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Fukushima, verso l’anniversario

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IAEA experts depart Unit 4 of TEPCO's Fukushima Daiichi Nuclear Power Station on 17 April 2013

IAEA experts depart Unit 4 of TEPCO's Fukushima Daiichi Nuclear Power Station on 17 April 2013 as part of a mission to review Japan's plans to decommission the facility. Photo Credit: Greg Webb / IAEA (fonte: Wikipedia)

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L’11 marzo 2011 un sisma di magnitudo 9 e il conseguente tsunami hanno devastato una vasta area nella parte orientale dell’isola giapponese di Honshu, causando circa 20.000 morti. Il sisma e l’onda hanno colpito anche la centrale nucleare di Fukushima Daiichi, gestita dalla Tokyo Electric Power Company, determinando il disastro nucleare più grave della storia del Giappone. Secondo solo a quello di Chernobyl – ma classificati entrambi di livello 7, il massimo nella scala internazionale INES –, l’incidente di Fukushima è stato innescato dall’interruzione prolungata della corrente elettrica, dovuta allo tsunami, che ha messo fuori uso i sistemi di raffreddamento dei reattori. Fusioni parziali del nocciolo si sono verificate nei reattori 1, 2 e 3, mentre incendi ed esplosioni si sono registrate nei reattori 2, 3 e 4. Ingenti quantità di materiale radioattivo sono state rilasciate nel suolo, nell’atmosfera e nel tratto di mare antistante alla centrale. A distanza di quasi un anno, tuttavia, sono ancora da chiarire la reale entità del disastro, le sue conseguenze sulla popolazione e sull’ambiente e i costi economici di quanto accaduto (probabilmente compresi fra i 100 e i 200 miliardi di euro). Ci si muove fra stime e polemiche, e neppure si trova un accordo sulla possibilità o meno di dichiarare chiuso l’incidente, almeno dal punto di vista tecnico.

Per comprendere la situazione partiamo da qui: dallo stato della centrale di Fukushima Daiichi al 31 dicembre 2011. A fine ottobre il rapporto dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica ha fatto sapere che la temperatura nei reattori danneggiati era scesa sotto i 100 gradi e che la fissione è dunque stabilizzata; un sistema di canalizzazione, in funzione da settembre, raccoglie parte dell’acqua contaminata dispersa dai reattori danneggiati, che quindi non finisce più in mare, come è avvenuto nei primi mesi dal disastro. Dal 14 ottobre, inoltre, un trattamento chimico diluisce la concentrazione di cesio 137 nell’acqua di raffreddamento. Sulla scorta di questo rapporto e di altri rilevamenti, a metà dicembre il primo ministro Yoshihiki Noda – subentrato a Naoto Kan, dimessosi a fine agosto – ha dichiarato che i reattori hanno raggiunto uno stato equivalente al “cold shutdown”, espressione che ne indica la sostanziale messa in sicurezza. Noda aveva promesso al Paese che questo risultato sarebbe stato raggiunto entro la fine dell’anno, e così è stato… o forse no, dato che la dichiarazione ha suscitato un fiume di polemiche. Si contesta, per esempio, che dal punto di vista tecnico, l’espressione “cold shutdown” (che può riferirsi solo a reattori nei quali il nucleo non è danneggiato) indica che è possibile rimuovere le barre di combustibile, ma questa eventualità è ancora lontanissima nel caso di Fukushima, perché il combustibile nucleare si è fuso con il vaso di contenimento dei reattori. I tecnici al momento non hanno idea di come poterlo estrarre e lo stesso governo giapponese ha ammesso che la risoluzione del problema richiederà tecnologie nuove, che saranno sviluppate nei prossimi 25 anni. Molti esperti, inoltre, non si sentono di escludere che le reazioni di fissione, all’interno dei nuclei parzialmente danneggiati, possano ricominciare: a fine ottobre, la rilevazione di gas xeno, un sottoprodotto della fissione, in uno dei reattori sembrava indicare proprio che questa eventualità si stesse verificando. Ma a destare le maggiori preoccupazioni è la precarietà del sistema di raffreddamento oggi in funzione, che non sarebbe in grado di resistere a un sisma di magnitudo anche inferiore a quella registrata l’11 marzo: i sismologi, infatti, non ritengono improbabile che una scossa di assestamento anche piuttosto intensa possa verificarsi nei prossimi mesi. A preoccupare, infine, sono le circa 90.000 tonnellate di acqua radioattiva ancora presenti nella centrale, che anche in seguito a un nuovo terremoto, o a qualche cedimento strutturale, potrebbero fuoriuscire contaminando nuovamente il territorio e il mare. In totale, per il completo decommissioning della centrale si calcolano 40 anni.

