuso prima che un uragano si abbattesse sulla scena politica mondiale. Nel giro di pochi mesi tutto è cambiato e, come hanno sottolineato Carmela Morabito, storica della psicologia e delle neuroscienze cognitive e Elena Gagliasso, filosofa della scienza, tutto quello di cui si parla nel libro sembra ora sotto schiaffo. E come può essere altrimenti se il presidente degli Stati Uniti ha chiesto addirittura la rimozione delle parole con cui parlare di questi temi dai documenti pubblici delle agenzie federali? Tra le parole vietate infatti non ci sono solo “transgender” e “preferenze sessuali”, ma anche “crisi ambientale”, “diseguaglianza”, “diversità”, “inclusione”, “malattia mentale”, “popolazioni vulnerabili”, “socioeconomico” e “socioculturale”. Il libro in pochi mesi di vita è diventato inattuale?
Lo siamo diventati tutti probabilmente, perché non abbiamo le parole e gli strumenti per affrontare questo nuovo mondo in cui la scienza è sotto attacco, la tecnologia corre in modo esagerato rispetto alla lentezza dei processi antropologici, il capitale è sempre più aggressivo e l’Europa si riarma (ricordate i trattati per il disarmo? Sembrano oramai cosa antica). Ma forse, come ha sottolineato Guerzoni, questo non è un fatto solo negativo: si può coltivare l’inattualità come strumento di resistenza. L’importante è mettersi in movimento e in rete. Ma proprio su questo punto, l’incontro è stato anche una occasione per un mea culpa: noi che questi temi studiamo e che sappiamo da tempo che sulla Terra ogni fenomeno e ogni vivente (e non) si trova all’intersezioni con altri, che ogni gesto umano ha un effetto sul pianeta, non abbiamo saputo portare al di fuori dell’università questo sapere: per questo siamo corresponsabili della crisi che stiamo vivendo, ha detto Govoni.
A dirla tutta, corresponsabili siamo anche noi che lavoriamo nel campo della comunicazione. In particolare, parlo di chi negli ultimi anni si è occupato di raccontare la scienza al grande pubblico: non abbiamo avuto la voce abbastanza forte per dire quello che stava succedendo. Eppure lo sapevamo da tempo. Abbiamo visto la vittoria delle ideologie coloniali del dominio, dei dogmi della competitività ad ogni livello e l’illusione di una crescita economica infinita. Abbiamo visto l’aumentare delle ineguaglianze per quanto riguarda la salute e la crisi dei sistemi sanitari con la loro progressiva privatizzazione. Abbiamo ascoltato della impressionante perdita di biodiversità tanto da parlare della sesta estinzione di massa, abbiamo assistito al susseguirsi delle Cop: 1, 2, 3… 29. Sempre più stanche e dai risultati deludenti. E abbiamo denunciato troppo poco o con voce troppo flebile. Certo, l’informazione ha subìto, come e forse più di altre categorie, le ingiurie della nostra epoca: precarizzazione, accelerazione dei tempi di produzione, dipendenza dal capitale, ma insomma, questo non ci rende meno colpevoli.
E ora che fare? Prima cosa, bisogna mantenere i luoghi di dialogo, come ha sottolineato Gagliasso, le Cop sono ancora importanti per questo. E poi, bisogna individuare zone di interscambio, dicono le autrici del libro, dove applicare i risultati di tante conoscenze “per instaurare alleanze paritarie con altri punti di vista, generi e generazioni”. E forse, come ha detto lo studente che è intervenuto alla fine dell’incontro, bisogna alzare la voce. In tempi in cui probabilmente la resistenza è da preferire alla resilienza.