A collection of photographs of Jews in a frame hanging on a wall in the Central Archives of the History of the Jewish People. Fonte: Wikimedia
Due nuovi studi sulla genetica delle comunità ebraiche, appena pubblicati su “Nature” (il 9 giugno on line, dal gruppo di Doron Behar, del Rambam Health Care Campus di Haifa) e su “The American Journal of Human Genetics” (nella prima settimana di giugno, dal gruppo di Harry Ostrer, della New York University Medical School), hanno fornito elementi di chiarezza sull’origine e sullo svolgersi della storia di quel popolo. Un tema questo che ha diviso, e ancora divide, gli studiosi tra coloro che hanno associato una comune eredità genetica alla comune condivisione culturale e religiosa e coloro che hanno mantenuto decisamente indipendenti i due piani. Quest’ultima posizione è stata riaffermata anche assai recentemente, nel 2008, dallo storico Shlomo Sand nel libro “The Invention of the Jewish People”.
Entrambe le ricerche hanno utilizzato la tecnica “microarrays” per analizzare il DNA nucleare di gruppi di ebrei delle diverse parti del mondo e di gruppi di popolazioni non-ebraiche di riferimento, e valutarne le differenze. La nuova tecnologia “microarrays” consente di mettere a confronto le sequenze dell’intero genoma di individui diversi e fornisce quindi molte più informazioni rispetto a quelle ricavate finora dagli studi sul DNA mitocondriale e del cromosoma Y.
A seguito della diaspora ebraica si sono formate tre grandi comunità: quella aschenazita dell’Europa, che costituisce circa il 90% degli ebrei americani e il 50% di quelli israeliani; quella sefardita della Spagna e del Portogallo; e quella del Medio Oriente. A queste vanno poi affiancate le comunità ebraiche dell’Etiopia e dell’India.
Come si può arguire dai due studi, i gruppi ebraici della diaspora sono risultati geneticamente molto più simili tra loro che non rispetto alle popolazioni non-ebraiche delle stesse aree geografiche. Inoltre, le comunità aschenazite hanno mostrato tra loro una maggiore affinità e con un livello di somiglianza genetica riferibile a quello che caratterizza i cugini di quarto e quinto grado, anche se tra il 30% e il 60% del loro genoma è stato contribuito dal mescolamento con popolazioni europee non-ebraiche. Certamente di notevole interesse è pure il dato che ha evidenziato come siano i popoli non-ebraici del Medio Oriente, e tra essi i drusi e i ciprioti, che più si legano geneticamente alle comunità ebraiche. E ciò significa che l’origine del popolo ebraico debba essere collocata proprio in quella regione.
Completamente diversi invece sono stati i risultati delle analisi compiute sulle comunità ebraiche dell’Etiopia e dell’India. Esse infatti sono state trovate geneticamente più affini ai popoli non-ebraici delle loro terre d’origine che non a quelli ebraici della diaspora. E ciò sembrerebbe suggerire che nel corso del tempo ci siano state in Etiopia e in India delle conversioni e che poi le nuove comunità si siano anche mescolate, sebbene in piccola parte, con gli ebrei della diaspora.
A partire dalla metà del secolo scorso, la genetica è divenuta uno strumento assai utile per contribuire alla ricostruzione della storia dei popoli e al suo interno a risalire anche alla verosimile regione geografica della loro genesi. E i due lavori citati hanno collocato l’origine degli ebrei in Medio Oriente, perché prossimi geneticamente alle popolazioni che lì vivono. Ciò tuttavia non significa aver trovato il gene dell’ebraicità, che non esiste così come non esistono quelli dell’italianità e degli altri popoli. Quello che la genetica può fare è solo stabilire come è fatto geneticamente un popolo che ha deciso di essere tale e a quale altro assomigli di più. A questo proposito, ci sembra interessante quanto ha sostenuto Behar a commento della sua ricerca e cioè che non c’è alcuna differenza metafisica tra coloro che sono nati ebrei e coloro che all’ebraismo si sono convertiti.
Olga Rickards
Antropologia Molecolare, Università di Roma