Venti anni è invece il periodo di tempo che potrebbe passare prima che le zone più contaminate attorno all’impianto possano essere di nuovo abitabili. La stima, anche in questo caso, è del governo ma, come le precedenti, è stata contestata, perché zone che presentavano livelli di contaminazione inferiori, attorno alla centrale di Chernobyl, sono ancora oggi off limits. È invece ritenuta credibile la stima delle emissioni: la radioattività rilasciata nell’atmosfera sarebbe pari a circa un decimo rispetto a quella dell’incidente ucraino «il ché è ragionevole» ha scritto su Bullettin of the Atomic Scientists Frank von Hippel, dell’Università di Princeton (Usa), «dato che la radioattività di Chernobyl fu rilasciata direttamente in atmosfera, mentre a Fukushima la maggior parte è stata catturata dall’acqua presente all’interno dei reattori». Due studi pubblicati su Pnas a dicembre hanno valutato la dispersione degli isotopi radioattivi e la loro deposizione al suolo, che nei giorni successivi all’incidente è stata fortemente condizionata dalle condizioni meteorologiche. Da questi e da altri rilevamenti (alcuni dei quali condotti dagli stessi cittadini, stufi della vaghezza dei dati ufficiali) emerge una situazione a macchia di leopardo: ci sono zone in cui la contaminazione è ben al di sopra dei livelli oltre i quali, secondo la legge giapponese, scatta il divieto di coltivare piante destinate all’alimentazione, e altre molto meno colpite.

È stata probabilmente anche questa difformità a determinare, nei mesi scorsi, più di un allerta sia su cibi dichiarati troppo frettolosamente sicuri, sia su alimenti prodotti in aree anche molto distanti dal luogo dell’incidente. Così, a luglio, dopo reiterate rassicurazioni delle autorità, i controlli su carne bovina e capi di bestiame hanno rilevato livelli di radioattività da 50 a 500 volte superiori rispetto ai limiti di sicurezza (la carne in questione era stata distribuita in tutto il Paese), mentre fra marzo e novembre hanno subito restrizioni e divieti pesce, alghe, spinaci, funghi, carne, tè e latte provenienti dalle fattorie attorno a Fukushima ma anche da alcune distanti fino a 360 chilometri. A novembre, una partita di riso prodotto in una zona distante 57 chilometri dal luogo del disastro ha mostrato una radioattività di 630 Bq/kg (superiore ai 500 fissati come limite di sicurezza) ed è stata ritirata dal mercato: è un fatto grave, sia perché il riso è un alimento base per la cucina nipponica, sia perché le autorità avevano dichiarato sicuro il raccolto successivo all’incidente, al quale quella partita apparteneva.A dicembre, infine, la Meiji ha ritirato spontaneamente 400.000 lattine di latte in polvere, prodotte in parte a partire da latte munto e lavorato nei giorni successivi all’incidente in una fattoria della prefettura di Saitama, a ben 200 chilometri da Fukushima. Il cesio radioattivo rilevato nei campioni, ben al di sotto della soglia di sicurezza, sarebbe giunto fin lì con le correnti d’aria, dato che l’acqua era monitorata.

Questi episodi fanno capire come all’origine delle incertezze sulla valutazione delle conseguenze dell’incidente non ci sia solo l’atteggiamento poco trasparente delle autorità, denunciato fra gli altri dal biologo Tatsuhiko Kodama, dell’Università di Tokyo, anche di fronte al Parlamento nipponico. Ma anche oggettive difficoltà tecniche.

