fbpx Incontri ravvicinati con Neanderthal | Scienza in rete

Incontri ravvicinati con Neanderthal

Primary tabs

Svante Pääbo, del Max-Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia

Tempo di lettura: 3 mins

Il gruppo diretto da Svante Pääbo, del Max-Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia, ha pubblicato sul numero del 7 maggio di Science la sequenza di oltre 4 miliardi di nucleotidi del genoma dell’uomo di Neanderthal: circa il 60 per cento dell’intero genoma. Il DNA è stato estratto dai resti fossili di tre neandertaliani e la loro sequenza genomica è poi stata confrontata con quella di cinque individui della nostra specie provenienti dai diversi continenti.

Il primo interessante risultato della ricerca ha messo in evidenza che alcune regioni del nostro genoma sono peculiari della nostra specie Homo sapiens. Il che significa che quei geni noi non li condividiamo con i neanderthaliani e quindi che sono stati interessati dall’azione della selezione naturale dopo la separazione evolutiva avvenuta tra noi e loro. In particolare si tratta di geni coinvolti nel metabolismo e nello sviluppo cognitivo e scheletrico. E a questo proposito vale certamente la pena fare alcuni esempi. La nostra fronte è alta e dritta, a differenza di quella neandertaliana che era bassa e sfuggente. Per rifarci a un modello sportivo, la nostra testa assomiglia a un pallone da calcio mentre quella dei neanderthaliani assomigliava a un pallone da rugby. Il nostro neurocranio infatti deve contenere un cervello i cui i lobi frontali – che sono la sede di funzioni associative, simboliche e computazionali – sono molto sviluppati. E tra tutte le specie che sono comparse nel corso dell’evoluzione umana, iniziata sei milioni di anni fa, solo la nostra ha un cervello così fatto. Tutte le altre avevano un cranio caratterizzato da fronte bassa e sfuggente, il cui cervello quindi doveva avere lobi frontali ridotti. Noi siamo anche gli unici ad avere il mento. Il secondo risultato ha chiarito uno dei punti su cui gli antropologi si interrogano da lungo tempo. E cioè: l’uomo moderno che si è originato in Africa 200.000 anni fa, e che da quel continente è uscito 80.000 anni fa per popolare prima le altre zone del Vecchio Mondo e poi anche il Nuovo Mondo, si è incrociato geneticamente con i neanderthaliani che già da tempo occupavano l’Europa, l’Asia occidentale e il Medio Oriente?

Sulla base delle prime ricerche di antropologia molecolare, iniziate alla fine degli anni Ottanta dell’altro secolo, sembrava che fosse possibile escludere quell’evento. Ulteriori approfondimenti però, ottenuti sia da analisi genetiche che statistiche, hanno mostrato che non era possibile eliminare completamente l’ipotesi di un modesto grado di mescolamento genetico, valutabile in circa 120 incroci nell’arco dei 12.000 della convivenza tra le due specie. E il nuovo studio è venuto a dare supporto proprio a questa seconda teoria. Il genoma delle popolazioni europee e asiatiche infatti è formato per una percentuale compresa tra 1 e 4 da geni neanderthaliani, mentre le popolazioni africane ne sono prive.

Questo risultato ci dice che le prime popolazioni di Homo sapiens uscite dall’Africa sono giunte in Medio Oriente, dove c’è stato qualche caso di incrocio. Quei gruppi di uomini moderni poi sono cresciuti enormemente di numero – ecco perché da pochi incroci si è arrivati fino a un massimo del 4 per cento di geni neanderthaliani nel nostro genoma, mentre non c’è traccia di nostri geni nel genoma neanderthaliano, perché essi hanno conosciuto una drastica contrazione – e sono andati a stanziarsi prima in Asia (da dove è successivamente partita la migrazione verso il continente americano) e dopo anche in Europa.

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Discovered a New Carbon-Carbon Chemical Bond

A group of researchers from Hokkaido University has provided the first experimental evidence of the existence of a new type of chemical bond: the single-electron covalent bond, theorized by Linus Pauling in 1931 but never verified until now. Using derivatives of hexaarylethane (HPE), the scientists were able to stabilize this unusual bond between two carbon atoms and study it with spectroscopic techniques and X-ray diffraction. This discovery opens new perspectives in understanding bond chemistry and could lead to the development of new materials with innovative applications.

In the cover image: study of the sigma bond with X-ray diffraction. Credits: Yusuke Ishigaki

After nearly a year of review, on September 25, a study was published in Nature that has sparked a lot of discussion, especially among chemists. A group of researchers from Hokkaido University synthesized a molecule that experimentally demonstrated the existence of a new type of chemical bond, something that does not happen very often.