Carol Ward, William Kimbel e Donald Johanson hanno dato notizia su Science dell’11 febbraio u.s. del rinvenimento a Hadar, in Etiopia, del quarto osso del metatarso del piede di un Australopithecus afarensis. E l’anatomo-morfologia del fossile testimonia la presenza nel piede di quegli australopiteci, vissuti tra 4 e 3 milioni di anni fa, dell’arco plantare e quindi di una deambulazione bipede perfetta. Il rinvenimento ha avuto una certa enfasi sui media e una tale attenzione alla nostra storia evolutiva è certamente positiva e utile. Non si ritenga però che fino al 10 febbraio u.s. gli antropologi non avessero alcuna idea di come camminava l’Australopithecus afarensis. Già da molto tempo infatti sapevamo che quel nostro antenato era bipede e sapevamo anche che nel suo piede c’era un arco. Le orme di Laetoli in Tanzania infatti, rinvenute nel 1974 e risalenti a 3,6 milioni di anni fa, lo avevano testimoniato. Il fossile appena riportato alla luce è tuttavia un documento di rilievo perché il bipedismo ha assunto nelle diverse specie australopitecine varie modalità. Quella dell’Australopithecus africanus infatti era di un bipedismo associato alla capacità di muoversi in maniera efficiente anche sui rami degli alberi, come è stato dedotto dallo scheletro del piede descritto da Ronald Clarke nel 1998, Little Foot, che presentava l’alluce divaricato, utile per afferrare i rami. Un’altra modalità ancora di bipedismo è quella che ha caratterizzato il genere Ardipithecus, vissuto tra 5,5 e 4,5 milioni di anni fa, e che è stata definita barcollante. Il bipedismo, nelle sue varie declinazioni, è un carattere proprio di tutte le specie che si sono avvicendate o che hanno convissuto nel corso della nostra storia evolutiva: quella della sottofamiglia degli ominini, iniziata 6 milioni di anni fa. E oltre a sapere questo da molto tempo, oggi sappiamo pure che anche specie estranee alla nostra linea evolutiva erano bipedi: il Sahelanthropus tchadensis, di 7 milioni di anni fa, e l’Oreopithecus bambolii, vissuto tra 9,5 e 6,5 milioni di anni fa. Insomma, l’ultimo fossile umano trovato e pubblicato è un documento importante, ma non ci fa riscrivere la nostra storia evolutiva.
Olga Rickards
Antropologia Molecolare, Università di Roma