Una stima molto preliminare è stata tuttavia tentata da Frank N. von Hippel, nel già citato articolo. Paragonando l’incidente giapponese con quello di Chernobyl, e basandosi per quest’ultimo sui 16.000 morti in più per tumore valutati dallo studio che l’epidemiologa spagnola Elizabeth Cardis ha condotto per conto della Iarc, nel 2006, von Hippel stima 1.000 decessi per tumore causati direttamente dall’incidente di Fukushima fra il milione di persone che vive nelle aree in cui la contaminazione supera 1 curie/km2. A questi dovrebbe aggiungersi – ma lo studio non lo esplicita – un numero imprecisato di vittime nelle zone meno contaminate (la metà dei 16.000 morti valutati per Chernobyl risiedeva o risiede in aree in cui la contaminazione è inferiore a 1 curie/km2).

Rispetto all’incidente del 1986, in quello del 2011 le autorità sono state più pronte nel vietare il consumo di latte, il ché dovrebbe limitare i casi di tumore alla tiroide. Ma le misure di evacuazione, che hanno interessato i 20 chilometri attorno all’impianto, sono state molto più morbide. Una mappa della contaminazione radioattiva, elaborata fra il 6 e il 29 aprile, mostra che non è stata evacuata un’ampia zona con livelli di radioattività che ancora oggi non permettono agli ex residenti attorno alla centrale di Chernobyl di ripopolare il territorio. E a dimostrazione della sottovalutazione dei rischi c’è il fatto che, nei giorni successivi all’incidente, la Us Nuclear Regulatory Commission ha raccomandato a tutti gli statunitensi che vivevano a 80 chilometri dalla centrale di abbandonare le loro abitazioni. «Se il governo giapponese avesse preso la stessa decisione, le persone evacuate sarebbero state due milioni, invece che 130.000» scrive von Hippel. Le conseguenze di tutto ciò sono difficili da valutare, e del resto anche spostare un numero tanto consistente di persone ha conseguenze gravi, specie sul piano psicologico. Sta di fatto che, suscitando critiche asprissime, il 19 aprile il governo giapponese ha elevato a 2 rem la dose annuale di radioattività ammissibile per gli studenti, che quindi sono dovuti rientrare in scuole che in altre parti del mondo sarebbero rimaste chiuse per chissà quanti anni.

Misurazioni più dirette sulla contaminazione della popolazione, eseguite dall’Università di Hirosaki, danno tuttavia un responso meno allarmante. Cento ricercatori, divisi in 13 squadre, hanno monitorato 5.000 persone residenti attorno alla centrale, fra il 15 marzo e il 20 giungo, riscontrando in 10 di loro una lieve contaminazione esterna, non tale da richiedere un trattamento.

Pubblicato anche su Epidemiologia&Prevenzione

Bibliografia

Balzani V.: “Ricordare Fukushima”, Scienza in rete 10 settembre 2011.
Fackler M.: “Japan May Declare Control of Reactors, Over Serious Doubts”. The New York Times, 14 dicembre 2011.
Kinoshita N. et al: “Assessment of individual radionuclide distributions from the Fukushima nuclear accident covering central-east Japan”. PNAS 108 (49) 19526-19529 (2011).
Yasunari TJ. et al: “Cesium-137 deposition and contamination of Japanese soils due
to the Fukushima nuclear accident”. PNAS 108 (49) 19530-19534 (2011).
Monzen S. et al: “Individual Radiation Exposure Dose Due to Support Activities at Safe Shelters in Fukushima Prefecture” PlosOne 6 (11): e27761 Novembre 2011
Tabuchi H.: “Japan’s Prime Minister Declares Fukushima Plant Stable”. The New York Times, 16 dicembre 2011.
Von Hippel F.: “The radiological and psychological consequences of the Fukushima Daiichi accident”. Bullettin of the atomic scientists 67(5) 27-36 (2011). 


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