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Che cosa vale una laurea? Finalmente se ne discute

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“La meritocrazia si basa sulla capacità di valutare i singoli e le istituzioni, pubbliche e private, in assenza di conflitti d'interesse”. Il Manifesto di fondazione del Gruppo 2003 propone al primo punto il binomio “Meritocrazia e valutazione” come strumento per innescare un circolo virtuoso che premia e fa emergere chi è capace.

L'attribuzione al titolo di studio di un valore “legale”, uguale per tutti i laureati di qualsiasi università, è una negazione di tali principi e contribuisce a mantenere il circolo vizioso per cui i meriti dei singoli e delle istituzioni sono indifferenti e irrilevanti rispetto al sistema, per esempio per quanto riguarda i finanziamenti pubblici o la carriera. Dopo decenni durante i quali la questione del valore legale del titolo di studio è stata considerata quasi un tabù, l'iniziativa del Presidente del Consiglio Mario Monti di condurre sul tema una consultazione pubblica, gestita dal Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca ha l'indubbio merito di aver finalmente inscritto l'argomento nell'agenda politica. E questo vale indipendentemente dalle critiche che sono state avanzate da varie parti alle modalità con cui la consultazione è stata condotta e dal risultato apparentemente “conservatore” che ha prodotto.

In ogni caso finalmente si è cominciato a discuterne concretamente e soprattutto si è passati da  uno scontro tra posizioni ideologiche pro o contro a un confronto nel merito dei diversi effetti che una revisione potrebbe avere sui due ambiti prevalentemente in gioco: l'accesso alle professioni e al pubblico impiego. E si è cominciato anche ad articolare le possibili soluzioni non solo in termini di tutto o nulla (mantenimento o abolizione del valore legale), prendendo in considerazione anche vari possibili gradi intermedi di riformulazione della questione. Per quanto riguarda l'accesso a tutte quelle professioni di cui è necessario garantire ai cittadini la qualità, in quanto difficilmente verificabile dal cliente, dovrebbe essere previsto un esame di abilitazione, svolto da un organismo autonomo ed esterno all'università, che verifichi realmente la preparazione specifica, indipendentemente dal titolo di studio. Ma non basta regolare l'accesso. Occorre anche assicurare l'aggiornamento, con un sistema di educazione continua (come già si fa per le professioni sanitarie e legali), e consentire ai cittadini di scegliere per quanto possibile i professionisti in base a indicatori oggettivi, grazie a un sistema di valutazione trasparente delle prestazioni durante la carriera professionale.

Per l'accesso al pubblico impiego e per la progressione di carriera, invece, il possesso del titolo di studio potrebbe essere considerato un titolo di merito, non vincolante per la partecipazione. Come d'altra parte già avviene per l'accesso al lavoro nel settore privato. In realtà, le competenze necessarie per ricoprire gli incarichi non possono essere presunte in base al titolo di studio o al voto di laurea, ma devono essere accertate all'ingresso e nel corso della carriera con strumenti adeguati secondo le funzioni. In entrambi gli ambiti, una possibile soluzione alternativa potrebbe essere la differenziazione di titoli di studio nominalmente equivalenti (in base all'istituto o in base al percorso di studio del singolo). Questa appare come una soluzione complessa, che si presta a molte distorsioni, e non sembra presentare vantaggi rispetto all'abolizione tout court dell'obbligatorietà del titolo di studio come condizione per accedere alle professioni o al pubblico impiego. Nel caso, si dovrebbe pensare a un organismo centrale indipendente con il compito di fornire criteri oggettivi per valutare i titoli rilasciati dai singoli istituti e quelli conseguiti dai singoli individui.

In conclusione, secondo i principi della valutazione e del merito, l'abolizione del valore del titolo di studio per accedere alle professioni e ai concorsi per il pubblico impiego appare necessaria per avviare un processo virtuoso nei confronti degli istituti e degli individui migliori, ma non è sufficiente. In mancanza di sistemi efficaci e trasparenti di valutazione e di premio, attraverso i finanziamenti e la carriera, questo provvedimento potrebbe persino peggiorare anziché di migliorare le cose, mettendo ancora più in difficoltà la formazione nelle regioni più svantaggiate del paese. Sarà pertanto fondamentale che siano compresenti una serie di condizioni, come una libera competizione tra le università per l'acquisizione dei docenti, la distribuzione dei finanziamenti sulla base di una seria valutazione della qualità e interventi volti a garantire gli studi ai giovani meritevoli e meno abbienti.

Abolire il valore legale del titolo non significa negare il valore dello studio, anzi deve servire a rinforzarlo e riportarlo al suo vero significato.

di

Alberto Mantovani

Franco Brezzi

Giuliano Buzzetti

Silvio Garattini

Isabella Gioia

Giuseppe Mancia

Pier Mannuccio Mannucci

Marco Ajmone Marsan

Roberto Satolli

 


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