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Il miracolo scippato

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C’era una volta l’Italia del secondo dopoguerra, che risorgeva dalle ceneri e dall'onta della guerra per occupare un posto di grande rilievo nel nuovo, pacificato, ordine politico mondiale come avanzato paese scientifico-tecnologico. Il nostro paese, al contrario di oggi, era la destinazione di molti cervelli. Ma questa è una fotografia vecchia, oggi l’Italia non è più un paese tegnologico.

L'Italia oggi non è un paese tegnologico. Il made in Italy è per lo più rappresentato dal settore manufatturiero, dal turismo rivierasco, dal fascino dei luoghi del cuore del mondo antico, dalle passerelle dove scorrono le firme più note del mondo e da marchi come "pizza e spaghetti", nobili invenzioni certamente made in Italy che purtroppo nutrono ancora lo stereotipo dell'italiano, semmai anche mafioso, con il quale ci identificano – o per lo meno – ci associano spesso all'estero. Ma quella che racconta Il miracolo scippato (Donzelli, 2011. Pp 197, 18 euro) non è la storia dell'Italia "pizza e mandolini" bensì dell'Italia che nel secondo dopoguerra sta risorgendo dalle ceneri e dall'onta della guerra per occupare un posto di grande rilievo nel nuovo, pacificato, ordine politico mondiale come avanzato paese scientifico-tecnologico.

L'intraprendenza di personaggi come Edardo Amaldi e il geologo Felice Ippolito stanno ricostruendo la fisica italiana. Nel 1964 il nostro paese è la terza potenza nucleare dietro solo a Gran Bretagna e Usa. Nel frattempo Enrico Mattei, fondatore dell'Eni, sta erodendo il monopolio delle multinazionali del petrolio per garantire all'Italia in pieno boom che la sua fornace industriale abbia carburante a prezzi sempre più bassi. All'Istituto Superiore di Sanità (Iss) il direttore Domenico Marotta ha creato un ambiente competitivo per la ricerca nel campo della biomedicina, tanto che ha fatto installare il primo microscopio elettronico italiano e vinto la battaglia contro la malaria. Sui banchi dell'Istituto avviene il contrario di quello che oggi chiamiamo brain drain, la fuga dei cervelli: in via Regina Elena vengono a studiare Ernst Boris Chain – già premio Nobel per la medicina (1945) – e Daniel Bovet che per il suo impegno a Roma diviene a sua volta Nobel per la medicina (1957). La rivoluzione scientifico-tecnologica sta avvenendo anche nello strategico settore dei calcolatori elettronici. Adriano Olivetti, su suggerimento di Enrico Fermi – ormai stabile a Chicago – decide di ampliare l'interesse oltre il settore meccanografico e mettere un piede nel campo dei calcolatori. A fine anni Cinquanta nasce così Elea 9003, il primo computer completamente commerciale a transistor della storia dalle dimensioni ridotte. Un primato che si ripeterà nel 1964 con la messa a punto della P101, a cura dell'ingegnere Piergiorgio Perotto, considerato dagli studiosi di storia della tecnologia a tutti gli effetti il primo Pc anni prima che Steve Jobs fondi Apple.

Tuttavia il ciclo virtuoso sta per concludersi. Con la morte accidentale di Adriano Olivetti (1960) e Mario Tchou (1961), l'ingegnere chiamato a Ivrea a giudare la rivoluzione informatica, l'azienda cade nelle mani di un gruppo d'intervento misto pubblico e privato, una leadership di cui fanno parte banche e, tra l'altro la Fiat di Vittorio Valletta, secondo cui «l'azienda di Ivrea è strutturalmente solida, nonostante abbia un neo da estirpare: l'essersi messa nel settore delle macchine da calcolo». Ben presto la Divisione elettronica Olivetti (Deo) è così venduta – secondo interlocutori ospiti del libro-inchiesta su pressioni delle imprese concorrenti Usa – all'americana General Electrics.

Nel ottobre del 1962 Enrico Mattei muore in un incidente – o stando alle carte della Procura di Pavia redatte dopo l'ultima riapertura del caso negli anni Novanta e Duemila, «in un attentato» –    aereo mentre nel mondo infuria la Guerra Fredda: forse la disinvoltura del funzionario (del paese con il più grande partito comunista d'occidente) nello stipulare contratti con nazioni d'oltre cortina per la fornitura di petrolio ha messo in imbarazzo la Dc nei confronti della Nato e le "Sette sorelle" sul piede di guerra.

Per quanto riguarda Felice Ippolito e Domenico Marotta l'emarginazione non sarà letale ma brutale altrettanto. Sebbene i primi detrattori del nucleare italiano siano i senatori della destra fobica al riformismo invocato dalle sinistre (che nel 1962 hanno ottenuto la nazionalizzazione dell'energia elettrica) nel 1963 è il Psdi di Giuseppe Saragat ad avviare una violenta campagna stampa contro le centrali nucleari che secondo il leader «se non hanno scopi militari equivalgono a segherie che producono soltanto segatura». Negli stessi mesi è passato per le armi Domenico Marotta, attraverso una campagna appoggiata soprattutto dai giornali di sinistra che vedono in Marotta – personaggio legato ad ambienti conservatori e direttore dell'Iss dai tempi del Ventennio – un bersaglio ben adatto alla rappresaglia dopo l'assalto a Ippolito. Su entrambi vengono aperte inchieste che portano alle accuse di peculato continuato aggravato. Intendiamoci sulla gravità: gli illeciti amministrativi – per fare un esempio – riguardano un microscopio che figura nel bilancio dell'Iss come materiale per ufficio, ma il castello di accuse è sufficiente a far capitolare Ippolito e Marotta.

Se questi sono i fatti – ricostruiti dalla rassegna stampa e dalla sterminata letteratura – le opinioni sono affidate nel libro a personaggi viventi dell'epoca e nuovi. È interessante riportarne, tra le tante, almeno due: «La scienza è portatrice di valori laici e progressisti – commenta Sergio Zavoli – , e in quegli anni avrebbe portato la storia del nostro paese verso scenari incondivisibili dalla Dc e dalla chiesa che si credeva avesse il mandato di opporsi a tutte le spinte riformatrici. Persino Papa Giovanni XIII, che pure era un Papa progressista, era molto cauto nei confronti della tecnologia Tv, perché allontava la famiglia dalla comunione e dall'aggregazione. Per questo la Tv è arrivata in Italia con dieci anni di ritardo».

Secondo Rita Levi Montalcini, invece, se l'Italia ha scelto un modello di sviluppo senza ricerca non dipende dai valori associati alla scienza ma solo da un «deprecabile motivo: la fame di polemica. La classe politica del nostro paese – dichiara il Nobel – si contraddistingue per questa litigiosità che ci ha allontanato dalla sintesi verso obiettivi comuni per il bene dei partiti. Gli italiani, questo bisogno di dialogo, o non l'hanno mai riconosciuto o non l'hanno mai accettato ed è questa dimenticanza che io condanno e che mi ha delusa più di ogni altra cosa».


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