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Intelligenza artificiale e malattia mentale

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Ricorre in questi giorni il centenario della nascita di Alan Turing, i cui studi sono ora più attuali che mai alla luce dei passi da gigante già compiuti verso la creazione dell’intelligenza artificiale. Il metodo elaborato da Turing nel famoso “Imitation game” (spesso ricordato come “Turing test”) è ancora un punto fermo nell’immaginare un sistema per accertare se i computer, oggi sempre più sofisticati, siano dotati di autonoma intelligenza. Turing sosteneva che rispondere in modo diretto alla domanda “Può una macchina pensare?” fosse impossibile. Il suo test, dando al problema una nuova forma, poteva invece portare a una risposta sulla base di termini meno ambigui: un interrogatore avrebbe formulato alcune domande a una persona e a una macchina e le risposte di entrambi gli avrebbero consentito, con una alta percentuale di probabilità, di capire chi dei due fosse la persona e quale la macchina.

In un recente articolo pubblicato da Wired UK, Prajwal Ciryam - ricercatore presso la Northwestern University, USA- pone un parallelismo tra la metodologia del test di Turing e quella oggi seguita dalla psichiatria per stabilire se un soggetto sia affetto o meno da psicopatia. In questo secondo caso, infatti, il criterio attualmente più seguito è quello della Psychopathy Checklist (PLC-R) elaborata dallo psichiatra canadese Robert Hare che, attraverso lo studio dei sintomi del paziente, elabora un numero, da zero a 40, corrispondente al suo presunto grado di psicopatia. Su questa misurazione si basano anche le perizie degli esperti che, in sede processuale, devono rendere conto al giudice della malattia mentale di un imputato. Le statistiche dicono che tra il 40 e l’80% di coloro che vengono definiti psicopatici commettono nuovi reati dopo la prima condanna.

Ciryam riflette su come entrambe le metodologie, quella elaborata da Turing e la PLC-R, in realtà siano affette dallo stesso limite di base, ovvero l’impossibilità di trovare in modo diretto – nel cervello dell’analizzato -  la risposta alle domande cruciali (X è uomo o macchina? Y è sano o psicopatico?) e, pertanto, si limitino ad osservarne e analizzarne le manifestazioni esterne. Oggi, forse, qualcosa sta cambiando e le neuroscienze sono lo strumento principale per questo cambiamento. Lo studio del cervello di pazienti psicopatici sta rivelando alcuni tratti cerebrali tipici di questa condizione, e vengono pubblicati sempre più studi che dichiarano di aver trovato correlati cerebrali che potrebbero chiarirne aspetti fondamentali. Ciryam, nel suo articolo, cita alcuni studi sull’amigdala, che è la parte del cervello responsabile delle emozioni. In realtà, ve ne sono anche molti altri, condotti in tutto il mondo, che si concentrano su altre regioni del cervello: l'ippocampo, che regola l'aggressività e trasferisce informazioni nella memoria, e il corpo calloso, un ponte di fibre nervose che congiunge gli emisferi cerebrali.

La psicopatia non è oggi definita come malattia psichiatrica dal DSM-IV - il manuale diagnostico più utilizzato in tutto il mondo - bensì come disturbo antisociale di personalità, includendo una costellazione di caratteristiche affettive e comportamentali (tra cui, ad esempio, egocentrismo, impulsività, irresponsabilità, superficialità, assenza di empatia, manipolazione)L’apporto delle neuroscienze all’accertamento della malattia mentale, oltre a poter comportare l’inclusione di nuove malattie mentali nel prossimo manuale DSM-V, solleva anche molte questioni di tipo etico e giuridico. In base al nostro sistema penalistico, il colpevole di un reato giudicato incapace di intendere e volere non può essere punito o, se affetto da vizio parziale di mente, è condannato a una pena inferiore. I tradizionali metodi di accertamento psichiatrico di tali condizioni mentali, tuttavia, sono da sempre considerati poco affidabili. Le neuroscienze costituiscono una grande promessa in questo senso (e si annoverano studi non solo in tema di psicopatia, ma anche di schizofrenia, tendenza all’aggressività etc.) ma sono ancora a uno stadio embrionale. I suoi progressi sono da tenere in considerazione, ma nella consapevolezza che i nostri giudici potrebbero identificarvi un nuovo metodo di accertamento che superi lo stadio dell’analisi “esterna”, comportamentale, dei soggetti, per verificare direttamente ciò che il cervello “fisicamente” mostra della condizione dell’imputato. Questo timore di una deriva deterministica della giustizia è stato espresso da molti in occasione dei primi casi in cui le neuroscienze hanno fatto il loro ingresso in tribunale (si veda, ad esempio, “Delitti, genetica e neuroscienze” , in questa rubrica). Il parallelismo lanciato da Ciryam è un interessante spunto di riflessione, ma si deve poi tener conto che le conseguenze di un avanzamento nell’accertamento “diretto” di quanto il cervello può dire degli esseri umani (e non!) sono molto diverse a seconda dei casi.

Da un lato, uno sviluppo del test di Turing in relazione alle nuove frontiere dell’intelligenza artificiale si inserisce quale tassello cruciale nello sviluppo di nuovi sistemi di robotica e, in un futuro non troppo lontano, diventerà probabilmente fondamentale nella definizione della distinzione tra umano e non-umano (e la prossima sfida sarà quella di capire quali conseguenze deriveranno da questo accertamento sotto un profilo giuridico). Da un altro lato, si può già affermare che la definizione della malattia mentale non possa invece prescindere dalle sue manifestazioni esteriori. Le neuroscienze costituiranno un passo importante, ma il cervello sarà difficilmente paragonabile a un hardware, contenente tutte le risposte ben classificate in files in ordine alfabetico. E questo nella consapevolezza che l’eco dell’indagine sul nostro cervello si diffonde fino a toccare la definizione della nostra libertà.

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